Rappresentanza. Ridotto il numero dei parlamentari, se non si completa il percorso secondo gli impegni assunti dall’attuale maggioranza avremmo prodotto danni irreversibili alla nostra democrazia costituzionale e al pluralismo politico
Si sono bruciati i ponti, non c’è più nessuna possibilità di tornare indietro. Ridotto il numero dei parlamentari, se non si completa il percorso secondo gli impegni assunti dall’attuale maggioranza avremmo prodotto danni irreversibili alla nostra democrazia costituzionale e al pluralismo politico.
Per evitare quest’esito è necessario approvare entro brevissimo tempo una legge elettorale rigorosamente proporzionale. Inoltre, prima della fine della legislatura sarà fondamentale rivoluzionare i regolamenti parlamentari. Infine, alcune riforme costituzionali di contorno potranno essere utili, sebbene non saranno decisive.
A queste misure ci si riferiva quando le forze politiche che sostengono l’attuale maggioranza hanno sottoscritto il programma di governo impegnandosi ad approvare «la riduzione del numero dei parlamentari, avviando contestualmente un percorso per incrementare le opportune garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica». Al momento della decisione definitiva sulla modifica della composizione delle Camere la «contestualità» ha prodotto unicamente un secondo documento politico in cui viene ribadita la necessità di addivenire in tempi brevi a riforme ulteriori. Basta allora confidare sul rispetto degli impegni presi? Le prime divisioni già affiorano e il cammino sarà più arduo di quel che non si pensi.
Per una ragione di fondo:
Leggi tutto: Bruciati i ponti si salvi il parlamento - di Gaetano Azzariti
Commenta (0 Commenti)Memoria. Le tante Marzabotto sparse nel vecchio continente, dalla Francia alla Russia, sono la testimonianza più viva di dove vadano cercate le radici di questa nostra Europa, che troppo spesso si dimentica da quali tragedie ha tratto la forza, e si spera anche la convinzione, per cementare la coesione che, bene o male, la tiene assieme
A 75 anni dalla strage di Marzabotto si rinnova il dolore della memoria. Più che mai quest’anno l’occasione risulta particolarmente rilevante perché cade a ridosso della disgraziata dichiarazione del Parlamento europeo che equipara fascismo-nazismo e comunismo.
Mettendo di fatto sullo stesso piano fascismo e Resistenza.
La lontananza nel tempo dei fatti non solo non ha attenuato il loro ricordo ma permette oggi in prospettiva storica di misurare in tutta la loro complessità le implicazioni della memoria.
La prima considerazione necessaria riguarda il passaggio generazionale: oggi la memoria è affidata in gran parte ad una generazione che non ha vissuto i fatti che stiamo ricordando.
Questo è un buon segno perché significa che nell’avvicendamento delle generazioni non è andato perduto il filo della consapevolezza degli orrori che sono stati generati dalla seconda guerra mondiale, dal fascismo e dall’occupazione nazista.
Non si tratta di protrarre oltre ogni limite un atteggiamento di chiusura e di ostilità anche nei confronti della memoria dei responsabili dell’eccidio, ma di consolidare nella coscienza delle popolazioni interessate, con l’adesione al territorio, la consapevolezza degli oltraggi che quel territorio ha subito.
Bene hanno fatto il Consiglio comunale e la Sindaca di Marzabotto a denunciare con dignità e fermezza l’indecente manipolazione del Parlamento europeo e la cecità di quei sedicenti progressisti che ad essa si sono adeguati. I compromessi in politica si devono fare, ma i compromessi con la storia non sono altro che falsificazione.
L’esempio di Marzabotto segnala come meglio non si potrebbe dove si deve attingere per affondare le radici dell’identità europea.
Tra l’altro, le tante Marzabotto sparse nell’Europa, dalla Francia alla Russia, sono la testimonianza più viva di dove vadano cercate le radici di questa nostra Europa, che troppo spesso si dimentica da quali tragedie ha tratto la forza, e si spera anche la convinzione, per cementare la coesione che, bene o male, la tiene assieme.
