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Sovranismo. Altro che restauratore del comunismo: demolisce invece «le odiose fantasie utopiche ispirate dalla Rivoluzione, ma assolutamente distruttive per qualsiasi Paese»

Protesta contro l'invasione russa dell'Ucraina, Tel Aviv

Protesta contro l'invasione russa dell'Ucraina, Tel Aviv © Ap

Quanti hanno avuta la costanza di leggere il lunghissimo discorso di Putin del 21 febbraio 2022, tre giorni prima dello scoppio della guerra? Nel discorso vi sono novità strabilianti e conferme del suo essere Putin.

Le novità riguardano il giudizio sul passato sovietico che contrasta l’etichetta su di lui come l’ex membro del Kgb, colpevole d’aver dichiarato la scomparsa dell’Urss «la più grande tragedia del Novecento», e dunque di poter essere un prevedibile pericoloso restauratore del comunismo.
Ecco come Putin definisce la rivoluzione bolscevica: «Dopo il colpo di stato di ottobre del 1917 e la conseguente guerra civile – frantumando la Russia – la politica bolscevica ha portato alla nascita dell’Ucraina sovietica, che ancora oggi può essere giustamente chiamata “Ucraina di Vladimir Lenin”. È il suo autore e architetto». Stalin poi attuò la politica di distanziamento dal passato con «il Terrore Rosso e la rapida transizione verso una dittatura stalinista, il dominio dell’ideologia comunista e il monopolio del potere da parte del Partito Comunista, la nazionalizzazione e il sistema pianificato dell’economia nazionale».

All’origine dunque vi sono: «Le odiose fantasie utopiche ispirate dalla Rivoluzione, ma assolutamente distruttive per qualsiasi Paese normale» e infine: «Il crollo del nostro Paese unito è stato causato da errori storici e strategici dei dirigenti bolscevichi, e dalla direzione del Partito Comunista, fatti in diversi momenti nella costruzione dello Stato, nella politica economica e nazionale».

Le parole che usa Putin sono le stesse che i Reagan, i Bush, i Clinton, e i sovietologi hanno fatto circolare per decenni, solo che per la prima volta la denuncia dell’ideologia comunista viene dal Cremlino, senza la consapevolezza del paradosso, senza che sia accreditata la rottura politica e istituzionale con i 74 anni precedenti. Oppure la rottura è da desumere da quel video dove in una ambientazione sfarzosa si vedono cadetti in uniforme altrettanto sfarzosa, aprire le porte a Putin che avanza?

Un Putin compreso nel ruolo di rex costruens, un ruolo mirabolante data la sua origine di figlio di un operaio della città di Pietro il grande.
Nel ruolo di rex costruens vi sono conferme della sua strategia. Difatti nella seconda parte del discorso vi è da un lato il resoconto di tutti i benefici che l’Ucraina ha avuto del suo essere parte della Russia: industrializzazione e urbanizzazione di un paese contadino e dall’altro lato la denuncia che una parte del paese era attratta «dal virus del nazionalismo» sino al colpo di stato del 2014 quando «ha ricevuto assistenza diretta da Paesi stranieri. Il cosiddetto campo di protesta in piazza dell’Indipendenza a Kiev è stato sostenuto materialmente dall’ambasciata americana per un milione di dollari al giorno».

Così l’Ucraina è divenuta una «colonia con un regime fantoccio» e al presente tende «con il sostegno militare della comunità internazionale a un confronto geopolitico con la Federazione Russa». La riappropriazione della Crimea è stata una dichiarazione di intenti rivolta agli avversari da parte del rex costruens.

Il discorso si conclude con la disamina dei rapporti tra Mosca e l’America-Nato: «Il principale avversario degli Stati Uniti e della Nato è la Russia. Nei documenti della Nato il nostro Paese è ufficialmente dichiarato direttamente come la principale minaccia alla sicurezza euro-atlantica. E l’Ucraina servirà da trampolino per un tale colpo».

