Milano, manifestazione contro la guerra 19/03/2022 © LaPresse
Oltre a devastare l’Ucraina, l’invasione decisa da Valdimir Putin ha ribaltato gli orizzonti di molte scelte politiche internazionali, soprattutto in Europa. È successo per le esportazioni di armi, con i Paesi dell’Unione europea che hanno deciso di ignorare norme condivise vincolanti, ma soprattutto lo si rileva sul tema delle spese militari. Un clima politico totalmente cambiato dal recente passato, in cui comunque il rialzo negli investimenti armati era in qualche modo limitato da una contrarietà nell’opinione pubblica evidenziata da diversi sondaggi. Oggi invece si cerca il consenso politico in direzione militarista.
Un consenso politico in direzione militarista che fa dichiarare con allegria al Sottosegretario alla Difesa Mulé che “non ci diciamo più che con un F-35 si costruiscono cento asili, ma che con l’F-35 ne proteggiamo migliaia”. Sempre che in futuro ci sia qualche soldo per costruirli e gestirli…
Nelle ultime settimane la Germania ha deciso di portare a 100 miliardi (praticamente raddoppiandolo) il proprio livello di spesa militare, la Francia si adeguerà e anche l’usualmente “neutrale” Svezia intende raggiungere i livelli suggeriti dalla Nato. Lo stesso è avvenuto in Italia con l’ordine del giorno votato a larga maggioranza alla Camera dei Deputati e spiegato
Leggi tutto: La strada sbagliata dell’aumento delle spese militari - di Francesco Vignarca *
Commenta (0 Commenti)All'ultimo stadio. Immaginare di programmare l’aumento di diversi miliardi di euro nei prossimi anni è un contributo all’”escalation” futura che non mi sento di condividere. Dietro a quel gesto, fino ad ora tradottosi nell’adozione di un semplice ordine del giorno non c’è l’Ucraina. Tutt’altro
Case sventrate dai raid aerei in Ucraina © Ap
Da alcuni giorni sono in Polonia dove ho visitato alcuni luoghi di confine con l’Ucraina, tra cui il punto di attraversamento e organizzazione della solidarietà di Medyka. Si tratta di un tentativo che sto realizzando in punta di piedi, per capire meglio quel che è e sarà il grande esodo costituito da chi fugge dalla guerra e per ragionare con esponenti della società civile e delle istituzioni su come far vivere azioni di sostegno al popolo ucraino. Faccio parte di quel drappello di parlamentari – italiani ed europei – che a tale proposito si era anche detto disponibile a varcare la frontiera per portarsi nelle città oggetto della folle guerra di Putin.
L’intervento del ministero degli Esteri ci ha fatto cambiare programma e, davvero senza voler fare una ridicola polemica, ho preferito recarmi comunque su parte del “campo”, per capire meglio come rendersi utili in uno scenario sempre più complesso e drammatico.
Vista dunque da qui, da dove scrivo, con ancora negli occhi le straordinarie esperienze di concretissimo aiuto che ho incontrato e la devastante stanchezza di questo fiume in piena, in larga parte composto da donne, bambini, anziani, mi vien da dire che si è di fronte ad alcune enormi necessità.
La prima, la più ovvia e certamente non affermo nulla di originale, è quella costituita dal bisogno di riapertura di una dinamica negoziale che, proprio al fine di favorire tregua, pace e ricostruzione veda l’Europa molto più protagonista.
In fondo chiedere, come stiamo facendo in tanti, a capi di governo e di istituzioni continentali, di rinunciare a “Versailles” ma di spostarsi a “Leopoli” per vertici e prese di posizione ha anche questo significato: auspicare un drammatico bisogno di un protagonismo politico più forte innanzitutto affinché si abbandoni la strada della guerra.
Tentando poi, a partire da possibili pertugi di fronte a noi, di rilanciare un processo di Pace su ampia e vasta scala. La seconda importante necessità è relativa proprio al confronto con l’esodo. Si è di fronte ad uno spostamento enorme di persone dentro lo spazio europeo: famiglie spezzate dall’orrore del conflitto, soggetti fragili, cittadine e cittadini che tentano di acciuffare frammenti di presente e di futuro.
