La propaganda e il flop del governo con la super tassa agli istituti di credito. Landini: “È una presa in giro”
“Sulle banche hanno preso in giro il mondo intero”. La frase è del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, e il soggetto è il governo e la sua maggioranza, che hanno tentato la mossa propagandistica della norma per tassare gli extraprofitti bancari che si è però dimostrata un boomerang. Hanno fatto un passo indietro, come spiega Landini, “e non prenderanno nemmeno un euro, perché hanno dato la possibilità possibilità alle banche, anzichè tassarsi suoi loro profitti, di aumentare il loro capitale sociale e a quel punto non pagare neanche le tasse”.
Per capire meglio, è necessario sapere cosa sono gli extraprofitti e poi come si è mosso il governo. “Nell’economia capitalistica, gli extraprofitti rappresentano un’eccedenza del cosiddetto ‘profitto normale’ – ci spiega Riccardo Sanna, segretario della Fisac Cgil – ossia quando si va oltre il guadagno ottenuto dalla differenza tra ricavi e costi, al netto dell’interesse del capitale investito e della remunerazione dell’imprenditore. Gli extraprofitti si registrano in una situazione di costi stabili ma di ricavi sempre crescenti, con un effetto simile alla rendita. Questo accade in un mercato in regimi monopolistici o per effetti esogeni e, dunque, non è merito dell’impresa”.
Alla domanda se rientra in questa definizione il guadagno dovuto all’effetto del rialzo dei tassi, Sanna risponde di sì, precisando però che “è complicato parlare di extraprofitti in un mercato già atipico di per sé, che nasce pubblico e poi entra nella sfera privata, con una concorrenza parziale, dovuta alla progressiva concentrazione in gruppi bancari, e beneficia delle politiche monetarie restrittive delle banche centrali con super ricavi su tassi d’interesse attivi, con ampio scarto su quelli passivi, cioè la remunerazione dei conti correnti della stragrande maggioranza dei comuni risparmiatori.
Una cosa analoga è avvenuta con le banche. Il segretario Fisac spiega che la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, “per dare il messaggio politico e populista di colpire le banche cattive che guadagnano sulle spalle di poveri cittadini correntisti, ha deciso, e nemmeno tanto in accordo con le altre forze politiche di maggioranza , di lanciare all’improvviso questa super tassa, scatenando una tempesta nelle borse, come anche sugli stessi titoli di Stato”. E’ necessario poi ricordare che la tassa sugli extraprofitti delle banche è però cambiata nel giro di 24 ore, sostanzialmente su indicazione del ministro dell’Economia e, successivamente, anche con un emendamento di maggioranza in commissione Ambiente e Industria, che ne svuotava la portata.
Sanna, per meglio chiarire il percorso della tassa, si addentra nella materia: “Nella versione finale della tassa in decreto Asset, convertito in legge a ottobre, resta la previsione per il 2023 di un’imposta straordinaria pari al 40% sui margini di interesse delle banche operanti in Italia che eccede per almeno il 10% lo stesso margine nell’esercizio antecedente a quello in corso il primo gennaio 2022. Si aggiunge però la novità che prevede, in alternativa al versamento della tassa, la possibilità di una riserva non distribuibile non inferiore a due volte e mezzo l’imposta. Inoltre vengono inseriti nuovi limiti all’ammontare del nuovo tributo".
In sintesi, il governo ha voluto vestire i panni di Robin Hood, ma ha finito con lo smascherarsi da solo: “La propaganda iniziale all’insegna della giustizia e del ‘fare cassa’ – afferma infatti Sanna – è stata rapidamente rimangiata e si è miseramente tradotta nell’obiettivo, pur condivisibile, di rafforzare la patrimonializzazione delle banche, rinunciando anche all’idea di mitigare l’impatto sociale dell’aumento dei tassi sui mutui. L’emendamento di governo ha di fatto smontato anche la possibilità di reperire risorse per la finanza pubblica”.