Nella disamina sono elencati gli eventi che dal 1989 hanno contraddistinto le relazioni tra la Russia e l’America, e quelle dell’Unione Europea – che accoglie il cavallo di Troia dei paesi dell’Est-Europa senza rendersi conto che sarebbero diventati lo strumento in mano americana per bloccare il nostro futuro politico e militare. Non solo ignora questo nostro dramma il rex costruens della Russia – cui interessa restituire la sua dignità di grande potenza – ma non distingue tra l’avversione della Polonia e i fremiti di autonomia da Washington della Francia, della Germania, dell’Italia. Parla con Macron per ribadirgli le sue intenzioni e non si fa consigliare in russo dalla Merkel…

Nel cortile occidentale la sola eccezione è Israele. E al di fuori la Cina. Sono eccezioni che si spiegano: per Israele a causa della sua rete di finanza internazionale senza confini (che non distingue tra i business men di Wall Street, di Kiev, Londra, Mosca, Las Vegas, eccetera); per la Cina a causa della diga o ponte della politica di potenza. Se si chiudono gli occhi «sui danni collaterali» in terra ucraina – come gli americani e gli inglesi fanno in Medio Oriente e al presente nell’Afganistan dei talebani – la guerra in corso nella nostra Europa ha le sue radici nella partita tra due potenze che si sono ingigantite proprio nel combattersi. Il livello dei rispettivi apparati militari sono lì a dimostrarlo.

La guerra fredda è stata una tregua, la fine dell’Urss un’occasione che l’America è stata capace di sfruttare solo con Gorbaciov e Eltsin ma poi è arrivato l’imprevedibile, una piccola ex spia che si crede l’erede di Pietro il grande. Non di Stalin come ai politici e ai media occidentali fa comodo far credere, ma l’erede di una icona russa. E qui entra in campo la Cina, che al momento sta osservando le mosse dei due, di una America sfiancata dalle sconfitte in Medio Oriente e di una Russia che possiede capacità nucleari ma fallisce nel rifornire di benzina i carri armati e di cibo i suoi soldati, stanchi dell’attesa ai confini delle terre ucraine.

Potrà la Cina intervenire su quell’attesa, far tornare a casa i soldati, e rimandare in America l’apparato tecnologico e militare su cui si regge il presidente-attore? Sarebbe la sua prima mossa di grande potenza strategica in campo occidentale. Sarebbe l’inizio della storia del futuro?

* Storica del socialismo sovietico

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No war. Non più armi dentro un conflitto già armato ma cervello, mediazione e capacità di imporre la trattativa. E il pacifismo non può essere più un movimento intermittente

Foto

 

Oltre che per la guerra, comincio ad essere sempre più preoccupata per quanto sta già generando nel nostro paese, a cominciare dal comportamento della Tv. Domenica sera, in uno dei sui tremendi show, si è arrivati ad attaccare a testa bassa Maurizio Landini per il suo discorso alla manifestazione per la pace, accusandolo di essere quasi connivente con le Brigate rosse, e cioè “equidistante” come del resto la Cgil sarebbe stata fra stato e terrorismo. Invano Nicola Fratoianni, presente nello pseudo dibattito, ha cercato di rispondere ricordando il ruolo svolto dal sindacato nel combattere le Brigate rosse: non lo hanno nemmeno lasciato parlare, coprendo la sua voce con i più incredibili attacchi. C’è davvero da avere paura.

Sono invece stata assai felice di rivedere in piazza, dopo tanti anni, il nostro movimento della pace – nostro di noi vecchi degli anni ’80, quando c’era ancora la guerra fredda. E poi in piazza di nuovo nel momento della prima e della seconda guerra all’Iraq, quando Neesweek scrisse in copertina «È nata la terza potenza mondiale». Operante, intelligentemente, anche nella tremenda vicenda jugoslava.

Da allora sono passati quasi 20 anni. E purtroppo l’occasione di questo nostro reincontro avviene perché ci siamo sentiti richiamati dalla criminale oltrechè insensata occupazione armata dell’Ucraina. Un atto che può avere conseguenze inimmaginabili.