Si tratta di una vicenda enorme, che lascerà a lungo conseguenze, e con cui l’Europa si deve misurare affrontando le difficoltà con lo spirito solidale sin qui messo in campo e con la volontà non solo, come tante volte viene scritto anche su il manifesto, di “non discriminare”, ma proprio di praticare un radicale cambiamento sulla gestione complessiva dell’immigrazione. Al fine di dare vita ad una nuova storia e non ad un’eccezione della (pessima) regola.
Le attenzioni straordinarie finalmente rivolte a chi scappa dalla disperazione e dall’aggressione devono e dovranno infatti ritrovarsi sempre. A tale proposito, peraltro, servirebbe quel coraggio che è mancato in passato affinché venga cancellata la gestione di “Frontex” e si dia vita ad un corpo di solidarietà europeo di carattere umanitario e civile capace di sostenere solidarietà e accoglienza nelle emergenze. Inoltre potremmo dire che l’Europa, come viene spesso ribadito, dovrebbe proprio a partire da questi mesi produrre un’accelerazione imponente per rafforzare politica comune, politica estera comune, difesa comune. Il tema è ovviamente essenziale.
E da sostenitore dell’autonomia strategica europea e della cultura del multilateralismo non posso che concordare con i tanti richiami rivolti in questa direzione. Con un particolare in più. Riterrei particolarmente dannoso e grave se si accompagnasse ad un simile balzo concettuale e politico un ingiustificato aumento della spesa militare.
In questo quadro ho ritenuto sbagliata la scelta operata dai deputati italiani di – come fatto anche altrove – perorare la corsa al “2% del PIL” come traguardo relativo agli impegni di spesa nel campo militare.
Immaginare di programmare l’aumento di diversi miliardi di euro nei prossimi anni è un contributo all’”escalation” futura che non mi sento di condividere. Dietro a quel gesto, fino ad ora tradottosi nell’adozione di un semplice ordine del giorno non c’è l’Ucraina. Tutt’altro. Perfino la scelta, che io considero dolorosamente necessaria, di fornire armi a chi resiste di fronte alla guerra di Putin non ha nulla a che vedere con lo sviluppo della nostra “spesa” futura per svariati miliardi.
E poi diciamoci la verità, quel che colpisce è come si parta maliziosamente dalla “coda”.
Invece che sciogliere i nodi profondi riguardanti il rafforzamento della politica comune, sino ad immaginare per l’appunto di condividere la strategia di Sicurezza, si parte dal fondo. Affermando, si perdoni la semplificazione “innanzitutto aumentiamo il denaro per gli armamenti”. Raccomanderei non solo più cautela ma, pure, di non farsi incantare dalle sirene dell’industria bellica che ancora una volta preme alla porta avendo in mente il proprio legittimo profitto.
Profitto, perseguito, non dimentichiamolo in tutti questi anni, vendendo armi a destra e a manca (perfino ignorando le raccomandazioni del Parlamento europeo).
All’Egitto di Al Sisi come, guarda un po’, alla Russia di Putin.
* Europarlamentare del Pd
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Crisi ucraina. Putin dittatore revanscista «vince» ma a prezzo dell’erosione del suo potere e a spese del dolore di migliaia di civili ucraini e ragazzi russi mandati a morire e di milioni di profughi
In ogni conflitto si sprigiona la “nebbia della guerra”, il polverone impenetrabile che si leva dal terreno. Per orientarsi, bisogna ricordare che le guerre tra imperi grandi e piccoli, in ascesa o decadenti – perché di questo si tratta oggi – seguono una logica autonoma, al tempo stesso spaziale e temporale.
Spaziale: ogni impero tenderà a crearsi una zona di influenza ai confini che lo protegga dall’analogo movimento del vicino o competitore e ne attutisca le minacce strategiche e tattiche. Così, l’aggressività nazionalista della Russia di Putin è del tutto speculare a quella della Nato, soprattutto nei membri più recenti, come i paesi baltici e tutti gli ex membri del Patto di Varsavia, a cominciare dalla Polonia, entrati poi nella Nato, e ovviamente per la crisi dell’Ucraina. Temporale: ogni impero o parte di impero, attuale o potenziale, cercherà nel passato motivazioni e giustificazioni del proprio comportamento spaziale.