L’associazione Marzabotto-Europa è un motivo di più per sollecitare gli eurodeputati a riflettere sulle origini del loro mandato e sulle responsabilità che comporta il loro esercizio. Vero è anche che l’Europa è spaccata in due e che una parte di essa tende a rimuovere un passato scomodo per anteporvi la memoria più recente di un passato ideologicamente più adeguato all’uso strumentale di una memoria mutilata da ciò che dovrebbe accumularla al resto dell’Europa.
Per noi Marzabotto è e rimane un simbolo, il simbolo non genericamente della guerra ma delle peggiori atrocità che nel suo contesto furono perpetrate indissolubili come erano dai regimi che ne furono artefici. Non è una distanza superficiale che ci separa dal pronunciamento del Parlamento europeo, c’è un profondo dissenso della prospettiva storica dalla quale guardare al passato dell’Europa. E dal quale quindi prendere le mosse per un futuro che non voglia accontentare tutti per non scontentare nessuno ma che possa segnare anche e soprattutto per le generazioni future una guida sicura e incontrovertibile. Forse domani sapremo se di tutto questo è consapevole anche Davide Sassoli.
Commenta (0 Commenti)L’Italia è l’unico Paese d’Europa dove non c’è una forza della sinistra in grado di esprimere una rappresentanza adeguata ad ogni livello e di contare nella politica nazionale. È il risultato dei nostri fallimenti politici ed organizzativi.
Dopo la caduta del muro di Berlino, sembrava che la razionalità del capitalismo finanziarizzato fosse fuori discussione. Fino a quando la grande crisi globale non si è incaricata di dimostrare il contrario. Ma mentre in altri Paesi europei e negli stessi Stati Uniti la crisi ha fatto da levatrice per una nuova sinistra radicale e di classe, in Italia abbiamo assistito all’eclissi anche di quel poco di sinistra che c’era.
I NOSTRI fallimenti, perciò, non riflettono una crisi dei valori fondanti della sinistra, a cominciare dal valore dell’uguaglianza. Sono il frutto di ataviche divisioni ed incomprensioni, personalismi e narcisismi, inaccettabili tatticismi. In pratica, tutto ciò che adesso andrebbe buttato al macero.
Perché la sfida della costruzione di una nuova sinistra, con un forte respiro europeo, in grado di contrastare da un lato il neoliberismo e dall’altro il sovranismo/populismo reazionario, è più attuale che mai. L’Europa continua ed essere stritolata nella morsa dell’austerità e delle politiche neoliberiste. Per il nostro Paese, questo significa che il debito viene usato ancora come un macigno per sbarrare la strada a progetti di risarcimento sociale a favore dei ceti più colpiti dalla crisi.
EPPURE, se da un lato in questi anni non sono mancate letture convincenti della crisi e dei suoi effetti, dei nuovi problemi del capitalismo, della stessa emergenza climatica, dall’altro scontiamo l’assenza di una visione politica condivisa di questi problemi e proposte chiare per un’alternativa di sistema.
PER COLMARE questo vuoto c’è bisogno di un cambio radicale di rotta e scelte nette. Bisogna confrontarsi con il pessimo risultato delle ultime elezioni europee, che ha fatto seguito ai fallimenti delle liste presentate dopo il 2014, ma anche con l’irrilevanza, apparsa ancora più evidente durante la crisi di agosto ed i suoi sviluppi.
NON È MAI facile, ma come L’Altra Europa con Tsipras lo abbiamo fatto e ne traiamo le dovute conseguenze, chiudendo con la fase che ci ha visti per un quinquennio soggetto di rappresentanza elettorale. Ripartiamo dalla nostra missione fondativa, quella di cercare una strada perché ci sia in Italia una sinistra degna di questo nome e non, come adesso, un’imbarazzante galassia di sigle. L’obbiettivo non è legato ad una scadenza elettorale, ma alla costruzione di una soggettività politica nuova ed organizzata. Un progetto alla cui realizzazione intendiamo concorrere trasformandoci da sigla (ormai una delle tante, anche se l’unica che in questi anni ha raggiunto l’obbiettivo anche elettorale che si era posto) ad associazione politica con questa specifica priorità.
