Congresso Fuori dai radar mediatici, si sta svolgendo in queste settimane il congresso di Rifondazione comunista. E meritano attenzione i termini del duro scontro in atto, non solo per le sorti del partito, ma anche per le implicazioni più generali che suggeriscono
Fuori dai radar mediatici, si sta svolgendo in queste settimane il congresso di Rifondazione comunista. E meritano attenzione i termini del duro scontro in atto, non solo per le sorti del partito, ma anche per le implicazioni più generali che suggeriscono.
«Il congresso più difficile della nostra storia, in cui è in gioco l’esistenza stessa di Rifondazione comunista», si legge in apertura del documento firmato dal segretario uscente, Maurizio Acerbo; altrettanto severi i toni del documento alternativo, firmato tra gli altri da Paolo Ferrero: «Per rilanciare il Partito è necessario fare i conti con la nostra debolezza», dovuta «innanzitutto all’attuale assenza di una prospettiva politica chiara, di un ruolo da svolgere nell’Italia di oggi».
Ora, lasciando da parte gli aspetti retrospettivi, su cui i documenti si soffermano con ricostruzioni divergenti del passato, si può individuare la linea discriminante della discussione: il rapporto tra identità e autonomia del partito, da un lato, e le possibili alleanze politiche, dall’altro.
Da una parte (tesi Acerbo) si denuncia come, nell’altro documento, il rilancio del Prc sia prospettato solo «in un ripiegamento settario, nel rifiuto pregiudiziale di ogni possibile alleanza» e «nell’isolamento identitario»; e si oppone a ciò, una «riscoperta del ruolo della politica, condizione indispensabile per superare, in ogni situazione, le condizioni dello stato presente e fare muovere le cose in avanti».
Nell’altro documento, si sostiene invece che, qualsiasi strategia di alleanze debba essere subordinata alla «modifica dei rapporti di forza dentro le opposizioni», e si assume come esempio il caso francese di Mélenchon che, «da oltre un decennio», ha lavorato a costruire una sinistra di alternativa, «rifiutando ad ogni livello accordi con il partito socialista», e che «solo dopo aver ribaltato i rapporti di forza elettorali con il partito socialista nelle elezioni presidenziali», ha poi proposto e costruito l’unità della sinistra.
Naturalmente, non spetta a chi scrive schierarsi per una o l’altra di queste tesi. Sono possibili però alcune considerazioni di ordine più generale, a partire da una domanda: è possibile uscire dalla gabbia concettuale secondo cui «le alleanze» sono la cartina di tornasole, il metro di misura, della propria identità? Per dirla, in termini più spicci, è proprio vero che, in politica, si possa applicare il detto «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei?».
Quando si ha una propria identità politica, forte di una propria autonomia culturale, non si teme la contaminazione, la questione delle alleanze perde il suo carattere pregiudiziale, e si apre la via ad una prassi di possibili mediazioni sul piano programmatico. Nessuno, ovviamente, può sostenere alleanze apertamente contraddittorie con il proprio profilo, ma si può e si deve distinguere tra le finalità generali che una forza politica si propone e i passaggi a breve e medio termine che possono essere compiuti. Non regge una visione esclusivista delle proprie «verità»: nell’ambito delle forze democratiche e di sinistra vi è un pluralismo costitutivo di idee e nessuno può ergersi a portatore della linea «giusta».
Ma c’è anche un secondo elemento, specifico della situazione italiana: giustamente, nei documenti citati, si denuncia la logica perversa del maggioritario che domina da anni nella politica del nostro paese. Il paradosso, tuttavia, è che si rimane subalterni a questa logica quando il tema delle alleanze viene ad assumere un’indebita centralità, e soprattutto quando si ignora la necessaria distinzione tra il piano degli accordi elettorali e il piano delle alleanze politico-programmatiche e della proposta di governo. Specie in presenza di un sistema elettorale come quello oggi vigente in Italia, è possibile, – e credo sarà doveroso – sfruttarne i meccanismi e realizzare forme di coordinamento tra il più ampio possibile arco di forze democratiche. Accordi che puntino a neutralizzare proprio gli effetti distorsivi del maggioritario. Con un obiettivo politico, che molti tendono colpevolmente a sottovalutare: impedire quanto meno che, come nel 2022, la destra – capace sempre di compattarsi – ottenga una super-maggioranza in grado, come i fatti stanno dimostrando, di mettere ulteriormente a repentaglio i fondamenti costituzionali della nostra democrazia; e, perché no, provare anche a determinare nuovi rapporti di forza in parlamento. Vi pare poco?
Attorno a questo obiettivo possono convergere forze molto diverse: da quelle che si pongono un orizzonte rivoluzionario a quelle che vogliono difendere i principi del costituzionalismo liberal-democratico. E se si ritiene, come alcuni sostengono con buone ragioni, che sia necessario anche il «centro», perché mai le forze della sinistra radicale dovrebbe essere escluse, o auto-escludersi, o che non possano finalmente provare ad avere una propria rappresentanza parlamentare?
Ho l’impressione che tra gli elettori di sinistra ci sia una certa stanchezza e ritrosia ad intraprendere l’ennesima «traversata nel deserto»; nel deserto, si sa, si incontrano poche oasi e molti miraggi.