“La Cgil e la Fisac – conlcude -, sin dallo scorso anno, hanno affermato che una tassazione degli extraprofitti andrebbe estesa a tutti i settori in modo strutturale e progressivo, salvaguardando investimenti e occupazione, e dovrebbe rientrare in una generale riforma della tassazione sul capitale, sui profitti e sulle rendite, che oggi sono tassati meno del lavoro e delle pensioni”.
Nel libro O la Borsa o la vita Andrea Baranes spiega perché banche e finanza internazionale sono i peggiori nemici del global warming
Se qualcuno ci minacciasse con il classico “o la borsa o la vita”, chiunque di noi risponderebbe “la vita!”. La stessa domanda fatta sul tema dei cambiamenti climatici, dove per borsa si intende il profitto e per vita il preservare la vita sulla Terra, in tutti questi anni abbiamo sempre risposto “la borsa!”. È questa l’idea di fondo dell’ultimo libro di Andrea Baranes, ricercatore della Fondazione Finanza etica e membro delle reti europee Finance Watch e Federazione delle banche etiche e alternative, dal titolo appunto “O la Borsa o la vita” (Ponte alle Grazie).
Ci può spiegare meglio?
La Cop 3, il vertice annuale delle Nazioni Unite per agire contro i cambiamenti climatici, quello che nel 1997 ha portato alla sottoscrizione del Protocollo di Kyoto, ha chiesto ai Paesi, soprattutto a quelli più industrializzati, di ridurre la concentrazione di gas a effetto serra in atmosfera. Per farlo ha fissato gli obiettivi di emissione e ha affidato a meccanismi di mercato la possibilità di comprare o vendere CO2 equivalente. Questo vale per le nazioni come per le imprese: chi emette meno può vendere la differenza, chi emette di più può compensare la quota eccedente.
L’impostazione è neoliberista?
Sì, niente regole ma un approccio volontario, dove sono gli inquinatori a decidere se e quanto conviene inquinare. Ha vinto il dogma di un mercato onnipresente dove tutto può essere comprato e venduto, persino il sistema climatico.
Il sistema scelto dunque non ha funzionato?
Non è andato nella direzione sperata. Le banche e la finanza guardano ai cambiamenti climatici unicamente per vedere se questi possono avere degli impatti sui loro profitti e non il contrario, cioè non se, quanto o come le attività e i finanziamenti hanno effetti su emissioni e clima. Lo stesso fa la comunità internazionale. Per esempio: si costruisce una centrale a carbone solo se ci si guadagna abbastanza per compensare le emissioni, cioè comprarle. Il principio che si adotta non è “chi inquina paga” ma “chi paga può inquinare”. Il problema è che si sottopone l’impegno sul clima a un calcolo meramente economico.
Anche il mercato delle emissioni è stato fallimentare?
Il 90 per cento delle compensazioni non funzionano, non hanno avuto alcuna efficacia nel diminuire le emissioni di CO2. Sono 20 anni che si cercano aggiustamenti, perché il prezzo era troppo basso e non fungeva in alcun modo da deterrente, tanto che si è intervenuti a livello europeo per aumentarli. Poi sono state scoperte truffe e scandali. È la conferma che il libero mercato non è in grado di autoregolarsi ma necessita di correttivi legislativi.
L’approccio neoliberista ci sta di fatto impedendo di abbandonare le fonti fossili?
L’approccio di mercato è diventato un alibi e ha rallentato il dibattito su possibili alternative, nonostante le agenzie dell’Onu ci dicano che già tra sette anni, nel 2030, supereremo gli obiettivi fissati dalla Cop 15 di Parigi, e cioè 1,5 gradi centigradi di riscaldamento globale: il 70-80 per cento è attribuibile all’estrazione e alla combustione di carbone e petrolio. Alcuni scienziati hanno proposto di fare un trattato internazionale per la progressiva uscita dalle fossili, come quello sulla biodiversità o sulla produzione di mine antiuomo. La prima volta in assoluto in cui se ne è parlato è stato a Glasgow, alla Cop 26. L’ultimo giorno dei negoziati però una manina ha sostituito nel testo finale “phase out” con il termine “phase down”, non “uscita” ma diminuzione della dipendenza dal carbone.
