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Legambiente Emilia-Romagna APS | Bologna

La Regione Emilia-Romagna ed il Governo la smettano di investire denaro in opere autostradali o nel rigassificatore e si occupino di sicurezza del territorio. 

Retorica allarmista fuori luogo: le mappe alluvionali di ADBPO e i report sul dissesto idrogeologico di ARPAE parlavano chiaro.  

 

Legambiente da tempo denuncia quanto sta accadendo nel nostro Paese ed ha diffuso i nuovi dati della mappa del rischio climatico, nell’ambito dell’Osservatorio CittàClima. A preoccupare è anche il dato complessivo degli ultimi anni: dal 2010 a oggi, nella nostra penisola si sono verificati 1638 eventi estremi. Gli impatti più rilevanti si sono registrati in 843 comuni italiani. 

Eventi come quelli avvenuti negli ultimi giorni stanno diventando sempre più intensi e violenti a causa del riscaldamento globale e l’Italia è uno dei paesi più esposti e vulnerabili. 

Dispiace constatare ancora una volta che il disastro a cui abbiamo assistito era ed è annunciato da tempo. L’allarme siccità, la fragilità idraulica a cui si aggiunge lo scellerato consumo di suolo oggi ci mettono davanti al fatto che la nostra Regione continua a perdere tempo senza realizzare le misure necessarie all’adattamento alla crisi climatica. 

Nonostante da anni la scienza parli di cambiamento climatico e quali effetti esso avrà sul nostro futuro, qualcuno continua a chiamarlo maltempo o altri addirittura arrivano a paragonarlo ad un evento imprevedibile come un terremoto. Sono invece evidenti le responsabilità sia della classe politica, che a parte gli annunci non ha evidentemente colto il significato di “emergenza climatica” e del carattere estremo degli eventi che essa può produrre (che in futuro potrebbero essere addirittura più intensi di quelli a cui abbiamo assistito), sia del sistema economico che non sta compiendo la transizione ecologica nei tempi indicati dalla scienza, spesso in assenza di indicazioni chiare da parte della politica: questa situazione lascia le persone e le comunità in balìa di fenomeni che invece dovranno essere gestiti in maniera strutturale in futuro, quando potranno diventare anche più frequenti. 

Siamo stanchi delle passerelle politiche che, con indosso la giacca della Protezione Civile, ci raccontano che “l’Emilia Romagna è grande, risorgeremo e torneremo come prima” perché è proprio quel come “prima” che ha portato in questi ultimi giorni l’acqua nelle case di tanti nostri concittadini. 

La retorica dell’amministrazione, che equipara l’evento alluvionale al terremoto in Emilia, è fuorviante. La città di Bologna e l’area del ravennate ad esempio sono state inserite tra le aree a rischio potenziale significativo (APSFR) nel quadro del secondo ciclo della Direttiva Alluvioni. La modellistica della cartografia elaborata dalla stessa regione permetteva infatti di conoscere l’estensione dell’allagamento per diversi scenari di alluvione, l’altezza che può raggiungere l’acqua fuoriuscita dagli alvei e la superficie marina rispetto al piano campagna.  

L’alternarsi di fenomeni di precipitazione intensa e una condizione di siccità persistente in un territorio ampio è la prova che nella nostra regione il cambiamento climatico si fa sentire 365 giorni l’anno. Non si tratta più di calamità da affrontare singolarmente, ma di un quadro complesso per il quale occorre svolgere azioni di controllo e di prevenzione che garantiscano, oltre alla qualità della vita delle persone, anche la protezione degli ecosistemi che sono un tassello fondamentale per mitigare gli effetti di questi eventi estremi. 

Per quanto riguarda l’azione della Regione Emilia-Romagna di fronte a un simile scenario, ribadiamo la nostra posizione: è necessario che le azioni dei singoli assessorati della Regione siano coerenti e convergano verso un obiettivo comune, quello della mitigazione e dell’adattamento al cambiamento climatico. 