È del tutto ozioso stabilire se la rivolta di piazza Maidan a Kiev nel 2014 fosse spontanea o in larga parte promossa e sostenuta da forze esterne (probabilmente, era entrambe le cose). Sta di fatto che rappresenta la base ideologica, emotiva e politica a cui entrambi i competitori attingeranno per giustificare la propria azione e motivare gli attori sul terreno (combattenti, politici ecc.). Ogni impero reale o potenziale dispone della memoria di questo complesso di motivazioni. La memoria stabilisce le condizioni di adesione a una parte o all’altra al conflitto: il revanscismo russo è del tutto speculare al timore realistico, degli stati baltici e dell’Europa orientale, che la Russia voglia ricostituire a spese loro la parte occidentale del proprio impero.
Le guerre vengono combattute in base a pianificazioni strategiche e calcoli tattici per definizione sbagliati. La storia non ha mai offerto esempi di conflitti armati che si siano conclusi in base ai piani iniziali. Ciò vale per l’invasione napoleonica della Russia, lo scoppio della prima guerra mondiale, i piani di conquista di Hitler, la guerra del Vietnam e così via. La “nebbia della guerra” viene preceduta dalla “nebbia della pace” o, se vogliamo, la “guerra in atto” segue la “guerra potenziale”, per definizione foriera di errori di valutazione. Il conflitto in Ucraina ci offre un chiaro esempio di sovrapposizione di errori speculari.
La Nato non si aspettava, sino all’estate del 2021, che la Russia accumulasse il proprio risentimento armato e si preparasse all’invasione. D’altra parte, Putin – con un’opinione pubblica in parte ostile a una guerra contro una popolazione sorella – non si aspettava che la propria armata, due terzi circa di quella disponibile all’intervento, si impantanasse in un conflitto con un’Ucraina largamente ostile.
Quanto all’Ucraina l’ingenuità del presidente Zelenskyi e il cinismo delle autorità della Nato e dell’Unione europea (in varie gradazioni) sono clamorosi. Dopo aver impostato, a partire da piazza Maidan la propria azione come filo-occidentale e filo-Nato, con la cacciata di Yanukovic, oggi il governo ucraino è disposto a rinunciare all’Alleanza e probabilmente a riconoscere le repubbliche separatiste russofone e la Crimea. Una valutazione delle forze in campo tre settimane fa avrebbe facilmente fatto prevedere questo esito. Il cinismo occidentale emerge non solo nell’incessante soffiare sul fuoco della propaganda, ma nell’aver fatto credere all’Ucraina che la Nato l’avrebbe sostenuta contro Putin, a parte l’effettiva fornitura di armi leggere, missili antiaerei e sistemi elettronici.
La richiesta incessante da parte di Zelenskyi di una no-fly zone, che non verrà mai attuata, esprime pateticamente il sovrapporsi di ingenuità dell’uno e cinismo degli altri. Né Biden, né le autorità dell’Alleanza atlatntica si spingeranno mai ad avviare una sequenza di azioni e reazioni che potrebbe scatenare un conflitto generale, anche se non nucleare.
Così Putin, tatticamente sconfitto, sta vincendo sul piano strategico. A che prezzo? Per cominciare, a quello della visibile erosione di parte del suo potere politico ed economico. Il default finanziario incombente lo costringe a legarsi alla Cina, che, come unico mercato di sbocco per le materie prime russe, assoggetterà l’economia di Mosca.
E soprattutto a spese della sofferenza di migliaia di civili e militari ucraini e ragazzi russi mandati a morire nella steppa – e di milioni di profughi ucraini, donne e bambini costretti a lasciare il proprio paese bombardato.
Scrivo queste parole, deliberatamente lontane dalla facile emotività oggi dilagante, con il cuore oppresso da una sensazione di impotenza e fatalità. Sotto le logiche più o meno automatiche degli imperi ribollono le illusioni delle popolazioni, le ideologie, le proiezioni fantastiche in orizzonti spaziali e temporali, il dolore e la sofferenza vera che non verranno rimarginati se non dal tempo, ma senza alcuna garanzia che la cecità strategica e la forza delle armi dispiegata non comportino alla fine disastri inimmaginabili.