Come vede la Cop di Dubai, dal primo dicembre negli Emirati Arabi?
La vedo malissimo, le premesse sono pessime. Alle ultime conferenze abbiamo visto come l’agenda sia pesantemente influenzata dai lobbisti dell’industria fossile, che riescono a orientare i negoziati in una certa direzione. Questa si tiene nel Paese che è il settimo produttore di petrolio e tra i principali esportatori, il presidente è l’amministratore delegato di un’impresa petrolifera: sembra uno scherzo di cattivo gusto.
In Europa qual è la situazione?
Mi sembra che stiamo facendo molto poco e male, siamo terribilmente in ritardo, nella Ue come in Italia. Anche sul fronte del Pnrr ci sono poche risorse per la transizione energetica e per i progetti che potrebbero servire a cambiare il sistema economico. Stiamo continuando a dare sussidi impliciti ed espliciti alle fonti fossili. E in vista delle elezioni europee a Buxelles il sentimento che gira è che noi abbiamo già fatto abbastanza: mentre mettiamo paletti alle nostre imprese, gli altri non lo fanno e così perdiamo di competitività.
Il libro contiene anche delle proposte. Quali?
Oltre al trattato sulle fonti fossili e alla tassa sul carbonio di cui tanto si è parlato, si potrebbe indirizzare il sistema finanziario e le banche. Ecco come: nel momento in cui si dà un prestito si dovrebbe calcolare anche il rischio ambientale. In questo modo finanziare le fonti fossili sarebbe più oneroso del dare soldi all’efficienza energetica per esempio. Un altro strumento potrebbe essere quello dei vincoli ambientali: ti presto i soldi a un tasso inferiore se tu dimostri che raggiungi obiettivi a carattere ambientale. Ci vorrebbero strumenti legislativi ma anche spinte dal basso: anziché pretendere il massimo profitto nel minor tempo possibile, il risparmiatore dovrebbe chiedere alla banca come investe i suoi soldi, se nelle fossili o nei prodotti sostenibili. Questa è l’idea di fondo della finanza etica.
L’Onu stima per la Palestina l’aumento del 45% della povertà e la perdita di 390 mila posti di lavoro. Con effetti sulla intera regione e l’economia globale
@SAHER ALGHORRA/AVALON/SINTESI
La battaglia di Gaza continua. L'assedio, i bombardamenti e le incursioni via terra da parte dell'esercito israeliano non accennano a diminuire, mentre il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian definisce “inevitabile” l'allargamento del conflitto nella regione. Il futuro di Gaza e dell'intera Palestina, intanto, diventa sempre più fosco. Se la catastrofe umanitaria in corso è infatti sotto gli occhi di tutti, c'è un'altra catastrofe che si sta preparando: è l'impatto socioeconomico che le violenze avranno nel medio e lungo termine sullo Stato di Palestina e sull'intero Medio Oriente. È questo il tema dell'ultimo report stilato dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, che simula scenari diversi, ma sempre più foschi.
Secondo le Nazioni unite, infatti, l’incidenza della povertà e dell’insicurezza alimentare aumenterà in maniera esponenziale, colpendo duro su una delle aree più depresse del pianeta. La situazione socioeconomica delle famiglie di Gaza era disastrosa anche prima della guerra. Il tasso di povertà aveva raggiunto il 61% nel 2020, ma dopo un mese di guerra è aumentato del 26,7%. Se la guerra dovesse durare un altro mese – fanno sapere dall'Onu -, l'aumento arriverebbe al 35,8 per cento, al 38,8% nel caso in cui durasse altri due mesi. Dopo sole tre settimane di bombardamenti, in ogni caso, il 96% della popolazione gazawa è oramai diventata “multidimensionamente povera”, in base all'indice nazionale di povertà multidimensionale (Mpi) riconosciuto a livello internazionale. “In altre parole – si legge nel report - i 2,3 milioni di palestinesi residenti nell'enclave sono poveri e avranno bisogno di supporto per sopravvivere”. La guerra comporterà poi un calo significativo dello sviluppo umano complessivo. “Gaza tornerà indietro di 11 o 16 anni (a seconda della durata del conflitto ndr) a causa della diminuzione del livello di istruzione, dell'aspettativa di vita più bassa, della denutrizione e del crollo del reddito pro capite”. Un processo irreversibile, che tra l'altro investirà anche i territori occupati in Cisgiordania.