Continuiamo invece ad assistere a scelte illogiche, anacronistiche e contraddittorie, le cui conseguenze ricadranno su tutti, in senso globale e per lungo tempo.  La stessa giunta che ha promosso il Patto per il Lavoro e il Clima, che prometteva una legge regionale per il clima, che ha promesso di coprire il 100% della domanda di energia con fonti rinnovabili al 2035, ha mantenuto in essere e difeso progetti ad alto impatto climalterante come le infrastrutture autostradali ( Passante di Bologna, autostrada Cispadana, Bretella Campogalliano-Sassuolo), ha dato pieno supporto al Rigassificatore di Ravenna, auspicando l’installazione di un secondo impianto, e non ha ancora trovato una soluzione definitiva al problema del consumo di suolo, che in questi ultimi anni si sta concretizzando nell’assalto dei nuovi poli della logistica ai terreni vergini della regione. 

Sono passati 8 anni dall’Accordo di Parigi che fissava come obiettivo l’incremento massimo di 1.5°C delle temperature globali rispetto alle temperature preindustriali.  Oggi l’IPCC avverte che ci sono 2 probabilità su 3 di superare questa soglia entro il 2027, con la quasi certezza che le prossime cinque estati saranno le più calde mai registrate nella storia dell’umanità. In questo contesto, ogni ettaro di terreno cementificato, ogni milione speso in opere ad impatto climatico negativo, ogni ritardo nella realizzazione degli impianti di fonti rinnovabili produce conseguenze sulla qualità della vita e la salute delle persone. Sempre la scienza ha individuato le soluzioni da adottare: ridurre le emissioni climalteranti da tutti i settori, a partire da quello energetico, e promuovere il processo di adattamento per far fronte al nuovo clima che è già cambiato. Tutto questo va fatto adesso, senza ritardi e senza contraddizioni.

Ufficio Stampa - Legambiente Emilia Romagna

IL RAPPORTO CIVICO SULLA SALUTE 2023. Cittadinanzattiva: «In 10 anni sono stati tagliati 61 dipartimenti di emergenza, 103 Pronto soccorso e 35 centri di rianimazione. I medici di base sono 2.178 in meno, l'assistenza domiciliare raggiunge un terzo dell'utenza. Serve una mobilitazione permanente a difesa del Servizio sanitario»

Disastro liste di attesa: tre mesi per un intervento di tumore Pronto soccorso - Ansa

Liste di attesa, pronto soccorso allo stremo, medici di base assenti in molte aree definite «deserti sanitari»; il ricorso alla spesa privata, incompatibile con un sistema universalistico: è la fotografia della Sanità italiana che si desume dal Rapporto civico sulla salute 2023, presentato ieri da Cittadinanzattiva in una giornata che è andata avanti con una manifestazione davanti al ministero. «I dati e le storie che le persone raccontano ci fanno proclamare lo stato di emergenza e una mobilitazione permanente a difesa del Servizio sanitario nazionale» ha spiegato Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva.

CINQUE LE RICHIESTE: monitoraggio dei Livelli essenziali di assistenza, esigibili su tutto il territorio; eliminazione delle liste di attesa attraverso investimenti sulle risorse umane e tecniche, programmazione e trasparenza, impegno concreto delle regioni; l’attuazione del diritto alla Sanità digitale; percorsi di cura e assistenza dei malati cronici, rari e non autosufficienti riprendendo l’iter normativo per il riconoscimento dei caregiver; l’attuazione dell’assistenza territoriale.

I GRAVI DISAGI per le liste di attesa raccolgono quasi una segnalazione su tre (29,6%) ma i cittadini denunciano carenze in tutti gli ambiti: ospedaliero (15,8%), territoriale (14,8), prevenzione (15,2%). Due anni per una mammografia di screening, tre mesi per un intervento per tumore all’utero che andava fatto entro un mese, due mesi per una visita ginecologica urgente da fissare entro 72 ore, sempre due mesi per una visita cardiologica da effettuare entro 10 giorni: sono alcuni esempi segnalati dai cittadini che lamentano anche disfunzioni nei servizi di accesso e prenotazione, ad esempio il mancato rispetto dei codici di priorità, difficoltà a contattare il Cup, liste d’attesa bloccate.