C’erano alternative? Risponderò con un apologo storico, che trovo in Counterpunch una rivista della sinistra americana specializzata in analisi politiche interne e internazionali. Quando i nazisti invasero Danimarca e Norvegia nel 1940, si trovarono di fronte a due reazioni diverse. La combattiva Norvegia scelse di resistere, sostenuta da Inghilterra e Francia, fu occupata dopo un breve conflitto e il suo governo andò in esilio. La disarmata Danimarca scelse la resistenza passiva – accettò la sconfitta – e cercò di coesistere con il regime nazista. Il re girava con la stella gialla sul petto e i nazisti non sapevano come comportarsi.
Nel 1943, nel corso di una notte, pescatori e diportisti danesi riuscirono a trasportare in Svezia gli ebrei di Danimarca attraverso l’ Øresund, beffando Hitler. Un’azione diversamente eroica, che esprime la nobiltà di quella società nordica. Resistere con le armi o accettare una sconfitta oggi che potrebbe portare a una vittoria domani: ecco una scelta tra due strategie che non possiamo chiedere al dittatore revanscista Putin, ma a chi lo contrasta in nome dei valori democratici. Qualche leader Nato avrebbe dovuto suggerirla a Zelenskyi, se solo entrambi avessero un minimo di cultura storica.
Commenta (0 Commenti)Scenari. L’unica europea ad avere ascolto sia da Washington che da Mosca (e Kiev) era Angela Merkel. I tempi di questa crisi sono stati scanditi da Putin e da Biden sul suo passo d’addio
Una “grande” Nato, una piccola Europa e una Cina asso pigliatutto. Così ci avviciniamo, si spera, a un cessate il fuoco, almeno secondo il Financial Times che parla di un piano in 15 punti.
L’aspetto significativo è che la neutralità dell’Ucraina sarebbe garantita da Stati Uniti, Gran Bretagna e Turchia, tre Paesi Nato ma non membri dell’Unione europea. Insomma questa non è una battaglia per fare entrare più Europa nell’Ucraina ma casomai ancora più Nato, sia pure in forma di neutralità “mascherata”. Perché si capisce che l’Ucraina resterà terreno di provocazioni per un bel po’ di anni.
Questo è il punto critico della vicenda. La Nato avanza e l’Europa arretra. La Germania, accantonando decenni di antimilitarismo, poche ore dopo l’inizio del conflitto ha annunciato lo stanziamento di 100 miliardi per rafforzare la Bundesweher. La locomotiva d’Europa – 83 milioni di abitanti e per Pil quarta potenza del mondo – in prospettiva si rende autonoma da Bruxelles e lascia gli altri europei, con i loro discorsi sulla difesa, alla guida della Francia, unica potenza nucleare della Ue e membro del consiglio di sicurezza della Ue.
La decisione tedesca ribalta 77 anni di era postbellica, mette alla frusta Bruxelles e intende tenere a bada anche l’Est che con Paesi come la Polonia – che viola lo Stato di diritto e pretende il primato della sua legge su quella della Ue – dimostra di obbedire più agli Usa che a Bruxelles. E sono loro che vanno a Kiev assediata a rappresentare per primi l’Europa.
È vero che siamo ancora nella fase dove si sparano troppi missili e troppe parole per arrivare a una soluzione. Mentre troppi civili sono in pericolo e in fuga sotto le bombe. Ma è evidente che sia Putin che Zelensky devono salvare la faccia, salvarsi dalle loro insidie interne, dell’aggressore e dell’aggredito. Non è un’operazione semplice. Il primo è una volpe imperiale che ha fatto i conti sbagliati ed è finito nella trappola ucraina. Il secondo è un ex comico che si propone come Churchill e pensa di salvare il mondo (con la no-fly zone?). Con l’aiuto naturalmente dei media che per contrastare la propaganda di Putin ci fanno trangugiare anche la sua, come la strage dei civili a Donetsk del 14 marzo attribuita dai nostri giornali ai russi invece che ai missili ucraini.