La guerra di Gaza, si legge infatti, avrà ulteriori e pesanti ripercussioni sull'economia dell'intera Palestina. Dopo un solo mesi di Guerra, è stato già distrutto il del 4% dell'intero capitale sociale di tutti i territori palestinesi. In uno scenario in cui la guerra durasse altri 30 giorni, si arriverebbe al 6%. Il terzo scenario proposto dall'Onu, con altri due mesi di conflitto, distruggerebbe il 7% del capitale sociale. La produttività di Gaza è già scesa a zero, mentre tutti i flussi finanziari, pubblici e privati nei territori si sono fermati. La disoccupazione a Gaza era al 46% prima del 7 ottobre. I due governatorati da cui le autorità israeliane hanno ordinato l'evacuazione di civili,Gaza Nord e Gaza City, rappresentavano tra l'altro il 56,2% dell’occupazione totale. Mentre circa il 14% della forza lavoro palestinese era impiegata in Israele o negli insediamenti israeliani. Parliamo di circa 20.000 gazawi, secondo l'Ilo.
Il conflitto,, però, ha enormi ripercussioni anche sulle imprese, e secondo le stime Onu potrebbe danneggiare in particolare le micro, le piccole e le medie imprese, che rappresentano il 98 per cento del tessuto economico dello stato palestinese. I calcoli preliminari indicano un potenziale calo del Pil fino al 15% in tre mesi di guerra rispetto al livello previsto per il 2023. Nel primo mese di guerra il Pil palestinese è diminuito del 4,2%, con una perdita di circa 857 milioni di dollari. Se la guerra si protraesse per un altro mese, la perdita economica stimata salirebbe al 8,4% (1,7 miliardi). Se si continuasse a combattere per un terzo mese, il calo salirebbe al 12,2%, con una perdita di 2,5 miliardi di dollari. La guerra però avrà anche effetti sul Pil del 2024. In uno scenario ottimistico in cui l'intera attività economica tornasse alla normalità, il solo effetto della distruzione del capitale farebbe diminuire il Pil da ulteriori 904 milioni di dollari a 1,9 miliardi
Tutto questo andrà a colpire un'economia già in ginocchio. Prima della guerra, il Fondo monetario internazionale aveva avvertito che c'erano rischi di instabilità nel settore bancario, dovuta a prelievi di liquidità, minore spesa fiscale e interruzione delle relazioni con le banche israeliane. Oltre che alle crescenti attività in sofferenza, in particolare nel settore immobiliare. “La guerra dovrebbe amplificare i rischi di default del prestito – scrive il Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, mettendo notevole pressione sul settore bancario di Gaza ed e del resto dei territori palestinesi occupati, minacciando la stabilità finanziaria”.
“La guerra in corso – fa infine sapere l'Onu – apre alla possibilità di più ampie ripercussioni economiche regionali e globali”. Il suo impatto sarà forte sui prezzi del petrolio e del gas, che hanno visto aumenti finora moderati. Un'ulteriore escalation potrebbe portare a notevoli impennate dei prezzi, con conseguente aumento dei costi di produzione e di trasporto e, in ultima analisi, dell'inflazione dell'intera regione. L'escalation può anche perturbare i flussi commerciali, in particolare se conduce alla chiusura di porti e valichi di frontiera. Bloomberg ha stimato un calo dell'1% del Pil mondiale in caso di conflitto regionale. Inoltre, la guerra potrebbe costringere i Paesi vicini a reindirizzare le risorse dallo sviluppo alle spese di sicurezza.