NEL DETTAGLIO, per le visite che hanno una Classe B-breve (da svolgersi entro 10 giorni) i cittadini hanno atteso anche 60 giorni per la prima visita cardiologica, endocrinologica, oncologica e pneumologica. Senza codice di priorità, si arrivano ad aspettare 360 giorni per una visita endocrinologica e 300 per una cardiologica. Una visita ginecologica con priorità U (urgente, da effettuare entro 72 ore) è stata fissata dopo 60 giorni. Per una visita cardiologica, endocrinologica, fisiatrica con priorità B (da fissare entro 10 giorni) i cittadini di giorni ne hanno aspettati 60. Per una visita ortopedica, sempre con classe d’urgenza B ci sono voluti addirittura 90 giorni. Intervento per tumore dell’utero: doveva essere effettuato entro 30 giorni, la paziente ne ha attesi 90. Per un intervento di protesi d’anca, da effettuarsi entro 60 giorni, un’attesa di 120.

LA QUASI TOTALITÀ delle regioni non ha recuperato i ritardi causati dal Covid e non tutte hanno utilizzato il fondo di 500 milioni del 2022 per il recupero delle liste d’attesa (inutilizzato circa il 33%). Il Molise ha investito solo l’1,7%. Male anche Sardegna (26%), Sicilia (28%), Calabria e Bolzano (29%). Nel 2022 c’è stata una riduzione delle persone che hanno effettuato visite specialistiche (dal 42,3% nel 2019 al 38,8% nel 2022) o accertamenti (dal 35,7% al 32,0%). Nel Sud quest’ultima riduzione raggiunge i 5 punti. Rispetto al 2019, aumenta la quota di chi ha pagato a sue spese sia visite specialistiche (dal 37% al 41,8% nel 2022) che accertamenti (dal 23% al 27,6%). Il ricorso alla copertura assicurativa è più diffuso nel Lazio (nel 2022 il 10,8%), in Lombardia (9,7%), Bolzano (9,1%) e Piemonte (8,1%).

NEI PRONTO SOCCORSO le segnalazioni più ricorrenti riguardano l’attesa per il triage (18,9%), l’affollamento (15,4%), informazione carente al paziente (9,8%), mancanza di posti letto per il ricovero (9,2%), carenza di personale (8,7%), pazienti in sedia a rotelle o in barella per ore/giorni (7,5%). Negli ultimi 10 anni c’è stato una taglio sul territorio nazionale di 61 dipartimenti di emergenza, 103 Ps, 10 Ps pediatrici e 35 centri di rianimazione. E ancora: una riduzione di 480 ambulanze di tipo B (per chi non è in urgenza), meno 19 ambulanze pediatriche e meno 85 unità mobili di rianimazione. In Calabria il mezzo di soccorso arriva mediamente in 27 minuti, in Basilicata 29 minuti e in Sardegna 30 minuti su una media nazionale di circa 20 minuti. Sono sei le regioni che non raggiungono la sufficienza rispetto ai Lea per la prevenzione: Sicilia, Bolzano e Calabria mostrano i dati più bassi; si aggiungono nel 2020 Liguria, Abruzzo, Basilicata.

SCREENING ONCOLOGICI. Calano nel 2020 gli inviti per gli screening organizzati: meno 29% per quello mammografico, meno 24% per quello colorettale e per il cervicale. Al Sud le percentuali di adesione più basse: per lo screening mammografico fanalino di coda sono Calabria (9% di adesione) e Campania (21%); per il tumore alla cervice Campania (13%) e Calabria (31%). Sono 10mila gli operatori sanitari che hanno partecipato all’indagine per sondare le motivazioni a restare nel Ssn: oltre il 46% afferma «di essere soddisfatto del proprio percorso professionale ma non dall’ambiente di lavoro. Oltre il 40% dichiara di avere carichi insostenibili e uno su tre non riesce a bilanciare i tempi lavorativi con la vita privata». Il 31,6% denuncia di essere stato vittima di aggressione (verbale o fisica) da parte degli utenti, il 20,7% da parte di un proprio superiore e il 18,4% da parte di colleghi.

MENO DI TRE over 65 su 100 è inserito in percorsi di Assistenza domiciliare integrata: difficoltosa la fase di attivazione per il 34%; il 21% ritiene insufficiente la quantità di assistenza erogata; il 17% inadeguata la gestione del dolore. Consultori: sono 2.227 (1 ogni 35mila residenti) a fronte di uno standard minimo di 2.949. Nel 2008 erano 1 ogni 28mila abitanti, nel 1993 uno ogni 20mila. In Lombardia, Veneto, Friuli VG, Lazio, Molise, Campania e Trento il numero medio è superiore a 40mila residenti per consultorio.