Lo facciamo in questi mesi di avvio del nuovo governo, quando già riaffiorano vecchie questioni, come quella delle alleanze e del rapporto col Pd, del governo e dell’opposizione. Noi pensiamo che nelle condizioni date il problema della sinistra sia la sua esistenza come tale, non altro. E che i problemi della sinistra non possano essere risolti, sic et simpliciter, con la partecipazione di alcune sue componenti con pochi parlamentari all’esecutivo nato dal fallimento dell’esperienza gialloverde. Scelta che non ci convince, mentre l’avere sventato il disegno eversivo di Salvini è stato indubbiamente un fatto positivo.
MA QUESTO governo non è un governo di cambiamento e tanto meno costituente, se ci si riferisce all’inedita maggioranza che lo sostiene. E ad ora non sta affrontando nemmeno l’emergenza democratica dichiarata nel suo costituirsi.
Lo dimostrano il taglio dei parlamentari che asseconda logiche populiste e demagogiche (il voto su questo punto, previsto per i prossimi giorni, è un passaggio dirimente: la Costituzione non può essere oggetto di scambio), la riproposizione della dottrina Minniti sui migranti, il ritorno di insidiosi progetti di riforma costituzionale, ma soprattutto il traccheggiamento sulla reintroduzione di un sistema proporzionale puro, senza sbarramento, come unica forma di tutela del quadro democratico. E poi la discontinuità in economia non va solo cercata rispetto al Conte Uno, ma anche ai governi precedenti, ma invece ricadiamo nelle vecchie politiche senza svolta, come dimostra la Nota di Aggiornamento del Def.
NONDIMENO, questa fase politica può permettere sia di incalzare il governo sulle grandi questioni sociali ed ambientali aperte, sia di costruire l’alternativa di domani. A questo lavoreremo, creando occasioni per l’elaborazione di una vera agenda del cambiamento e coinvolgendo le tante risorse politiche e intellettuali, associative e di movimento che, a determinate condizioni, siamo convinti che potrebbero di nuovo attivarsi.
È un progetto ambizioso quanto necessario. www.listatsipras.eu
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Una risoluzione incredibile all'Europarlamento. La memoria non è cosa da affidare solo agli specialisti di storia, è parte fondante del nostro presente. Dobbiamo mettere alla berlina chi ha reso possibile una simile cosa e rispondere con forza, subito e ovunque
«Conversation» © Juan Muñoz
Confesso che, quando venerdì sera – in attesa di Tsipras alla Festa di Articolo 1 – un compagno mi ha mostrato sul suo telefonino un estratto della risoluzione sulla Memoria votata dal Parlamento europeo, gli ho detto, con tono irrisorio: «Ma non vedi che è una fake news?». E sempre con tono irrisorio ho insistito: «Una fake news diffusa da chissà chi?».
Quel testo mi era infatti apparso così ignobile da pensare fosse uscito da Casa Pound.
È solo l’indomani che mi sono resa conto che no, era davvero stato possibile quanto non avrei mai creduto lo fosse: che solo 66 deputati europei avessero votato contro uno degli atti più vergognosi, non solo per aver operato un indegno stravolgimento della storia ma anche – per via dei suoi clamorosi strafalcioni storici – tale da mettere in discussione il prestigio dell’istituzione parlamentare che l’ha varato. E dove fino a qualche anno fa – sia detto per inciso – sedeva, come indipendente ma eletto nelle fila del Partito comunista italiano, Altiero Spinelli.
(Da segnalare il decisivo e pertinente «contributo storico» del presidente Sassoli: «Ma ci sono stati i carri armati a Praga!»). Per non parlare dell’offesa apportata da quanto accaduto alla reputazione della consistente schiera di deputati un tempo militanti comunisti e socialisti che hanno sostenuto quella Memoria.
(Fra questi, ahimé, persino Giuliano Pisapia, che così si è autocondannato, essendo stato a lungo deputato di un partito che si chiamava Rifondazione Comunista).
Ma la mia sorpresa non è finita qui. Sollecitato ad intervenire sul tema, Etienne Balibar, il filosofo francese risponde da New York (dove da tempo tiene dei corsi), scrivendo: «Non so niente di questa storia, qui la stampa non ne ha parlato, e però nemmeno quella francese che continuo a seguire».