“Oltre alla catastrofica perdita di vite umane – conclude il report -, affrontare le ripercussioni della guerra sull'economia, la società palestinese e lo sviluppo umano richiederà sforzi senza precedenti. Alcuni degli effetti, in particolare sulla vita dei palestinesi, saranno a lungo termine, e il recupero sarà lento e impegnativo”. Un rapido cessate il fuoco e un flusso sostenuto di aiuti umanitari, però, “produrrebbe una riduzione immediata e tangibile della crisi per centinaia di migliaia di famiglie palestinesi”. È quindi “fondamentale gestire la fase post-bellica in modo diverso. Bisognerebbe imparare dagli errori passati”.
Il ministro minaccia la precettazione per lo stop dei trasporti del 17 novembre. La replica del segretario Cgil: “Logica arrogante e contro la Costituzione”
Da Matteo Salvini arriva l’ennesimo attacco al diritto di sciopero, che è garantito dalla Costituzione e va rispettato sempre. Così il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, risponde alle dichiarazioni del ministro delle Infrastrutture, che ha “minacciato” la precettazione per i lavoratori che aderiscono allo stop dei trasporti di venerdì 17 novembre.
”Io penso che questo sia un attacco al diritto di sciopero e che sia un modo arrogante – così Landini -. Non sono i ministri che decidono quante ore di sciopero si programmano e se si fanno o no: è diritto delle persone decidere se vogliono aderire”.
Quella di Salvini è dunque “una logica arrogante – prosegue -perché pensa di poter stabilire quando gli scioperi sono validi, mentre il diritto allo sciopero è garantito dalla Costituzione”. Da parte sua, la Cgil sta rispettando tutte le leggi: “C’è un confronto aperto con la Commissione di garanzia, non capisco perché interviene il ministro”, conclude il leader di Corso d’Italia.
“Non è un ministro che può decidere quale deve essere la durata di uno sciopero, diritto garantito, sia beninteso, dalle leggi e dalla Costituzione. E ricordiamo al Ministro Salvini che il sindacato è sempre rispettoso delle regole”. Lo affermano, in una nota, i segretari confederali di Cgil e Uil Maria Grazia Gabrielli e Emanuele Ronzoni.
“Registriamo – inoltre - che il ministro Salvini ha la memoria corta oppure il pugno duro selettivo: da settembre ad oggi ha ‘consentito’ ben tre scioperi di 24 ore dei trasporti, non proclamati da sindacati confederali, di cui uno il giorno prima di uno sciopero dei Taxi, anch'esso di 24 ore”.
Lo sciagurato intervento di Salvini “è ancor più inopportuno alla luce dell'incontro richiesto, nel rispetto delle regole, da Cgil e Uil, alla Commissione garanzia sciopero, unica autorità competente in materia e già fissato per lunedì mattina”.
“La verità è che ormai in questo Paese il diritto di sciopero è messo in discussione solo se chi lo proclama non è d’accordo con questo ministro e con questo governo – concludono Cgil e Uil -. Più il ministro alza i toni e più le sue dichiarazioni favoriranno l’adesione allo sciopero tra le lavoratrici e i lavoratori”.
Nel 2022 il 44% di chi lascia l’Italia ha tra i 18 e i 34 anni. I Neet sono i più elevati d’Europa. Cgil: “La prima cosa da fare è aumentare i salari”
Il 44% di coloro che hanno lasciato l’Italia nel 2022 era un giovane tra i 18 e i 34 anni. Si tratta di due punti percentuali in più rispetto agli anni precedenti, e la cifra è destinata ad aumentare. È quanto emerge dal Rapporto Italiani nel mondo, presentato dalla Fondazione Migrantes e arrivato alla XVIII edizione. I numeri parlano chiaro: dal 2006 i residenti in un altro Paese sono cresciuti del 91% con un aumento delle donne del 99,3%. I più “colpiti”, come detto, sono i giovani che risultano in fuga dal nostro Paese.