SALUTE MENTALE: su 100 segnalazioni, il 27,8% fa riferimento a questo ambito, in forte aumento rispetto al dato del 2021 (12,8%), delineando un crescente deficit dei servizi. Così la gestione, se non proprio la cura del paziente psichiatrico, è demandata in moltissimi casi alla famiglia. Capitolo Pnrr: ci saranno molti territori, soprattutto aree interne, che rimarranno senza Case di comunità, «il modello del Dm 77 non riesce a tenere conto delle differenze territoriali». Intanto ci sono 2.178 medici di base e 386 pediatri di libera scelta in meno.

ANAAO ASSOMED e le associazioni di cittadini e pazienti, incluso Cittadinanzattiva, hanno promosso un appello in difesa del Ssn: «La tenuta del sistema è oggi a rischio. Il diritto alla salute è declinato in 21 modi diversi, figli di autonomie regionali che violano il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini. Il progetto di autonomia differenziata del governo accentuerà le differenze. Il definanziamento previsto nei prossimi anni costringerà molti cittadini a pagare le cure di tasca propria».

Lara Ghiglione e Giorgia Fattinanzi, responsabili Cgil, commentano l'astensione al P arlamento Ue su misure di contrasto alla violenza maschile sulle donne

Se le molestie sessuali vi sembran poche Foto: foundry, da Pixabay

Ieri, 10 maggio, il Parlamento europeo ha votato a favore di due risoluzioni che chiedono all’Unione europea di aderire alla Convenzione di Istanbul, il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica. Lega e Fratelli d’Italia, però, si sono astenuti, e due deputate della Lega hanno votato contro.

“L’astensione di ieri da parte di Fratelli d’Italia e Lega sull'adozione svela l’inadeguatezza e il portato ideologico di questa maggioranza anche sul tema dei diritti civili delle donne”. Lo affermano in una nota, la responsabile politiche di genere Cgil nazionale Lara Ghiglione e la responsabile contrasto alla violenza di genere Cgil nazionale Giorgia Fattinnanzi. 

“A pochi mesi di distanza dal 25 novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne - aggiungono - siamo costrette a prendere atto che le dichiarazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sul fatto che il contrasto alla violenza maschile sulle donne sarebbe stato una priorità per la maggioranza e il governo, erano soltanto parole retoriche, di circostanza”.

Per Ghiglione e Fattinnanzi “sono ancora più gravi le motivazioni addotte. La scelta di astenersi sarebbe, infatti, stata assunta per il ‘rischio’ che la Convenzione di Istanbul possa essere usata per imporre agli Stati membri diritti e tematiche legate all'‘ideologia gender’, attraverso un uso strumentale di essa, da parte delle sinistre. Si tratta di motivazioni false che raccontano quanto sia preoccupante l'omotransfobia di certa parte della maggioranza, oltre a rivelare l'uso strumentale del dramma della violenza sulle donne”. 

“Fdi e Lega non possono, infatti, non sapere - sottolineano Ghiglione e Fattinnanzi - che la Convenzione di Istanbul tratta soltanto il tema del contrasto alla violenza maschile contro le donne, scegliendo di non intervenire sull’autonomia degli Stati aderenti sul tema del diritto di famiglia”. 

“Chiediamo con nettezza alla presidente del Consiglio - proseguono Ghiglione e Fattinnanzi - di mettere in pratica le sue dichiarazioni sulla necessità di affrontare il contrasto alla violenza maschile sulle donne in modo trasversale, come una battaglia di tutte le istituzioni e le forze politiche, invitando tutti gli europarlamentari coinvolti a votare a favore della ratifica per l’adesione da parte dell'Unione europea della Convenzione di Istanbul, nella votazione finale che si terrà a breve”. 

Uno studio stima che i Paesi Ue potrebbero rinunciare al gas di Mosca in pochi anni, sostituendolo interamente con fonti rinnovabili ed efficienza energetica. Dati e scenari.

In Europa si potrebbe fare a meno di tutto il gas russo in pochi anni, anche entro il 2028, investendo unicamente nelle rinnovabili e ripagando una buona fetta di tali investimenti con i risparmi sui consumi di gas.

Sono le conclusioni di uno studio dell’Oxford Sustainable Finance Group, intitolato “The Race to Replace” (RTR) disponibile nel link in basso.