Peggio ancora, in termini di ipocrisia o realpolitik, sono i loro amici e nemici. O meglio quelli che fingono di appartenere a una delle due categorie ma fanno i loro interessi. Gli americani, amici di Zelensky, lo accolgono al Congresso, virtualmente, con ovazioni da stadio. Ma Biden ha già detto e stradetto che non manda la Nato a fare la non fly zone per evitare la terza guerra mondiale. Gli ucraini dunque devono fare una guerra per procura con il braccio legato dietro alla schiena. Un po’ come i curdi siriani contro il Califfato, poi abbandonati dall’America di Trump al massacro della Turchia di Erdogan. La storia si ripete: la differenza è geografica e che ora il massacro lo abbiamo sotto gli occhi.
Gli europei quel che possono fare è accogliere in maniera umanitaria i profughi – come avrebbero dovuto fare sempre però. Quanto alle armi inviate a Kiev, anche dall’Italia, questa è davvero una amara barzelletta: la maggior parte stava già dentro prima della guerra e quella che vediamo è una sceneggiata a uso e consumo delle opinioni pubbliche continentali. Intanto l’Italia adegua il suo bilancio per la difesa di ben 13miliardi, alla faccia della crisi sociale anche da pandemia. L’Europa ha visto la crisi ucraina, prima del suo esplodere, come da un condominio di anziani.
Dell’Ucraina se ne occupano dai tempi della rivolta di EuroMaidan gli americani. Non gli europei. L’unica che avesse voce in capitolo sia con Washington che Mosca (e Kiev) era Angela Merkel. I tempi di questa crisi sono stati scanditi sia da Mosca che da Washington sul suo passo di addio. Su questo non ci sono dubbi. E chi perde di più è sicuramente l’Europa dove le sanzioni alla Russia rimbalzano facendo i danni maggiori. Sfido chiunque di quelli che oggi fanno le liste di proscrizione sui quotidiani italici a dire un mese fa che non bisognasse fare affari con Mosca e gli oligarchi. Gli oligarchi qui pagavano tutti: persino la nostra ambasciata a Mosca è stata restaurata con i loro soldi e nessuno ha avuto niente da ridire. Come nel 2011 a nessuno facevano schifo i soldi di Gheddafi. Che poi noi abbiamo allegramente bombardato con la Nato.
Quanto agli amici di Putin, il maggiore è la Cina. Mentre Israele e la Turchia – membro storico della Nato – agiscono da mediatori anche per difendere i loro interessi nazionali. Tanto è vero che non hanno imposto alcuna sanzione a Mosca: sono mediatori interessati e anche gli Usa stanno zitti e mosca. Come noi europei che continuiamo ad acquistare il gas russo, ovvero a finanziare la guerra di Putin, altrimenti dovremmo spegnere la luce.
La Cina è il più enigmatico degli alleati che Putin potesse trovare. Da questa crisi è la potenza che probabilmente uscirà meglio insieme gli Stati Uniti. I cinesi sono i maggiori partner commerciali dell’Ucraina e comprano gas e petrolio dalla Russia. Con il rublo in caduta libera i cinesi stanno negoziando quote delle società che producono energia e materie prime. Lo yuan è già entrato nelle imprese e nelle case russe come moneta di scambio internazionale. E venerdì scorso la Cina in un meeting con l’Unione economica euroasiatica (Russia, Kazakhstan. Bielorussia, Kirghizistan e Armenia) ha annunciato un nuovo sistema internazionale monetario e finanziario in alternativa al dollaro. Da Oriente, e non solo, L’Europa chi l’ha vista?
Commenta (0 Commenti)Riace
Nel 2015, dopo gli esiti tragici delle “Primavere arabe”, una massiccia ondata di profughi dal Nordafrica verso l’Europa era prevedibile. Eppure, il nostro Paese si fece cogliere impreparato, impantanandosi nella polemica tra fautori dell’accoglienza e oppositori.
Della accoglienza sempre e comunque – spesso poco attenti alle condizioni strutturali della stessa e al suo impatto effettivo sulla vita delle persone – e oltranzisti del respingimento, ostili per principio a qualsiasi possibilità di “fare spazio” ai richiedenti asilo nella nostra società e nei nostri territori. A prevalere fu la lettura emergenziale del fenomeno e, quindi, la scelta politica di allestire grandi hotspot e centri di accoglienza ad hoc, spesso situati ai margini di aree metropolitane già gravate da disagio sociale.