Se i nostri governanti e i loro menestrelli, invece di mettersi l’elmetto

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Crisi ucraina. La speranza di una soluzione negoziata del conflitto è in balia dei bombardamenti che non evitano i civili, del rilancio delle minacce fino a quella di uno scontro nucleare. La trattativa è necessaria, come dimostrano i colloqui ucraino-russi sul cessate il fuoco, e va sostenuta da una autorevole mediazione internazionale e dal ruolo delle Nazioni unite

Kiev ieri dopo un bombardamento russo © Ap/Pavel Nemecek

Gli incontri tra le delegazioni russa e ucraina si succedono mentre sul campo le armi non tacciono. La precondizione di un vero “cessate il fuoco” non è stata ancora raggiunta. La speranza di una soluzione negoziata del conflitto è indubbiamente flebile, appesa a un filo, continuamente in balia dei bombardamenti, della scia di sangue che non evita i civili, del rilancio delle minacce fino a quella di uno scontro nucleare, mentre le centrali a fissione, quelle ridotte a un deposito di scorie (Chernobil), come quelle in attività (Zaporizhzhia) diventano un obiettivo militare potenzialmente capace di innescare distruzioni umane e ambientali dilatate nello spazio e nel tempo.

Per quanto quel filo sia esile, facile a venire strappato, ancora tiene. Gli incontri non si sono interrotti e pare proseguano nei prossimi giorni. Per quanto temeraria possa apparire la speranza che si ripone in questa trattativa essa ci appare come l’unica strada realisticamente perseguibile.

Solo che andrebbe difesa e aiutata. Ma come? Intanto si può dire cosa non si sarebbe dovuto e non si dovrebbe fare. La strada di inviare “armi letali” all’Ucraina va nella direzione esattamente opposta. La questione non riguarda solo l’Italia, ma tutta la Ue e in particolare alcuni paesi che hanno avuto un ruolo tragico nella storia europea del Novecento, particolarmente nel loro rapporto con i territori della attuale Russia. Il riferimento alla Germania è d’obbligo.

Siamo di fronte a un capovolgimento delle politiche di questo paese nei confronti dell’est europeo che invece ne avevano accompagnato e aiutato la ricrescita economica e politica fino a farlo diventare un pilastro dell’Unione europea. La decisione del socialdemocratico Scholz di incrementare la spesa militare cambia di botto il ruolo della Germania, cancellando anni di Ostpolitik da Brandt alla Merkel, sebbene in chiave assai diversa.

Con questa scelta il tema della sicurezza europea assume una curvatura marcatamente bellicista. I decreti di Draghi, con il rapido passaggio dalle armi non letali a quelle che invece lo sono, cancellano la condizione di neutralità del nostro paese, garantita da una legislazione antica ma ancora vigente; rompono l’equilibrio che idealmente intercorre fra l’articolo 11 della nostra Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra …”) e il 52 (richiamato in queste pagine da Massimo Villone) che ci dice che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”; trascinano il nostro paese in una condizione di belligeranza, cosa ben diversa da una missione di peace-keeping d’interposizione, come è stata effettuata in altri luoghi e circostanze più praticabili.

Sperare che questo Parlamento possa vigilare poi sulla destinazione e l’uso di quelle armi appare davvero illusorio. Perché il filo della trattativa non si spezzi bisogna che oltre alle parti in causa prenda corpo una mediazione credibile e autorevole. In diversi hanno fatto il nome di Merkel. Non c’è dubbio che la sua figura resta ancora oggi la più autorevole sullo scenario europeo. Non è certo l’attivismo di Macron che la può sostituire, sia per deficit di credibilità sia per i suoi trascorsi d’interventismo bellico.

Ma una questione come questa che rischia di portare il mondo sulla soglia, persino varcabile, di una terza guerra mondiale, non può essere messa in mano a una persona sola. Siamo ben lontani dalla prospettiva di dare una Costituzione alla terra, come ci raccomanda Luigi Ferrajoli, ma certamente ci si dovrebbe attendere ben di più e di diverso dall’Onu.

Questa guerra ne mette a nudo i limiti e l’impotenza. La sua profonda riforma è indispensabile. Ma da subito chi lo rappresenta, a partire dal segretario generale, dovrebbe agire per costruire questa mediazione. E così vale per la Ue e i suoi organi, a partire dal Parlamento.

Dove è finita la tanto decantata Conferenza europea? Al suo posto Paesi come la Polonia già si sentono investiti del ruolo di bastioni contro il resuscitato impero del male, pretendendo in cambio di non essere tormentati sullo mancanza di uno stato di diritto, come ha affermato il premier polacco Morawiecki.

