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FACCIAMOCI VEDERE E SENTIRE: 

4 GENNAIO 2020, ore 17.30 di fronte al nostro bellissimo DUOMO!



FAENZA NON SI LEGA!

Vogliamo far trovare anche a Faenza un muro di sardine, in risposta a chi ha la presunzione di venire a liberarci.
Sardine significa rispetto, identità, partecipazione, testimonianza, per questo si è scelto il 4 pomeriggio per dire a voce forte che ci siamo e che per prima cosa abbiamo rispetto per la festa del 5, dei faentini che saranno alla Not de Bisó e dei tanti volontari che ne rendono possibile la realizzazione con il loro lavoro gratuito. Essere una sardina significa essere diverso da chi strumentalizza una festa di tutti per farne la propria passerella elettorale.

*Le sardine hanno un altro stile. Uno stile fondato sul rispetto, non sulla provocazione*.

Questo è solo l'ultimo dei milioni di motivi per gridare tutti insieme che
FAENZA NON SI LEGA!?￰゚ミ゚?￰゚フネ

Essere una sardina significa anche essere solidali?￰゚ミ゚!
Chiediamo a tutte le SARDINE FAENTINE di portare un pesce in scatola (meglio se ?) che raccoglieremo e doneremo alla Caritas di Faenza, la quale provvederà a distribuirlo ai più bisognosi.

Ma soprattutto, SIATECI! Con l'allegria e la gioia di scendere in una piazza meravigliosa per ricordare i valori VERI della nostra costituzione!

Portate amici, bimbi, parenti! Le sardine, più sono e più fanno paura agli squali ?￰゚ミ゚?

Confidiamo nel vostro aiuto, ma ne siamo certi, che anche in migliaia lasceremo una piazza pulitissima e senza alcun problema d'ordine, perché le sardine non sporcano il mare dove nuotano!!
Lo rendono solo più vario e colorato! ?￰゚フネ
Portate striscioni, sardine di cartone, e tutto quello che vi viene in mente per arricchire il nostro mare!

Ci vediamo sabato :)

https://www.facebook.com/events/581988539046662/

 

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Il ministro Boccia è in affanno. La legge-quadro non ha superato la verifica di maggioranza, mentre i governatori secessionisti vanno all’attacco. «Raccapricciante» dice Zaia, mentre Cirio dal Piemonte annuncia che si allineerà entro fine anno.

Il punto è che la proposta di Boccia è debole. E non solo perché giuridicamente inidonea – come ho già argomentato su queste pagine qui e qui – a porre argine alla bulimia di alcune regioni. È debole anche perché non coglie le coordinate di fondo delle questioni sul tappeto, per almeno quattro punti principali.

Il primo. A partire dalle pre-intese del 28 febbraio 2018 un lungo e talora aspro dibattito ha evidenziato una distribuzione di risorse pubbliche sperequata a danno del Sud, derivante da scelte politiche e indirizzi di governo. Le evidenze sono inconfutabili. Si è anche dimostrata in buona parte falsa e strumentale la rappresentazione di un Sud sprecone incapace quando non malavitoso dedito a succhiare il sangue del virtuoso ed efficiente Nord.

È chiaro che nessuno sconto si può o si potrà mai fare a malapolitica e malamministrazione ovunque si presentino. Ma è evidente che – resa manifesta la sperequazione – si pone la necessità di una distribuzione più equilibrata. La domanda è: la legge-quadro garantisce questo obiettivo, in settori cruciali come istruzione, sanità, trasporti e comunicazioni, servizi sociali? La risposta è no. Non bastano a tal fine i Lep, e la perequazione infrastrutturale come è prevista.

