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“Diritto al lavoro, il teatro come informazione, memoria, lotta”

Intervento di  Angelo Emiliani

I numeri da soli non consentono di comprendere gli effetti di una crisi senza precedenti, ma è da questi che dobbiamo partire. Dall’ottobre 2008 sono 477 le aziende del territorio faentino che hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali (cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga, contratti di solidarietà). Occupavano 7.660 lavoratrici e lavoratori, passati – il dato è del dicembre scorso – a circa seimila. Ciò significa che nello stesso arco di tempo si sono persi più di 1.600 posti di lavoro, uno su cinque.
Il saldo pesantemente negativo è dovuto sì a pensionamenti, a dimissioni volontarie e

al mancato turn over, ma soprattutto a cessazioni di attività, a riduzioni di organico, a fallimenti.
Sempre a fine 2014, inoltre, risultavano 405 i lavoratori in cassa integrazione.
A questi numeri, tali da configurare un quadro drammatico, andrebbero aggiunte le tante persone – giovani soprattutto: precari, partite IVA, stagionali e altri ancora – coinvolte dalla crisi ma non censite perché escluse da ogni forma di integrazione al reddito.
L’effetto è un impoverimento generale dell’intera comunità. Basta poco per fare i conti: se calcoliamo – sulla base di una valutazione prudenziale – che ciascuno degli oltre 1.600 che hanno perso il lavoro ha visto il suo reddito decurtarsi mediamente di 500 euro al mese (differenza fra la retribuzione piena e quanto risulta per riduzioni di orario, Cig, trattamento di disoccupazione o indennità di mobilità), a Faenza e nei Comuni vicini ci sono 800mila euro al mese in meno in circolazione, più di dieci milioni all’anno.
E’ soprattutto questo – la mancanza di lavoro – la causa vera della chiusura di tante attività commerciali, della sofferenza in cui versano le piccole imprese, del crescente disagio sociale e della comparsa di nuove aree di povertà.
Le prospettive a breve-medio termine non inducono certo all’ottimismo.
Le aziende metalmeccaniche sono state fra le prime a risentire della crisi scoppiata nell’autunno del 2008, ma in generale hanno poi saputo avvalersi dell’andamento positivo delle esportazioni. Versano in grandi difficoltà quelle dell’impiantistica legata alle costruzioni.
Il settore tessile, fino a pochi anni fa strategico per l’economia locale e per l’occupazione delle donne, è oggi praticamente scomparso. Delle lavoratrici ex Omsa, le 58 ancora senza lavoro verranno messe in mobilità da aprile.
Negli stabilimenti di Ceramica d’Imola, dopo quattro anni in contratto di solidarietà, è previsto l’ulteriore ricorso agli ammortizzatori sociali e, nonostante la forte contrazione degli organici già avvenuta, il vertice del gruppo continua a dichiarare 250 esuberi.
Dal 2007 il settore delle costruzioni ha perso in ambito provinciale – stando ai dati della Cassa edile, l’ente bilaterale che paga la 13ª mensilità e l’anzianità professionale – ha perso tremila addetti, un quarto dei quali nel faentino. E’ noto come il settore sia da anni interessato da fenomeni di frammentazione, abusivismo e subappalto.
L’ATL, azienda insediatasi nello stabilimento ex Omsa e che ne ha assorbito parte delle lavoratrici, subisce le forti oscillazioni di mercato e potrebbe anch’essa ricorrere alla cassa integrazione fin dalle prossime settimane.
Nei magazzini ortofrutticoli si è lavorato molto per l’abbondante produzione, ma l’ulteriore annata di scarsa remunerazione per i produttori, dovuta all’andamento climatico che ha penalizzato qualità e conservabilità, potrebbe indurre molte aziende agricole ad espiantare i frutteti e a reinvestire i terreni in colture che offrono minore occupazione.
Ma un altro fattore ancora suscita forti e fondate preoccupazioni: la cassa in deroga (riguarda centinaia di persone occupate nelle piccole aziende) esaurirà i fondi nel prossimo aprile e la legge di stabilità 2015 non ne prevede il rifinanziamento.
Questi dati e questi sommari elementi di conoscenza vengono dall’ufficio studi della Cgil provinciale. Altri possono essere reperiti presso la Camera di Commercio (anagrafe delle imprese), l’Inps (trattamenti di disoccupazione e ore di cassa integrazione), le associazioni di categoria (commercianti, artigiani e coltivatori per gli andamenti nei rispettivi settori), le associazioni di volontariato (per il disagio sociale).

Sorprende il fatto che in questi anni nessuna amministrazione pubblica abbia mai avviato una raccolta sistematica di tutti i dati disponibili e una loro elaborazione per comprendere cosa sta avvenendo e perché.
Non si tratta di soddisfare una curiosità statistica: senza conoscerne adeguatamente gli effetti, non si vede come sia possibile mettere in campo misure – quelle possibili stanti i vincoli e le condizioni di bilancio – per far fronte alla crisi.
Basta un esempio: metà degli oltre 1.600 posti di lavoro persi sono nel settore delle costruzioni. E’ pensabile che si inverta la tendenza sperando nella ripresa o affidandosi alle dinamiche del mercato quando è noto che ci sono migliaia di appartamenti vuoti (fra invenduti e sfitti)?
Non è piuttosto necessario puntare al recupero e al risanamento dell’esistente, alla messa a norma degli impianti, a interventi per il risparmio energetico? Se così è, servono indirizzi di politica abitativa e di gestione del territorio, servono nuove professionalità e quindi percorsi di formazione.
Lo stesso si può dire per i servizi sociali, posti di fronte a domande nuove per qualità e dimensione. Ma anche per favorire un più efficace incrocio fra domanda e offerta di lavoro e per sostenere lo sforzo delle piccole imprese nell’accedere al credito, nel proporsi sui mercati, nell’innovarsi, nel contenere i costi di gestione.
Dalla crisi non si esce senza mettere in discussioni le cause che l’hanno generata. Il primo compito è comprendere in tutta la sua gravità quanto sta avvenendo per poi assumere le decisioni giuste, così da combattere efficacemente le crescenti disuguaglianze e soccorrere le tante famiglie che versano in difficoltà.