Il problema non sta nell’aprire l’ombrello della Ue per farvi precipitosamente andare sotto l’Ucraina, ma costruire una presenza fatta di politica e di diplomazia capace di sostituirsi alla Nato, il cui scioglimento sarebbe un atto storico dovuto.

La soluzione non può che essere trovata in un accordo che preveda la neutralità dell’Ucraina, nel contesto di una conferenza internazionale, come successe a Helsinki nel 1935 a favore della Finlandia. Regolando in quel quadro lo status della Crimea e del Donbass. Chi può portare avanti questa prospettiva se non un ampio movimento per la pace, articolato, ma unito sui temi di fondo. I tempi per ridare forza alla “seconda potenza mondiale” sono quelli che abbiamo di fronte.

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Costituzione rimossa. L'articolo 11 non prescrive solo il ripudio della guerra offensiva ma indica le organizzazioni internazionali come soggetti deputati a perseguire con ogni mezzo la pace

 

Vasily Nebenzya, ambasciatore russo all'Onu, lascia la seduta prima dell'intervento del delegato ucraino

Vasily Nebenzya, ambasciatore russo all'Onu, lascia la seduta prima dell'intervento del delegato ucraino  © Ap

Nel dibattito parlamentare sulla guerra in Ucraina la Costituzione è stata rimossa. Mai richiamata né nell’intervento del presidente del Consiglio, né nella risoluzione approvata con il concorso di maggioranza e opposizione. In fondo può comprendersi.

Non è facile coniugare lo scontro armato con il diritto, la guerra assieme al suo «ripudio». Ben presente invece la Nato, richiamata nel discorso rivolto alle Camere per ben sei volte. C’è allora da chiedersi se, in caso di guerra, i principi costituzionali debbano essere sostituiti con i vincoli internazionali. Domanda per nulla peregrina poiché è evidente che la crisi Ucraina ha una sua determinante dimensione globale e la soluzione deve essere ricercata coinvolgendo il diritto internazionale più che quello nazionale. Ciò non toglie però che il comportamento del nostro Governo, anche sul piano dei rapporti con gli altri Stati e nelle organizzazioni cui è parte, deve essere indirizzato dalla sua legge suprema.

D’altronde la nostra Costituzione fornisce precise indicazioni. Non tanto nelle disposizioni che prevedono il «sacro dovere di difesa della Patria» (art. 52) e dunque la legittimità della guerra difensiva (secondo quanto specificato negli articoli 78, 60 e 87), quanto nel sempre richiamato, ma poco meditato, articolo 11 della Costituzione. È questa una disposizione più articolata e meno «arresa» di quanto non si dica solitamente.

Infatti, non solo si enuncia il principio pacifista del «ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ma si indica con chiarezza in che modo si deve assicurare quest’obiettivo. In assoluta continuità concettuale, stilistica e sostanziale (l’articolo non è distinto in commi, bensì composto da un’unica frase separata da punti e virgola) si richiamano le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Nei confronti di queste, in condizioni di parità, sono ammesse limitazioni di sovranità; richiedendosi altresì che esse siano promosse e favorite. Il richiamo all’Onu è del tutto esplicito (anche storicamente fondato, basta leggere gli atti dell’Assemblea costituente).

Non può invece farsi risalire a questa disposizione né la nostra adesione alla Nato, né i vincoli di natura militare che comporta. Il che non vuol dire che sia «incostituzionale» l’adesione al patto atlantico (almeno fin tanto che si presenta come organizzazione di «difesa» dei Paesi aderenti), ma semplicemente che non è questa l’organizzazione idonea a conseguire l’obiettivo supremo della pace e la giustizia tra le Nazioni. Non è neppure difficile comprendere perché sia necessario affidarsi ad organizzazioni che perseguono la pace come obiettivo e non la difesa armata come strategia. In Ucraina, in questo momento, se vuoi la pace devi far cessare il confronto militare, non solo quello armato che sta producendo gli orrori della guerra, ma anche quello tra le potenze e gli Stati che si armano per continuare lo scontro, magari in altre forme.