Ma c’è anche un altro campanello d’allarme che va ascoltato. Sono molto preoccupanti i dati diffusi dal Censis e relativi ai Neet in Italia: i giovani che non studiano e non lavorano sono il 19%. Il dato fa dell’Italia il Paese con il dato peggiore d’Europa, in compagnia della Romania. Se la cifra ha fatto registrare in tempi recenti un lieve calo, questo non risulta in alcun modo consolatorio: il calo è strutturale ed è avvenuto in tutti i Paesi europei, ma nel resto d’Europa i Neet sono scesi raggiungendo la media dell’11%, in Italia sono rimasti molto più elevati. La causa sta in una serie di politiche sbagliate, coltivate in modo trasversale, dagli esecutivi che si sono succeduti negli ultimi tempi.
Cosa fare per colmare il divario tra giovani e lavoro? Se lo chiede la Cgil Nazionale. Sicuramente la prima leva su cui incidere è quella salariale, secondo il sindacato: molti giovani rinunciano a cercare lavoro perché realizzano che il mondo del lavoro offre solo contratti con pochi diritti, salari da fame, orari che non vengono rispettati e scarse opportunità di crescita. Secondo l’Inps, ci sono settori in Italia in cui oltre il 50% dei lavoratori è povero: un dato che fa saltare completamente tutta le retorica del merito offerta dall’attuale governo, che ha previsto anche la cancellazione del reddito di cittadinanza.
"La prima cosa da fare è far crescere i salari”, così la segretaria confederale Lara Ghiglione. “Il governo ha deciso di far naufragare la legge sul salario minimo – spiega -, ma questa scelta equivale a uno schiaffo a milioni di lavoratori sfruttati che continueranno a percepire salari da fame. Va da sé che se il lavoro fosse pagato degnamente, e se venissero rispettati i contratti in termini di orari, paghe e garanzia dei diritti, ciò costituirebbe una leva molto forte per spingere tanti giovani a impegnarsi nella ricerca attiva del lavoro”.
Un discorso simile vale anche per la formazione. “Ha senso se la si percepisce finalizzata a trovare un lavoro dignitoso – aggiunge la sindacalista -; ma se invece, come oggi accade, il rischio è quello di passare anni a formarsi e studiare per poi passare altri anni a fare la fame e farsi sfruttare, allora è ovvio che tante e tanti ritengano più ragionevole gettare la spugna”. Insomma “è la fiducia nel futuro, che va ricostruita, ma la fiducia deve basarsi su fatti concreti – a suo avviso -: salari, diritti, certezze sulla pensione, la casa, il welfare”.
Non basta il leggero calo dei Neet, naturalmente. “Bisogna vedere cosa sono andati a fare quei – comunque pochi – giovani che hanno deciso di ‘mettersi a fare qualcosa’. Se quel qualcosa è un lavoro sfruttato – però -, o un tirocinio di pochi mesi, o un contratto precario e sottopagato, allora questi dati non fanno altro che consegnarci ulteriori elementi di preoccupazione”.
Il sindacato di Corso d’Italia lo sta dicendo ormai da tempo: il governo procede in direzione opposta. Da parte sua, la Cgil in questi mesi “è impegnata in un rinnovato percorso per attivare, coinvolgere e organizzare le nuove generazioni – . Questo nella convinzione che il protagonismo dei giovani può essere la leva più potente per costruire il futuro. Transizione ecologica, salario minimo garantito per legge, diritto allo studio pienamente garantito a tutte e tutti, una previdenza che parta dai bisogni dei più fragili, sanità pubblica di qualità: i problemi dei giovani non sono solo un problema dei giovani – conclude Ghiglione -, ma ci riguardano tutte e tutti perché riguardano l’identità e il futuro del nostro Paese”.
Forniture record - 10 miliardi di metri cubi esportati nel 2022 - e concessioni redditizie, Tel Aviv sempre più partner strategico per sostituire la Russia. Ue in ansia per gli effetti del conflitto ma sorda di fronte al massacro. Italia in campo con le sue corporation
Piattaforma del giacimento offshore di Leviathan, nel Mediterraneo - Ap
«Israele ha il diritto di difendersi». A un mese dall’attacco terroristico di Hamas, e della brutale risposta di Israele, così si è espressa la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen nel suo discorso alla conferenza degli ambasciatori europei. L’Ue non si unisce all’appello globale per il cessate il fuoco e rimane sorda davanti a un massacro di civili senza precedenti.
