Intervista Massimo D’Alema ricostruisce quanto avvenne tra il 1998 e il 1999: l’arrivo in Italia del leader curdo, il ruolo del governo, l’arresto
Il 12 novembre 1998 Abdullah Ocalan, fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), sbarca a Fiumicino da un aereo partito da Mosca. Aveva da poco lasciato la Siria, cacciato dopo anni di ospitalità. La polizia italiana lo arresta, primo atto di una delle vicende che ha più segnato la questione curda e il suo rapporto con l’Italia: nei due mesi trascorsi a Roma, intorno al leader si genera una mobilitazione senza precedenti e una presa di coscienza collettiva della lotta di liberazione curda.
Su una delle mensole nel suo ufficio romano, l’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema conserva una targa: una stella rossa e sopra la sigla Pyd, Democratic Union Party, la forza politica della sinistra curda siriana fondata nel 2003 e da 13 anni una delle anime del confederalismo democratico in atto nella regione. Il primo governo D’Alema era nato poche settimane prima dell’arrivo di Ocalan. Resterà in carica per altri dieci mesi dopo la cattura del leader curdo, avvenuta a Nairobi il 15 febbraio 1999, esattamente un mese dopo aver lasciato l’Italia.
Il governo sapeva che Ocalan stava arrivando in Italia?
No. Fu Rifondazione ad avere un ruolo, in particolare Ramon Mantovani, ma non in accordo con il governo. Fui informato la notte in cui Ocalan arrivò in Italia. Su di lui pendeva un mandato di cattura tedesco. Noi eravamo e siamo tuttora vincolati alla Germania dal Trattato di Schengen, se una persona con un mandato di cattura europeo viene in Italia lo dobbiamo arrestare.
Ed è successo, Ocalan è stato arrestato a Fiumicino.
La mattina stessa parlai con il cancelliere Schroeder: la Germania non intendeva inoltrare la richiesta di estradizione per ragioni di sicurezza interna, c’era la preoccupazione che un processo a Ocalan in Germania avrebbe potuto creare tensioni tra comunità turca e comunità curda. Avremmo potuto fare una forzatura, metterlo su un aereo e mandarlo a Berlino, ma siamo persone sagge. Ocalan fu liberato e diventò ospite del governo italiano, condotto per ragioni di sicurezza in una villa protetto dalle forze dell’ordine, dove ricevette persone, ebbe incontri. Era un uomo libero, ma protetto. Si scatenò un inferno: ci fu un’immediata richiesta di estradizione da parte della Turchia. Noi la respingemmo sulla base del principio costituzionale per cui non consegniamo persone a paesi nei quali rischiano la pena di morte.
Che tipo di pressioni subì il governo?
Si aprì una crisi diplomatica molto pesante che coinvolse imprese italiane con investimenti in Turchia. Ci furono manifestazioni contro l’Italia ad Ankara, anche tentativi di assalto alla nostra ambasciata. Il presidente Usa Clinton mi chiamò dicendo che stavamo proteggendo un terrorista e che la Turchia era un paese membro della Nato, gli andava consegnato. Gli americani presero anche posizione pubblicamente, non fu solo una pressione privata.
Alcuni protagonisti dell’epoca parlano anche di pressioni di Confindustria.
Non dico pressioni, ma da Confindustria vennero da me delegazioni di imprenditori per gli interessi italiani minacciati in Turchia. E nel frattempo ci fu un’iniziativa per la concessione a Ocalan dell’asilo politico. Noi interrogammo la commissione per l’asilo che ci diede un parere contrario: a una persona con un mandato di cattura per omicidio all’interno dell’Unione europea non possiamo concederlo.
L’asilo però fu concesso, mesi dopo.
Il tribunale ha ritenuto che si potesse dare l’asilo. Ma nel frattempo lui se n’era andato.
Ma il governo si costituì parte civile contro la richiesta di protezione.
L’Avvocatura difese il parere che ci aveva fornito la commissione: sarebbe stato difficile riconoscere l’asilo a una persona considerata un terrorista a livello internazionale.
La decisione del tribunale avrebbe risolto il problema. Non si sarebbe trattato più di una decisione politica. Non avreste potuto aspettare?
Ci sarebbero stati problemi seri comunque. Anche con l’asilo avremmo dovuto proteggerlo, sarebbe stato un bersaglio. Avevamo un dialogo con Ocalan, attraverso persone, amici comuni, curdi, palestinesi, che ci aiutarono a dirgli che nella sua condizione avremmo potuto garantirgli l’uscita dall’Italia in condizioni di sicurezza. L’asilo non avrebbe cambiato la sua condizione.
Avrebbe permesso di tenerlo in Italia.
Ma lui era un uomo libero, nessuno gli ha impedito di rimanere qui. Poteva andare dove voleva. Vorrei essere chiaro: non lo abbiamo espulso, non è stato consegnato a nessuno. Intorno a quella villa c’erano servizi segreti di mezzo mondo, turchi, americani, israeliani. Era comunque in una condizione di pericolo, con o senza l’asilo politico. Alla fine lui si convinse che fosse ragionevole andarsene.