Nonostante ciò, tra il 2015 e il 2018, si è realizzata una effettiva redistribuzione dei richiedenti asilo sul territorio nazionale dagli effetti in gran parte imprevisti. Nel quadro di una politica di ricollocamento che mirava a sgravare le grandi città del peso della accoglienza e grazie alle capillari iniziative dei sindaci e della società civile siamo giunti ad avere nel 2018 oltre il 40% dei profughi ospitati in aree interne, spesso in piccoli progetti legati all’allora sistema Sprar.
Come documentato dalle ricerche condotte in quegli anni (tra cui lo studio sui “montanari per forza” realizzato da Dislivelli e la ricerca sugli “Alpine Refugees” condotta da ForAlps), proprio queste aree sono state spesso in grado di fare leva sull’arrivo dei profughi per ridare linfa a comunità stremate dal punto di vista demografico, economico e sociale. Grazie alla sinergia tra i fondi statali per l’ospitalità e le capacità di innovazione dimostrate dai soggetti territoriali: riattivazione di economie circolari, creazione di piccole cooperative di lavoro, manutenzione dei beni comuni, servizi di prossimità per gli anziani, formazione professionale indirizzata alle vocazioni territoriali; ma anche mantenimento degli sportelli postali, del trasporto pubblico locale, di piccole scuole a rischio di chiusura.
La presenza dei rifugiati nelle aree interne ha generato un impatto globalmente positivo per le comunità ospitanti (come analizzato dal progetto europeo Matilde), senza nascondere alcuni elementi di criticità: dove sono mancati interventi e politiche di radicamento locale, legati al lavoro e alle relazioni sociali, tanti infatti sono gli stranieri accolti che alla fine si sono spostati in città.
Eppure il nesso tra accoglienza dei profughi e sviluppo territoriale non è stato messo al centro di alcuna politica nazionale negli anni a seguire: anzi, una nuova retorica politica ha finito con l’imporsi, propagandando con violenza l’equazione tra rifugiati e costo sociale, tra immigrazione e minaccia per la società.
Lo smantellamento del sistema Sprar, la denigrazione e poi l’attacco giudiziario al caso emblematico di Riace, la totale indifferenza verso le morti nel Mediterraneo sotto la bandiera del respingimento ad oltranza, sono alcuni dei principali passaggi che ci hanno portato a non aver fatto tesoro di quelle esperienze positive; perlomeno non a livello di Stato centrale e di quei soggetti che oggi si devono occupare del nuovo, incredibilmente maggiore e complesso arrivo di profughi dall’Ucraina.
Oggi sappiamo che decine, forse centinaia di migliaia, , sono in arrivo in Italia nelle prossime settimane. Sappiamo che giungeranno anzitutto nelle grandi città, già provate da due anni di pandemia claustrofobica, con la crisi energetica, il crescente costo della vita e la penuria di alloggi disponibili: città che non sembrano in grado di accogliere, inserire e includere tutte queste persone, se non a costo di enormi tensioni sociali.
A fronte delle ingenti risorse economiche che il governo si troverà a dover stanziare per garantire l’accoglienza dei profughi (questa volta unanimemente non respinti), si apre allora una occasione per rivitalizzare il sistema del ricollocamento, privilegiando proprio le aree interne. Immobili che si possono riqualificare, comunità in sofferenza demografica, servizi territoriali che possono trovare nuovi utenti: accogliere i profughi nei piccoli comuni delle aree interne – nel quadro di un piano nazionale che sappia coniugare emergenza e programmazione, solidarietà e sviluppo locale, e che riconosca il protagonismo degli abitanti di questi territori – può essere dunque una azione lungimirante. Certo dobbiamo essere consapevoli del cambio di scala imposto da questi flussi, della prevalenza di donne e di bambini, della differenziazione interna per istruzione e qualificazione professionale.
Bisogna inoltre considerare il carattere presumibilmente temporaneo di buona parte di questa ondata immigratoria, con aspettative di rientro al proprio Paese nel medio periodo e aspirazioni da rispettare. Le città resteranno il primo polo di inserimento di queste persone: tuttavia, proprio a partire dalla accoglienza diffusa in aree interne, abbiamo oggi la possibilità di aprire una pagina nuova. Non facciamoci cogliere impreparati come nel 2015.