Nella complessa dinamica geopolitica della regione, il tema dell’energia, e del gas in particolare, ha sicuramente un suo peso.
Dalla risposta europea all’invasione russa dell’Ucraina, contenuta nel pacchetto RePowerEU, Israele è diventato uno dei partner strategici per la sicurezza energetica europea. Una partnership che si è rinsaldata nell’ultimo anno, in primis con la firma di un accordo trilaterale tra Ue, Egitto e Israele che impegna Tel Aviv a vendere all’Ue il gas dei giacimenti offshore di Leviathan e Tamar, passando dai terminal Gol egiziani. Pochi mesi dopo la firma dell’accordo, il primo ministro israeliano Yair Lapid, in visita a Berlino, ha confermato che l’obiettivo del suo Paese era sostituire fino al 10% delle importazioni di gas dell’Ue dalla Russia.
Nel 2022, Israele ha esportato circa 10 miliardi di metri cubi di gas, di cui buona parte verso il mercato europeo.
L’infrastruttura strategica per veicolare il gas verso i terminal egiziani di Damietta e Idku è il gasdotto Ashkelon-Al Arish, un tubo di 90 chilometri che attraversa il confine tra i due paesi via mare passando proprio davanti alla striscia di Gaza e di fatto bypassandola. Ma per raggiungere l’obiettivo di esportare almeno 15 miliardi di metri cubi all’anno, a maggio di quest’anno Israele ha messo in campo la costruzione di un secondo gasdotto verso l’Egitto, lungo 65 chilometri, che parte da Ramat Hovat a sud di Beersheva, passando da Ashalim e fino a Nitzana, al confine con l’Egitto. Il nuovo tubo dovrebbe permettere l’esportazione di ulteriori 6 miliardi di metri cubi di gas all’anno.
Nello stesso periodo, l’esecutivo israeliano ha anche aperto un bando per 12 nuove concessioni di esplorazione di gas offshore, 6 delle quali, relative a giacimenti confinanti con il mega giacimento di Leviathan, sono state assegnate a fine ottobre a un consorzio guidato dall’italiana Eni. Così il cane a sei zampe, già presente nel mega giacimento egiziano di Zohr e con il controllo del terminal di liquefazione di Damietta, aumenta la propria presenza in una delle aree più strategiche nella mappa energetica ai confini dell’Ue. Ma un piede nel paese l’Eni lo aveva già messo a ottobre dello scorso anno, quando la mediazione della diplomazia statunitense ha aiutato a risolvere la controversia sulle concessioni tra Libano e Israele, permettendo a Eni e alla francese Total di iniziare a esplorare.
Eni non è l’unica corporation italiana a essere di casa nel mercato del gas israeliano: dal 2021 Snam controlla il 25% della East Mediterranean Gas Company, la società dalla struttura societaria opaca che controlla proprio il gasdotto Ashkelon-Al Arish. L’evoluzione della guerra tra Israele e Hamas preoccupa von der Leyen, così come il governo Meloni, anche per un altro motivo: ciascuno dei paesi “fornitori” di gas parte del Piano Mattei ha una posizione propria sul conflitto in corso, non sempre allineata con quella pro Israele dell’Ue.
Pochi giorni fa, l’Egitto ha “alzato le mani” rispetto alle quantità di gas liquido che potrà esportare verso il mercato europeo: con lo stop per ragioni di sicurezza delle estrazioni dal giacimento di Tamar deciso dopo l’attentato di Hamas, in quanto situato poco a nord di Gaza, il governo egiziano ha visto ridursi le importazioni di gas da Israele e a caduta anche l’export potrebbe diminuire. Tra aumenti dei prezzi, speculazione e instabilità è difficile prevedere cosa succederà nei prossimi mesi. Al di là di questo elemento, è però evidente che anche questo conflitto, come altri recenti, ha un forte legame con il gas fossile, i cui proventi vengono spesso e volentieri investiti in armamenti e apparati di sicurezza.
* ReCommon