CONTROLLO a Parigi telefonando al nostro vecchio primo corrispondente dalla Francia, Alexandre Bilous. Casca dalle nuvole, mai sentito parlare di questa risoluzione. Mi richiama dopo poco: nessun giornale, dico nessuno, compresa l’Humanité, ha fatto cenno a questo voto europeo. Solo un ottimo sito on line, Mediapart, ne parla per via della lettera inviata dal signor Charles Heinberg, svizzero, docente di storia a Ginevra. Menomale. Rifletto: effettivamente alle ultime elezioni europee nessun deputato Pcf e neppure Psf è stato eletto.
(E però anche se non in parlamento non si sono accorti di quanto grave sia una risoluzione sulla nostra comune memoria scritta dalla peggior destra europea? E Raphaël Glucksmann, figlio del più noto padre nouveau philosophe oggi a capo di un non meglio definito raggruppamento di provenienza socialista, come giustifica il suo voto favorevole?).
SILENZIO anche sulla stampa tedesca, pur in generale attenta alla Memoria. Sia quella di destra che quella di sinistra.
Meno mi meraviglia il voto a favore dei Verdi: il loro tradizionale anticomunismo ha prodotto sempre non poche ambiguità politiche.
I nostri 5stelle, naturalmente, si sono astenuti. Come si sa per loro destra e sinistra sono riferimenti inesistenti, ma che la destra esista, almeno questo, dovrebbero recentemente averlo imparato).
IN ITALIA, a parte ovviamente il manifesto (per fortuna quella risoluzione non ha effetti giuridici altrimenti potrebbe esser posto fuori legge perché quotidiano comunista) c’è stata la Repubblica che ha ben commentato l’accaduto, per il resto quasi niente, oltre, naturalmente, le grida di giubilo della destra.
Non passo a una analisi storica del testo, lo hanno fatto con più competenza gli storici che ne hanno scritto; e quelli che certamente ne scriveranno.
Prendo la penna solo per dire che la nostra reazione, quella di tutti noi che siamo rimasti sbigottiti e indignati, non può, non deve, restare a questo: non possiamo solo meravigliarci che sia potuto accadere, dobbiamo mettere alla berlina chi ha reso possibile una simile cosa e rispondere con forza, subito e ovunque. Altrimenti finiremo per meravigliarci del fatto che a molti, di quanto accaduto, non importi niente. Più niente.
RISCHIAMO di rimanere ammutoliti dalla scoperta. E allora: bene Smeriglio e Majorino che non hanno accettato la disciplina di gruppo del Pd e si sono rifiutati di dire sì, ma non basta.
Con l’Anpi, con Pastorino e Laforgia di Leu e Fratoianni di Sinistra italiana che hanno subito reagito qui in Italia e sono in Parlamento e possono prendere anche in quella sede una iniziativa; e sopratutto con tutti quelli che si sono indignati, bisogna fare qualcosa, aprire un confronto. Innanzitutto nel Pd. La memoria non è cosa da affidare solo agli specialisti di storia, è parte fondante del nostro presente.
OLTRETUTTO la miseria dell’operazione spudoratamente negazionista che è stata messa in campo sta nel fatto che essa ha la meschina motivazione attuale di rafforzare le sanzioni economiche contro la Russia, di accentuare la più irresponsabile delle politiche europee del «dopo caduta del Muro»: anziché cogliere l’occasione per finalmente – come del resto aveva inutilmente sollecitato Gorbaciov – imboccare la strada dell’autonomia dell’Europa dai due blocchi militari e cercare di coinvolgere la grande Russia in un comune progetto (la Casa comune europea), si è scelta la strada di estendere la Nato tanto a est fino a impiantare i suoi missili sotto il naso di Mosca. Se Putin, che a nessun democratico piace, ha acquistato potere nel suo paese (ed è anche diventato ben più popolare di quanto vogliano far credere i media occidentali) è perché ha potuto giocare sullo sciovinismo, nato dalla reazione a questo accerchiamento.