Ex avvocati di Ocalan hanno raccontato di un’opera di convincimento che ha riguardato anche i consiglieri stessi del leader curdo. Che ruolo ha avuto il governo?
Era giusto che lui andasse via, quello che è stato sbagliato è ciò che è accaduto dopo. Noi abbiamo fatto in modo che se ne potesse andare dall’Italia in condizioni di sicurezza, cosa che non era affatto banale dal punto di vista organizzativo.
Esisteva già una destinazione finale?
C’era una destinazione intermedia e c’era una destinazione finale. Gli americani non si accorsero di nulla. Attraverso determinati accorgimenti, risultò a tutti essere ancora qui quando in realtà se n’era già andato. Fu un’operazione abbastanza complessa e fu gestita borderline: un’operazione così non poteva essere interamente gestita dai nostri apparati senza che gli americani lo sapessero. Il capo della polizia mi disse che avrei dovuto trovare io la via. Organizzammo tutto molto bene: lui scomparve e arrivò in una base militare di un altro paese. Da lì doveva andare in Sudafrica.
Perché a vostro avviso il Sudafrica avrebbe dovuto essere più sicuro dell’Italia?
Nel nostro paese era stato individuato, era circondato. Nessuno avrebbe saputo che si trovava in Sudafrica.
Poteva restare qui sotto protezione.
Sarebbe stato un affare di Stato per tutta la vita. Avremmo dovuto creare un fortilizio in Italia. Ocalan l’ha capito, era una persona di buon senso. In nessun paese occidentale poteva essere al sicuro. Il Sudafrica era un paese amico, indipendente, meno condizionato dall’Occidente. Il vice presidente sudafricano Mbeki era l’erede di Nelson Mandela, erano compagni e questa era una questione che poteva essere affrontata solo tra compagni. Al contrario la Grecia gli ha offerto una protezione molto meno limpida: noi lo abbiamo protetto alla luce del sole, ce ne siamo presi la responsabilità con crisi diplomatiche, danni economici, litigi con gli americani. Ci siamo presi la responsabilità di dire che non lo avremmo consegnato alla Turchia.
Tra Russia e Sudafrica, come si inserisce la Grecia?
Feci un accordo con il primo ministro russo Primakov e con il vicepresidente sudafricano Mbeki: Pretoria lo avrebbe accolto non ufficialmente, ma ospitato e protetto. Quando Ocalan arrivò a Mosca, però, decise diversamente: accettò un invito riservato del governo greco. O meglio, del ministro degli esteri greco Pangalos che controllava i servizi segreti esterni. Pagalos, mi raccontò il primo ministro socialista Simitis, aveva preso contatti con i curdi e invitato Ocalan senza informare il governo. Così il leader curdo fu ospitato in alcune ambasciate greche in Africa. A Nairobi gli dissero che doveva partire perché c’era un paese europeo che gli avrebbe dato l’asilo politico.
Invece?
Invece non era vero, Ocalan fu venduto da un ufficiale dei servizi greci. Sulla via per l’aeroporto fu preso, secondo quello che mi dissero i greci, dagli israeliani. Furono gli israeliani a catturarlo e consegnarlo ai turchi, così mi fu detto.
Ha parlato di litigi con gli americani. Che tipo di pressioni ha subito?
È chiaro che quando viene un ambasciatore americano e quando ti telefona il presidente degli Stati Uniti la cosa ha un certo peso. Con garbo gli si può dire di no come è stato fatto: siamo un paese libero se vogliamo fare uso della nostra libertà. Credo che gli americani lo facessero perché questa vicenda aveva dei risvolti di carattere geopolitico: in quel momento c’era uno scontro tra Europa e Usa perché che gli europei volevano realizzare il South Stream, il gasdotto che dalla Russia doveva arrivare nell’Europa meridionale. Gli americani sostenevano un progetto alternativo, un gasdotto dall’Azerbaigian. Il paese chiave era la Turchia perché entrambi i progetti passavano per il Mar Nero. Creare una frattura tra Turchia e Unione europea era interesse americano. Mostrarsi amici della Turchia era interesse americano. Penso che a Clinton di Ocalan non importasse, ma il fatto che una tensione tra Turchia e Italia gli faceva gioco.
Era quello un periodo centrale per la questione curda. Dall’Italia Ocalan lanciò le basi per il processo di pace.
La questione riguarda la Turchia, la necessità di superare un nazionalismo turco che ha origini ottomane. Non credo che la presenza di Ocalan in Italia avrebbe potuto cambiare il corso della politica turca. Noi abbiamo fatto quello che si poteva fare nelle condizioni date. Abbiamo la coscienza tranquilla: non abbiamo consegnato Ocalan a nessuno e abbiamo sempre sostenuto la necessità di una soluzione politica al riconoscimento dei diritti del popolo curdo in Turchia, Siria, Iraq e Iran.
In quei due mesi ha mai incontrato Ocalan?
No, mai.
Non ci ha nemmeno parlato al telefono?
Non mi ricordo, ma era complicato. D’altro canto ci sono dei limiti entro cui si svolge il mandato del presidente del Consiglio. Non è un uomo libero