È il tempo dei «costruttori di pace», ovvero di soggetti che in piena autonomia possano operare come mediatori tra le parti in lotta. Organizzazioni terze, non perché prive di giudizio – è chiaro in questo caso chi siano gli aggressori e chi le vittime – ma perché estranee al conflitto. Per poter svolgere la funzione di mediazione necessaria, infatti, non si può al tempo stesso partecipare alla guerra.

Sono note le enormi difficoltà in cui si trova ad operare oggi l’Onu. Ma, nel rispetto del principio pacifista della nostra Costituzione, ci si può arrendere e piegare alle logiche di potenza che stanno prevalendo, alla cultura del riarmo come strumento di difesa, all’orribile latinetto «si vis pacem, para bellum»? Ma veramente si pensa di poter fermare l’esercito di Putin contrapponendogli le vittime civili e armando agli aggrediti?
Non voltarsi dall’altra parte oggi vuol dire dirsi disponibili a mediare, chiedere a gran voce – l’intera comunità internazionale – una conferenza internazionale per affrontare la questione Ucraina, disposti a riconsiderare i rapporti geopolitici che ci hanno condotto alla soglia della distruzione dell’intera umanità. Una soglia che varcheremo se dovessero concretizzarsi le minacce nucleari, che vengono ormai cinicamente prospettate, con incredibile superficialità, dai vari leader del mondo.

Una domanda prima di ogni altra dovremmo a questo punto con urgenza e realisticamente porci: se non può essere l’Onu l’organizzazione internazionale in grado di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra», riaffermando «la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole» (così è scritto nel preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite), chi altri? Seguendo la via maestra della nostra Costituzione – oltre che il nostro senso dell’umano – qualunque organizzazione internazionale rivolta a tali scopi. Un ruolo non indifferente possono esercitare le organizzazioni sociali non governative, le chiese e i partiti che credono che per costruire la pace non bisogna prepararsi alla guerra.

 

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Tre Stati per la mediazione internazionale: Ankara è membro Nato, Tel Aviv risente del peso di Mosca in Medio Oriente, Pechino non vuole compromessa la sua strategia economica. L’ex capo del Mossad Halevy: per gli Usa é il momento di «salvare la faccia a Putin». Non lo merita ma così il conflitto si allarga. Anche con l’arrivo di armi europee

 

Chi può parlare con Putin? Il mondo non va tutto nella stessa direzione come vogliono far credere l’Unione europea e gli Usa recapitando armi all’Ucraina e isolando Putin. La Turchia, membro Nato, non mette nessuna sanzione a Mosca e Israele, con il suo milione di russi e ucraini in casa, corre sul filo per non inimicarsi il leader del Cremlino che da anni consente a Tel Aviv in Siria _ dove Israele si è annesso il Golan con l’approvazione Usa_ di bombardare i pasdaran iraniani quando vuole.
La Turchia, guardiano degli Stretti, del Mar Nero e del fianco sud est della Nato, a sua volta occupa un pezzo di Siria del Nord _ dove ha massacrato i curdi alleati degli Usa contro l’Isis _ e che non intende mollare. Ma dove sono le sanzioni minacciate ad Ankara dagli europei nel 2019? Vedete bene che ognuno vuole fare a pezzi le vite e i territori qualcun altro.

Questo non giustifica l’orrore dei russi in Ucraina contro i civili ma descrive soltanto quali sono gli attuali rapporti di forza. Le guerre, in genere, non ripristinano diritti ma ridefiniscono i poteri, diceva Hanna Arendt.
Adesso qualcuno comincia a chiedersi come uscirne fuori. Su Haaretz ci prova Efraim Halevy, ex capo del Mossad dal 1998 al 2002. Halevy ci dice tre cose: 1) Putin ha agitato l’arma nucleare perché l’invasione va male mentre i militari russi si aspettavano una rapida resa delle forze ucraine 2) Xi Jinping era informato da Putin dell’invasione prima ancora delle Olimpiadi, visto che i cinesi in queste settimane si sono comprati la Borsa di Kiev. Il leader cinese gli ha chiesto di fare un passo indietro ma Putin si è rifiutato. 3) Secondo Halevy per gli americani é venuto il momento, con la mediazione internazionale – magari israeliana, turca e cinese – di trovare una via di uscita alla Russia e salvare la faccia a Putin. Non perché meriti di essere salvato ma perché il conflitto minaccia di allargarsi: le forniture di armi europee e italiane sono un atto ostile anche in vista di una futura guerriglia. Girarci intorno è da ipocriti o da stupidi.