Come pensate possa reagire oggi Mosca, dopo che l’Ue ha decretato che 22 milioni di donne e uomini russi che hanno perso la vita contribuendo in maniera decisiva alla sconfitta del nazifascismo, sarebbero stati invece nostri avversari?
Commenta (0 Commenti)Clima. «Siamo riusciti a far votare integralmente il testo proposto dagli attivisti climatici», afferma la consigliera comunale di opposizione Emily Clancy (Coalizione civica).
(Brisighella boccia la richiesta di dichiarazione di emergenza climatica: "La colpa è del sole")Il comune di Bologna ha approvato una dichiarazione di emergenza climatica ed ecologica con in testa tre ragioni: le richieste del gruppo Exinction Rebellion (Xr); le mobilitazioni dei Fridays For Future; i dati allarmanti su cambiamenti climatici, inquinamento, consumo di suolo e risorse ambientali.
Cosa prevede la dichiarazione?
Innanzitutto è un importante atto simbolico perché lunedì 30 settembre il comune di Bologna ha riconosciuto cosa sta accadendo al pianeta e come ci siamo arrivati. Ci sono poi degli impegni conseguenti che dovranno essere resi effettivi a breve termine. È stata approvata l’istituzione nei prossimi 100 giorni di una road map che definisca cosa fare per tutelare il clima. Nella dichiarazione ci sono alcuni suggerimenti: un piano di rimboschimento delle aree cittadine; incentivi sulla mobilità sostenibile per un trasporto più verde; consumo di suolo zero; efficientamento degli edifici pubblici e incentivi comunali verso quelli privati. Altri due impegni fondamentali sono: sviluppare azioni immediate per diminuire i livelli delle emissioni, con lo scopo di dimezzarle entro il 2025 e portarle allo «zero netto» nel 2030; maggiore diffusione dei dati in possesso del comune e più intensa sensibilizzazione dei cittadini sui temi ambientali.
Si parla anche di assemblee popolari…
Sì, la dichiarazione si ispira a tre principi: giustizia climatica ed ecologica, trasparenza e democrazia partecipativa. Xr chiede l’istituzione di spazi di discussione e indirizzo composti da cittadini informati e tecnici scientifici che possano coadiuvare l’azione
Leggi tutto: Bologna, comune dichiara l’emergenza climatica ed ecologica (Brisighella no....)
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Greta Thunberg ha mosso le montagne. Un anno fa era una ragazzina solitaria che si sedeva tutti i venerdì davanti al Parlamento svedese con il suo cartello e il suo impermeabile giallo. Ieri è stata la protagonista del vertice dei Grandi della Terra, che lei ha fustigato come Gesù i mercanti del tempio.
D’altronde quei «Grandi» non sono molto più che mercanti: vivono di do ut des e non vedono altro. In mezzo c’è stata una serie ininterrotta di incontri con figure più o meno ai vertici di qualche organizzazione o istituzione europea che l’hanno per lo più (non tutti) omaggiata, senza trarne alcuna conseguenza; ma anche una gragnuola di insulti e villanie al suo indirizzo da parte di diversi media, fiduciosi nella accertata ignoranza del loro pubblico su quale sia lo stato effettivo del pianeta (e, di conseguenza, anche il loro). Ma quello che ha accompagnato e determinato la parabola ascendente di Greta è stata la comparsa, prima, e lo sviluppo dirompente, poi, di un movimento mondiale di giovani, per lo più studenti, che ha coinvolto (finora) quattro milioni di ragazze e ragazzi (almeno cinque, con la prossima scadenza del 27.9) e non dà alcun segno di ripiegare.
Crescerà ancora, e molto, nei prossimi mesi, fino a che – speriamo – la staffetta non sarà passata in mano a una mobilitazione più generale, anche di adulti, e soprattutto di lavoratori, cittadine e cittadini, associazioni e comitati finalmente consapevoli dei pericoli che sta correndo il genere umano.