È la corsa, appunto, a sostituire le importazioni di gas da Mosca non con altro gas da altri fornitori, come fatto finora da tanti Paesi, Italia in testa, ma con tecnologie pulite: eolico, fotovoltaico, pompe di calore, misure di efficienza energetica.

In questo scenario (RTR nel grafico sotto) l’Europa dovrebbe investire in totale 512 miliardi di euro in più nel periodo 2023-2028 per espandere le energie green, in confronto allo scenario di riferimento del Green Deal europeo (EGD nel grafico).

Ma circa metà degli investimenti aggiuntivi (pari a 254 mld €) si ripagherebbe con il gas risparmiato, non più importato, grazie all’uso di elettricità rinnovabile, all’installazione di pompe di calore e alla riqualificazione energetica degli edifici.

Secondo gli autori dello studio si può accelerare notevolmente lo sviluppo delle rinnovabili, a patto però di supportare gli investimenti in tecnologie pulite con sussidi e incentivi, velocizzare le autorizzazioni, aumentare la forza lavoro qualificata (tecnici, installatori) e potenziare le filiere produttive nei vari settori, in modo da ridurre la necessità di importare impianti e componenti.

Lo scenario Race to Replace prevede di arrivare a 1.300 GW di capacità cumulativa nelle rinnovabili al 2028, 500 in più rispetto alla traiettoria del Green Deal, di cui oltre 800 GW di solare, 400 GW di eolico a terra e un centinaio di GW di eolico offshore.

Si parla anche di portare al 3% il tasso annuo di rinnovamento energetico degli edifici e di investire complessivamente 105 miliardi di euro per installare pompe di calore, stimando una crescita di questo mercato pari al 15-20% l’anno.

Il principale contributo alla sostituzione del gas russo quindi arriverebbe dall’uso di elettricità rinnovabile (39% del totale), poi dai guadagni di efficienza dati dalle pompe di calore (32%), dall’energia elettrica rinnovabile utilizzata per il riscaldamento (22%) e dal rinnovamento degli edifici (7%).

L'associazione a congresso a Rimini per analizzare e rilanciare il ruolo del consumerismo in una società sempre più spaccata dalle disuguaglianze

 

I consumatori possono fare la differenza. Possono decidere cosa comprare e da chi, fare scelte più o meno responsabili e consapevoli, organizzarsi, diventare una comunità, fare pressione sulle imprese, condizionare le produzioni. È a questi principi che si ispira il XI congresso di Federconsumatori, a Rimini fino all’11 maggio dal titolo, appunto, “Facciamo la differenza. Diritti, nuove tutele, nuova rappresentanza” e con un fitto programma di lavori. Un invito ai soci e ai cittadini, ma anche un monito.

“Le associazioni come la nostra possono organizzare le persone, battersi per difenderle e fare informazione, agendo come corpo collettivo, orientare le scelte per cambiare il mercato e indurre le aziende ad adottare comportamenti rispettosi dei valori fondamentali a cui facciamo riferimento – spiega il presidente Michele Carrus -: rispetto degli altri, del lavoro, dell’ambiente, delle comunità, della nostra e di tutte quelle con le quali un’impresa che produce beni e servizi entra in rapporto. Penso alle industrie che per produrre sfruttano le risorse naturali, i lavoratori, i bambini. Noi tutti abbiamo la grande opportunità di mettere a nudo il mercato, per condizionarlo, indurre comportamenti virtuosi in chi vi opera. È questo il senso del fare la differenza”.

Foto: Mediamodifier da Pixabay 

Per Federconsumatori differenziarsi ha anche un’altra valenza, quella che la rende diversa dalle altre associazioni: è un’organizzazione ramificata, con decine di migliaia di scritti, conta quasi 800 sedi in Italia e tantissimi volontari che collaborano per difendere i più deboli, coloro che non ce la fanno a presentare da soli un’istanza o un’opposizione. “I nostri numeri sono reali, non come altre che si spacciano per associazioni ma nei fatti non lo sono – aggiunge Carrus, polemico -. Per questo chiediamo una riforma della rappresentanza consumerista, basata sulle vere attività svolte”.