Con gli assedi alle città e i civili nel mirino dei raid la guerra sta prendendo una “piega siriana”, avverte su Grand Continent Michel Goya, ex colonnello dei marines e storico militare. Nel medio periodo, secondo Goya, l’Ucraina potrebbe diventare terreno di una guerriglia con una retrovia in Moldavia (dove sta andando Blinken), in conflitto con Mosca per la Transnistria, dove ci sono già tremila soldati russi ed è candidata a diventare il prossimo obiettivo di Putin. Siamo dalle parti della vecchia e dimenticata Bessarabia, vestigia di conflitti congelati, che fu indipendente come repubblica sovietica con capitale Odessa, poi finì alla Romania e infine all’Urss.
Più o meno come gli israeliani la pensano anche i turchi che si sono riavvicinati allo stato ebraico. Senza la Russia _ e tanto meno contro la Russia _ non è possibile nessuna sicurezza in Europa, Eurasia e Medio oriente “allargato”: questa è l’idea comune della Turchia di Israele, che ovviamente nella non ostilità a Mosca difendono le loro conquiste territoriali.

La posizione della Turchia è significativa perché ancora una volta Ankara si distacca dagli europei e dagli Stati uniti: un’astensione rilevante sulle sanzioni la sua perché parliamo del secondo maggiore esercito dell’Alleanza Atlantica. Oltre tutto Ankara ospita la grande base Nato di Incirlik e 60 testate atomiche americane. Dal 2016, col tentato golpe contro Erdogan, attribuito a un complotto gulenista e agli americani, la Turchia tiene in ostaggio l’Alleanza Atlantica. Allora tagliò la luce a Incirlik e a Istanbul la base Nato venne circondata dalle forze fedeli a Erdogan. Mai vista una cosa simile nella Nato.

I turchi sono stati chiari: “Non siamo disposti a essere coinvolti in sanzioni contro la Russia” ha affermato il ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu. Pur essendo Turchia e Russia in competizione in diversi teatri di crisi _ Siria, Libia, Azerbaijan e anche in Ucraina dove Ankara ha fornito armi e droni a Zelensky _ Erdogan e Putin hanno una relazione personale che ha portato alla cooperazione in diversi ambiti. Il più importante è quello del gas, visto che la Russia è il primo fornitore della Turchia e l’Azerbaijan il secondo con il gasdotto Tap che approda in Puglia. Il gas russo arriva con due gasdotti sottomarini nel Mar Nero (Blue Stream, costruito da Eni nel 2003 e TurkStream, in funzione nel 2020). Forniture mai interrotte, neppure con la crisi dell’ottobre 2015 seguita all’abbattimento di un jet russo in Siria da parte delle forze turche. Gli Usa, la Nato e l’Europa non possono intervenire per sanzionare la Turchia, altrimenti salta tutto.

Al di là del gas, la cooperazione si è estesa anche al nucleare, con la società russa Rosatom che sta sviluppando la prima centrale nucleare turca. All’energia si aggiunto il comparto della difesa. Nel 2019 Ankara ha acquistato il sistema missilistico russo S-400, per cui la Turchia, membro della Nato, è stata espulsa dal programma degli F-35. La Russia è quindi il terzo partner commerciale della Turchia, dopo Germania e Cina, con un interscambio di 34,7 miliardi di dollari nel 2021.
Nonostante la Turchia non abbia riconosciuto l’annessione russa della Crimea nel 2014 e le armi fornite a Kiev, Ankara si guarda bene dal compromettere i suoi interessi con la Russia. Alla faccia della Nato e degli europei.

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Costituzione e guerra. Si pone una domanda sulla compatibilità con la Costituzione della linea emersa dalle dichiarazioni di Draghi e dalla risoluzione approvata in parlamento sul conflitto in Ucraina. Una domanda legittima, che non vede risolti tutti i dubbi in uno scenario di guerra che può incidere sugli equilibri geopolitici globali

 

Si pone una domanda sulla compatibilità con la Costituzione della linea emersa dalle dichiarazioni di Draghi e dalla risoluzione approvata in parlamento sul conflitto in Ucraina. Una domanda legittima, che non vede risolti tutti i dubbi in uno scenario di guerra che può incidere sugli equilibri geopolitici globali. Segnali significativi vengono dal riarmo tedesco e dal voto nell’Assemblea generale Onu del 2 marzo.