L’autore fa parte dell’Associazione Riabitare l’Italia
Commenta (0 Commenti)Austria e Svezia. Modelli differenti che aprono lo spiraglio per la soluzione politica della guerra tra Russia e Ucraina
Aldo Garzia
Neutralismo modello Austria o Svezia? È questo lo spiraglio per la soluzione politica della guerra tra Russia e Ucraina. Nella Costituzione di Vienna compare infatti una formale dichiarazione di neutralità dal 26 ottobre 1955: stabilisce che l’Austria non può prendere posizione sulle controversie internazionali. Ha più di un secolo invece il neutralismo della Svezia che risale alle fine delle guerre napoleoniche.
Dal 1945 al 1955 il territorio austriaco fu occupato da truppe sovietiche, statunitensi, francesi e britanniche (le prime ad arrivare furono quelle di Mosca). L’attuale neutralismo austriaco è la conseguenza dell’accordo firmato tra Unione sovietica e il governo di Vienna il 26 ottobre 1955 (è passato alla storia come «memorandum di Mosca»). Si formalizzava così lo status del paese invaso da Hitler (la famosa Anschluss del 1938) in un modello politico simile a quello della Svizzera. Nel maggio dello stesso anno il governo sovietico controfirmava l’accordo dandogli l’alta dignità di una intesa tra Stati. La riuscita mediazione internazionale impedì di conseguenza l’adesione dell’Austria alla Nato. Quest’ultima era considerata da Mosca la condizione preliminare del ritiro dei propri armamenti da quella porzione di Europa. Stati uniti, Francia e Gran Bretagna diedero il proprio beneplacito a quella soluzione diplomatica.
Un ruolo di primo piano nel negoziato fu svolto da Leopold Figl, ministro degli Esteri di Vienna, che diede la notizia dell’intesa raggiunta affacciandosi dal balcone del Castello del Belvedere della capitale austriaca. Il 26 ottobre 1955 tutte le truppe straniere abbandonarono il paese. Quella data è ora la festa nazionale austriaca. Nel 1994, è stata riformulata la neutralità costituzionale austriaca: «All’Austria è attribuita la difesa nazionale nel suo complesso. Il suo compito è quello di proteggere l’indipendenza verso l’esterno, nonché l’inviolabilità e l’unità del territorio federale, particolarmente per preservare e difendere la neutralità perpetua. In questo modo anche le istituzioni costituzionali e la loro libertà di azione, nonché le libertà democratiche della popolazione vanno protette e difese da aggressioni violente dall’esterno». È una soluzione che potrebbe calzare a pennello per il caso Ucraina.
Molto diversa è la storia della Svezia, paese rimasto neutrale nella Prima e Seconda guerra mondiale. Il governo di Stoccolma diede però l’autorizzazione formale ad attraversare il proprio territorio ai convogli hitleriani che si dirigevano verso l’Unione sovietica passando per Danimarca e Norvegia. Stessa autorizzazione fu poi data alle truppe antihitleriane dal 1944 in avanti. Nel 1949, venne poi la scelta svedese di non far parte della Nato confermando il proprio status di «neutralità convenzionale».
I governi socialdemocratici svedesi del secondo dopoguerra – in particolare quelli guidati dal premier Olof Palme – si sono caratterizzati per la propria Ostpolitik dialogante tra Ovest e Est, molto simile a quella seguita dal socialista Willy Brandt nella Germania federale. Dopo gli eventi seguiti al 1989 (caduta del Muro di Berlino, dissoluzione dell’Urss), la Svezia ha aumentato i propri investimenti nella politica di difesa e di collaborazione con i paesi nordici aderenti al Patto Atlantico. Nel 2015 in particolare è stato rafforzato il dispositivo di difesa che ha nell’isola di Gotland del mar Baltico la propria base strategica.
Recenti sondaggi di opinione indicano che una risicata maggioranza di svedesi è attualmente per mantenere la neutralità storica del proprio paese. L’invasione russa dell’Ucraina fa paura pure a Stoccolma.
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