Di azioni da fare e fronti aperti nel nostro Paese ce ne sono davvero tanti, soprattutto in questi ultimi tempi. A partire dalle vertenze nel settore dell’energia, che a causa dei rincari ha inciso in modo catastrofico sul carovita e nel quale si continuano a consumare truffe a danno degli utenti, in un mercato che non ha eguali in Europa: mentre in Italia si contano più di 700 fornitori, in Francia e in Germania ce ne sono poco più di 200.

“Noi chiediamo che ci sia un albo dei fornitori, dove finiscono le imprese autorizzate, quelle serie che mantengono una correttezza nei rapporti con i clienti – afferma Carrus -. Un altro fronte delicato è quello delle telecomunicazioni, dove si registrano situazioni analoghe. Finita l’ubriacatura della concorrenza, che avrebbe dovuto portare vantaggi ai consumatori, adesso bisognerebbe introdurre un filtro di qualità per gli operatori, altrimenti questi vantaggi saranno vanificati”.

Foto: Michael Gaida da Pixabay

Si tratta di ambiti dove per Federconsumatori andrebbero ripristinate e mantenute tutele e misure di sostegno per i più fragili: il 10 per cento degli italiani vive in condizioni di povertà energetica e i bonus per loro non sono sufficienti. Questo ci porta dritti dritti alle difficoltà che vivono oggi i consumatori, colpiti dall’inflazione più di quanto non ci raccontino i dati Istat.

L’aumento dei prezzi, spinto in molti casi da meccanismi speculativi e dal desiderio di fare profitti da parte delle grandi catene di distribuzione e dei produttori, sta mettendo in ginocchio le famiglie che non riescono più ad arrivare nemmeno a metà mese. Altro che fine mese. “Le statistiche ci dicono che hanno iniziato a diminuire i consumi dei beni alimentari – dice Carrus -, saltano i pasti, mettono nel carrello meno cibi proteici, comprano prodotti di bassa qualità, scelgono le promozioni. Per questo proponiamo una riforma dell’Iva, una riduzione o un azzeramento totale dei carichi fiscali, affinché i più bisognosi possano mantenere un livello di consumo adeguato”.

Facendo due conti, con la rimodulazione dell’Iva una famiglia media risparmierebbe 530 euro all’anno. Sembra poco, ma non lo è, perché l’inflazione è ingiusta, colpisce in modo diverso a seconda del reddito: se sei ricco, gli aumenti incidono sui tuoi acquisti per il 7 per cento, se sei povero, per il 12.

“Ci sono 11 milioni di italiani che non sono riusciti a farsi curare nel 2022 per carenza dell’offerta pubblica e perché andare nel privato costa troppo – ricorda Carrus -. Queste persone hanno bisogno di un’altra politica economica e sociale, di una riforma fiscale diversa. Poi c’è il caso della compagnia Eurovita posta in amministrazione straordinaria, con 400 mila clienti che rischiano di perdere tutti i risparmi. Ecco, noi lavoriamo e ci battiamo per loro, rimaniamo affezionati all’idea di essere gli avvocati dei poveri”.  

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Le organizzazioni sindacali di categoria, Flai Fai e Uila della provincia di Ravenna - unitamente alle confederazioni Cgil Cisl e Uil e alla solidarietà manifestata dai colleghi delle rispettive sigle sindacali di Forlì, dove l’azienda ha un altro centro produttivo - esprimono profonda preoccupazione rispetto al grave incendio avvenuto questa mattina alle distillerie Caviro nello stabilimento di Faenza.

“Da quanto apprendiamo da una comunicazione emessa in tarda mattinata dai Vigili del fuoco, impegnati sul posto con numerose squadre per domare l’incendio, nessuna persona risulta gravemente coinvolta e questo ci rincuora - commentano i tre segretari generali - ma l’attenzione da parte nostra resterà alta finché non verrà fatta luce sulle cause che hanno comportato questo incendio, mettendo a rischio la salute e la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici che in quel momento si trovavano in turno. Non possiamo esprimerci su quanto accaduto fino a quando le autorità competenti non avranno concluso le loro indagini e, in attesa che questo avvenga, avanziamo già la richiesta di un incontro alla direzione aziendale di Caviro oltre che alle istituzioni del territorio, in quanto siamo molto preoccupati, oltre che per i danni strutturali e occupazionali, anche per l’impatto ambientale sulla comunità di Faenza”.