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Premier omissis Mancavano solo gli spioni in azione, in questo caotico incrocio della cronaca istituzionale dove un torturatore viene accompagnato a casa con l’aereo di Stato, due ministri alzano cortine fumogene sbraitando […]

Giorgia Meloni in conferenza stampa

 

Mancavano solo gli spioni in azione, in questo caotico incrocio della cronaca istituzionale dove un torturatore viene accompagnato a casa con l’aereo di Stato, due ministri alzano cortine fumogene sbraitando contro i magistrati italiani e internazionali, la presidente del consiglio è un omissis a fondo pagina e i leader delle opposizioni – non tutti senza macchia, di certo tutti senza paura di scadere nel ridicolo – giocano con i pupazzetti nelle aule del parlamento.

Mancavano ed ecco che prontamente arrivano e non hanno le sembianze dell’omino di burro o di un coniglietto. Anche se i protagonisti della politica agiscono come se fossero in un film di John Landis la vicenda, per quanto ancora oscura e ingarbugliata, appare seria: giornalisti e attivisti (circa 90 in tutto il mondo, 7 italiani) che si ritrovano i telefonini infettati via WhatsApp da uno spyware (un software spia) e vengono avvertiti della spiacevole circostanza dalla società di Zuckerberg.

E la presidenza del consiglio italiana che mercoledì sera mette le mani avanti escludendo che i soggetti in questione siano stati «sottoposti a controllo da parte dell’intelligence, e quindi del governo».
Quella presa di distanza avviene però mentre già è nota – è uscita ieri mattina sul britannico Guardian – la notizia che la società israeliana Paragon Solution, quella che produce il software militare di hacking inoculato negli smartphone dei giornalisti e degli attivisti, ha stracciato il contratto con l’Italia (i clienti di Paragon sono tutti «governativi») per violazione dei termini di servizio e del quadro etico concordato.

Insomma, palazzo Chigi, cioè la presidente del consiglio Giorgia Meloni, forse non ne è a conoscenza, ma sembrerebbe che a spiare i sette italiani sia stata proprio un’agenzia governativa, a meno che lo spyware non sia finito chissà come nella disponibilità di qualche altro soggetto, il che non sarebbe meno allarmante.

Chiederle di approfondire e chiarire è persino scontato. La stessa presidente del consiglio però ultimamente è sempre più dissociata dalla sua funzione. Non vuole affrontare personalmente davanti al parlamento il caso Elmasry, anche se spetterebbe proprio a lei in quanto responsabile della politica generale del governo rispondere di una così seria e grave decisione. Ma forse è talmente grave e scabroso il quadro stesso in cui quella decisione è stata assunta che persino lei teme possa sporcare la sua immagine di patriota materna davanti agli elettori, non tutti appassionati della quotidiana gara televisiva a chi ha il pelo sullo stomaco più folto (un torturatore? ma che sarà mai, si fa così da che mondo è mondo, che non avete mai sentito parlare della ragion di Stato?…).

In fondo nemmeno tutti gli esponenti delle opposizioni, nonostante i due giorni di sarabanda parlamentare, sembrano avere questa gran voglia di andare a scavare in profondità su una vicenda – quella degli accordi con i libici – che chiama in causa parecchi governi, compresi i loro.

Però poi capita che le cose non solo accadono, ma si vengono a sapere e più si tenta di nasconderle con diversivi mediatici (non ci è stata risparmiata nemmeno una ex sottosegretaria andata in tv a fare «bau bau») e più sfuggono da tutte le parti e se ne aggiungono di nuove. Così le opposizioni ora chiamano ancora una volta il governo a rispondere in parlamento, in questo caso sui giornalisti e gli attivisti spiati. Giusto. Sempre che chiodo non scacci chiodo e se anche Giorgia Meloni continua a defilarsi pazienza, domani è un altro giorno e si torna a giocare con gli omini di burro e i coniglietti.