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L’ipoteca sull’Europa I sondaggi della vigilia sono stati pienamente confermati dai risultati delle elezioni tedesche straordinariamente partecipate di domenica scorsa. Rispecchiavano, infatti, in pieno lo smottamento a destra in corso in tutto […]

Prescindere dall’ultradestra sarà impossibile

 

I sondaggi della vigilia sono stati pienamente confermati dai risultati delle elezioni tedesche straordinariamente partecipate di domenica scorsa. Rispecchiavano, infatti, in pieno lo smottamento a destra in corso in tutto il Vecchio continente e l’incapacità delle forze moderate e conservatrici di farvi fronte. O, peggio ancora, la tentazione di trarre vantaggio da un ambiguo gioco di sponda con l’ultradestra.

Tratta per metà come temuta concorrente e per metà come spauracchio utile a rintuzzare le eccessive pretese di redistribuzione sociale da parte di scomodi partner di coalizione più o meno orientati a sinistra. È così in Francia, in Austria, in Olanda, in Scandinavia, per non parlare dei paesi dove l’estrema destra è già senza ostacoli al governo. In Germania, è vero, fa più impressione e non solo per ragioni storiche, ma anche per l’enorme peso della Repubblica federale in Europa. Tanta impressione da avere portato in piazza nelle ultime settimane due milioni di persone contro l’Afd e qualunque ipotesi di una partecipazione di questo partito alla gestione del potere. E da aver determinato l’inatteso ottimo risultato della Linke, in particolare tra i giovani.

L’ultradestra di Alice Weidel con il suo 20 per cento, conquistato peraltro senza alcuno sforzo di maquillage borghese, non dispone ancora del potere di ricatto che si è conquistato il Rassemblement national in Francia, ma è una presenza ingombrante e dalla quale sarà impossibile prescindere, avendo alle spalle le mire aggressive dell’America di Trump e le simpatie della Russia che, nel bene e nel male, fa parte di uno spazio di interscambio economico, e non solo, vitale per la Germania. È inoltre un risultato abbastanza grande, quello conseguito da Afd, da legittimare l’accusa di disconoscimento della democrazia generalmente rivolta contro ogni conventio ad excludendum, come quella decretata in questo caso contro il partito di Weidel. Washington si sta già chiaramente muovendo in questa direzione.

Quella della Cdu-Csu è stata una vittoria netta, ma non un trionfo. Siamo lontani dai record di consensi raggiunti da Angela Merkel nel suo lungo cancellierato. Friedrich Merz, che ne fu avversario, non è certo un leader che susciti paragonabili entusiasmi e la sua campagna elettorale all’inseguimento dell’estrema destra, sui suoi temi e sui suoi terreni, si è attirata l’accusa infamante di plagio del suo programma da parte dell’Afd, senza peraltro riuscire a sottrarre voti a quel partito. Il tormentone sul respingimento dei migranti e sulla restrizione del diritto di asilo è oramai talmente diffuso, insistito e stereotipo da contare ben poco nella costruzione di un profilo politico distinguibile, come hanno potuto sperimentare a loro spese Verdi ed Spd. Oltre ad essere sempre meno credibile come strumento per fronteggiare la crisi di modello e la recessione che attanagliano la Repubblica federale.

Il nuovo corso, annunciato enfaticamente da Merz per smarcarsi dalle posizioni dell’Afd, è rendere l’Europa indipendente dagli Usa. Ma è difficile nascondere che si tratta più di una circostanza imposta dal terremoto trumpiano che di una libera scelta. Nonché di una strada difficile da percorrere per chi ha vissuto gli ultimi ottant’anni nella più devota e protetta fede atlantista. Senza contare la guerra in Ucraina che ha chiuso ermeticamente la porta dell’Est, cui l’America accede ora passando senza bussare sulla testa del Vecchio Continente.

Ideologicamente europeista, la Germania ha però, con la sua rigida dottrina finanziaria, la «priorità dell’interesse nazionale», la discriminazione degli stati debitori e lo strenuo rifiuto di contrarre debiti comuni, non poche responsabilità nell’aver ostacolato la coesione dell’Unione europea e la sua capacità di dare risposte unitarie e solidali nelle situazioni di crisi. Questi atteggiamenti si sono poi tradotti nell’euroscetticismo di cui si è nutrita la destra radicale e nella rigogliosa ripresa dei nazionalismi. C’è però da dubitare che l’establishment tedesco sia disposto a liberarsi del tutto di questa zavorra dottrinaria, anche se la scomparsa dei liberali della Fdp dal Bundestag, rimasti sotto la soglia del 5 per cento, mette radicalmente in questione quei dogmi finanziari fuori dalla realtà, ispirati dall’arroganza della passata solidità economica tedesca, in nome dei quali Christian Lindner ha posto fine alla coalizione di governo con Spd e Verdi, aprendo la strada a questa sciagurata tornata elettorale e portando alla disfatta il suo partito.

Sia pure per poche migliaia di voti, il nuovo partito di Sahra Wagenknecht, nato da una scissione dalla Linke, nonostante la brillante partenza alle recenti elezioni regionali nei Länder orientali non ha superato la soglia del 5 per cento. L’Afd ha fatto man bassa in tutte le circoscrizioni a dimostrazione del fatto che i temi dei respingimenti e dell’espulsione degli stranieri indesiderati le appartengono di diritto. Chi è ossessionato da questi spettri inclina naturalmente a destra verso soluzioni autoritarie. L’idea di conciliare posizioni nazionaliste, conservatrici e identitarie con le istanze di giustizia sociale e le aspirazioni egualitarie della sinistra, si è rivelata un’operazione astratta e fallimentare, senza sbocchi politici istituzionali e senza nessuna capacità di attivare movimenti sociali