Per ora, comunque «il pallino» è in mano al movimento Friday for future e ai suoi comprimari. Non tutti se ne sono accorti, ma i temi che questo movimento solleva e continuerà a sollevare in tutto il mondo con crescente insistenza sono destinati a dominare il dibattito e un numero crescente di scelte politiche di qui in poi. Perché la crisi climatica e ambientale contro cui si batte è reale, incalzante e ineludibile. Chi continuerà a chiamarsene fuori finirà emarginato. Questo non riguarda solo i negazionisti dichiarati come Trump e Bolsonaro, ma anche quelli «nascosti», che a parole riconoscono i cambiamenti climatici in corso (magari non la loro gravità), ma poi continuano a comportarsi come niente fosse: al governo, nelle istituzioni, nella vita di tutti i giorni. Perché loro la risposta alle conseguenze (non alle cause) della crisi climatica ce l’hanno. Primo: respingere con la forza e con le leggi i migranti costretti ad abbandonare le loro terre dal degrado ambientale. Secondo, continuare a bruciare gas, petrolio e carbone fregandosene degli impegni presi, facendo i free riders mentre altri paesi dovranno affrontare costi e disagi di una più o meno convinta conversione produttiva. Terzo, usare la stretta verso i migranti per apprestare strumenti di repressione (come i decreti Salvini) con cui far fronte alle prevedibili rivolte che anche da noi il degrado dei territori e la crisi economica prodotta dalla stagnazione secolare non mancherà di provocare. Tre «soluzioni» che non risolvono nulla e fanno precipitare la crisi. Ma sul fronte opposto non tutto è così chiaro. E là dove di queste cose si è cominciato a discutere stanno venendo a confronto due prospettive divergenti.
La prima è quella che ripete Greta: dobbiamo far crescere la pressione su governi e istituzioni perché comincino ad agire. Loro sanno che cosa fare, ma non lo fanno. Che cosa occorre fare glielo dicono gli scienziati, ma non li ascoltano. Il fatto è invece che i governanti non sanno assolutamente che cosa fare; non ci hanno mai pensato. Ma non lo sanno nemmeno gli scienziati, che sanno benissimo (non tutti, ma i climatologi certamente sì) quello che sta per succedere se non si interviene e che hanno (alcuni di loro) anche messo a punto molte conoscenze e mezzi tecnici per farvi fronte. Ma non sanno e non possono sapere come. Perché ciò comporta la mobilitazione e l’attivazione delle popolazioni interessate, che è il cuore della politica (quella che i «politici» non fanno).
Molti, soprattutto nel mondo industriale «più avvertito», abbracciano questa posizione: fate in modo che i governi introducano incentivi e penalità per promuovere la conversione; al resto penserà l’industria, cioè noi, mossi dalla convenienza. È la green economy, la soluzione adotta con il protocollo di Kyoto (1997) che affidava a meccanismi di mercato la transizione verso un mondo ripulito dai combustibili fossili. E stata un fallimento. Che cosa bisogna fare allora? Bisogna lavorare per mettere la scelta delle soluzioni da adottare nelle mani di chi è già o sarà interessato alla propria sopravvivenza insieme a quella di tutta la specie umana, a pagare il meno possibile i costi della transizione, mettendoli a carico di chi può permetterselo e soprattutto a chi è responsabile del disastro in cui ci ha precipitato: industria e finanza. Le regole per farlo, per ora sono elementari: quelle di Extinction Rebellion: «Dire la verità»: nessun politico può permettersi di spiegare ai suoi concittadini ed elettori le dimensioni effettive del disastro che incombe su tutti e poi continuare a fare come se niente fosse. Infatti, per fare un esempio, il Comune di Milano ha dichiarato l’emergenza climatica, ma si è ben guardato dallo spiegare alla cittadinanza che cosa significa. «Convocare le assemblee» (e soprattutto farle convocare dalle istituzioni): non solo per «dire la verità», ma per esaminare, insieme a tecnici e scienziati disponibili, quali sono le soluzioni che si possono adottare localmente e quali quelle per cui occorre lottare a livello generale. «Agire subito»: non aspettare politica, istituzioni e imprese: ciò che si può fare subito lo si comincia a fare o a pretendere: a scuola, nel quartiere, nelle aziende, nei servizi pubblici, negli acquisti. Ed è moltissimo.
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