Diciamo subito che la Costituzione non è per un pacifismo senza se e senza ma. Per l’articolo 11 «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Mentre l’articolo 52 definisce la difesa della patria un sacro dovere del cittadino. Dunque, la difesa armata è sempre consentita, ed anzi doverosa. La guerra di aggressione non è consentita mai. E certamente nessuna generazione potrebbe conoscere la differenza meglio di quella che scrisse la Costituzione.

Sì alla difesa, no all’aggressione. Un principio lineare, esteso dall’art. 11 ai contesti internazionali attraverso il richiamo a «un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» e alle «organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Si può ritenere dunque costituzionalmente compatibile il sostegno militare volto a difendere i confini di paesi alleati e membri di organizzazioni di cui l’Italia faccia parte, come ad esempio la Nato. Altra cosa è la critica, sempre legittima, che si può volgere alle politiche messe di fatto in campo dalla Nato.

Ma l’Ucraina non è nella Nato. Dunque la domanda da porre è sulla compatibilità costituzionale del coinvolgimento in una guerra tra paesi terzi. Anche qui possiamo trarre dalla Costituzione alcune chiare risposte.
È certamente compatibile l’invio di soldati e armi in compiti strettamente di peace-keeping, ad esempio come forza di interposizione tra parti belligeranti. È chiaro il nesso con i fini di cui all’articolo 11. Ma un punto focale sarà nelle regole di ingaggio da osservare in campo, che non devono tradursi nel tentativo di esportare forzosamente la democrazia con le armi. Questo è un obiettivo che l’articolo 11 non assume. Né la compatibilità costituzionale sarebbe assicurata dalla partecipazione a iniziative sovranazionali o di alleanza. Non sfuggono i dubbi che ne possono venire su non poche delle nostre missioni militari all’estero.

E se si inviano solo armi, come faremo con l’Ucraina? Qui, diversamente da qualsiasi aiuto a carattere umanitario, il dubbio è corposo. Con l’invio ci si coinvolge inevitabilmente nel conflitto, per una parte e contro l’altra. Nulla cambia, dal punto di vista costituzionale, se è una scelta condivisa sovranazionale o di alleanza. Inoltre, nella specie sembra certo che le armi di cui si può realisticamente ipotizzare l’invio non sono in grado di modificare in misura significativa il rapporto di forze in campo. L’Ucraina è soccombente. Non è banale, allora, l’opinione per cui l’invio alla fine può solo inutilmente aggravare sofferenza e morte. Certo, rimane la speranza di guadagnare tempo per il negoziato. Ma questo sostanzialmente conferma che sono altri gli strumenti principali per aprire la via alla pace: in primis, le sanzioni economiche e gli anticorpi interni che possono stimolare contro la politica di Putin.

Il dubbio poi cresce per il metodo. In ultima analisi, ogni scelta sull’invio delle armi è affidata a tre ministeri: esteri, difesa, economia. Al parlamento si promette informazione, e nulla più. Troppo poco. Ancora una volta, se ne lamenta l’emarginazione. Ma ribadiamo che ciò accade se e quando i soggetti politici che in esso operano lo consentono. Far parte di una maggioranza non significa sostenere acriticamente un esecutivo in ogni circostanza. E una diplomazia istituzionale più o meno riservata può comunicare a un governo quel che non si accetta. Si vuole davvero dare al paese il messaggio che in una vicenda cruciale di pace e guerra il parlamento – come l’intendenza – seguirà? Dobbiamo avvertire che questioni come la riforma del catasto eccitano gli animi in misura ben maggiore?

Bisognerà puntare a far meglio, comunque attivando una occhiuta e continua vigilanza parlamentare sull’esecutivo, ed affiancando a questo nel paese una severa vigilanza democratica. In ogni caso, dovremo ricordare che non esiste una lettura della Costituzione che dia ragione a Putin. Chi aggredisce con le armi ha sempre torto.

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