Il secondo. La pretesa di autonomia differenziata conclude il progressivo abbandono dell’obiettivo esplicitamente sancito in Costituzione fino alla riforma del Titolo V nel 2001 di ridurre il divario Nord-Sud. Ad esso si è sostituito un separatismo che investe sul divario al fine di consentire alla locomotiva del Nord di accelerare per agganciarsi alle economie forti dell’Europa. Si abbandona la centralità nello scacchiere euro-mediterraneo, che si assume come marginale e destinato a una progressiva irrilevanza. Il Sud diventa una palla al piede di chi può e vuole correre, e poco conta che sia una prospettiva di sostanziale subalternità per il paese tutto.

In questa chiave è utile una Italia di staterelli, che si auto-organizzano per inseguire – quelli che possono – le famigerate «catene del valore». Per questo bisogna frammentare tutto il frammentabile, dalle infrastrutture materiali come ferrovie, autostrade, porti, aeroporti, a quelle immateriali, come la scuola. La domanda è: la legge-quadro pone argine a questa deriva? La risposta è: no, per nulla. Prima e dopo la legge-quadro, tutto è regionalizzabile.

Il terzo. In vista di siffatti scenari politici generali la sede appropriata per elaborare una proposta solida non è ovviamente la trattativa bilaterale tra ministero e singole regioni. Ma non è nemmeno la conferenza stato-regioni, per l’ovvio sospetto che i governatori siano disposti a barattare il maggior potere comunque a loro derivante da una autonomia accresciuta con l’interesse dei cittadini che rappresentano.

L’unico luogo appropriato è l’aula parlamentare, per un dibattito senza rete. Lo garantisce la proposta Boccia? No. Anzi, punta alla sede ristretta delle commissioni e per di più per un parere mai vincolante, e persino solo eventuale.

Il quarto. L’obiettivo è una discussione basata su fatti e cifre, e non su stereotipi e luoghi comuni, volta a un nuovo patto per l’unità della Repubblica, basato su un riorientamento delle coordinate politiche e sulla convinzione di una comune utilità. A tal fine l’art. 116 Cost. va ricondotto alla sua natura di strumento per limitati adattamenti a specificità locali, sempre a dimensione regionale. Qui è il vero argine alle aspirazioni separatiste.

iversamente, diventa realistico lo scenario delineato dalla Svimez, in specie nel Rapporto 2019: un futuro di declino per il Nord, e di colonia emarginata per il Sud.

È difficile oggi dire se il raggiunto quorum per il taglio dei parlamentari inciderà sulla vita del governo e della legislatura. Di certo, nella legge-quadro non basta limare qualche parola qua e là, come pure risulta sia stato fatto nelle ultime versioni.

Per quel che vediamo, sono cambiamenti relativamente marginali. Vogliamo sperare che il ministro abbia il tempo di un ravvedimento operoso. Provaci ancora, Frank.

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Cento cene. Al Centro Costa di Bologna, nel piatto la partita per la regione

Un’affollata cena in sostegno del manifesto al “Centro Costa” di Bologna, di fronte alla Cineteca in cui, negli stessi momenti, avveniva la conferenza stampa di Ken Loach. Una cena particolarmente importante, dato il momento politico legato alle prossime elezioni in Emilia Romagna.

Poche ore prima l’Istituto Cattaneo aveva presentato un suo studio sulle intenzioni di voto per la Regione, evidenziando alcuni dei temi che interrogano la sinistra, non solo a livello locale.

La distanza tra le percezioni in ordine alla buona amministrazione del Partito democratico nelle aree urbane e quella invece di segno diverso espressa dai segmenti periferici che si sentono per certi versi abbandonati alla loro marginalità. Come le aree della montagna, le differenze generazionali tra conservatorismo degli anziani e voglia di cambiamento nei ragazzi, anche recentemente intercettate e rese plasticamente dal movimento delle Sardine, nato a Bologna, e via enumerando. Un insieme di riflessioni molto articolate, che però sfociano chiaramente sull’evidenza di una contendibilità della Regione da parte della destra, con circa mezzo milione di voti ancora ondeggianti.

Temi elaborati in uno dei brevi interventi che hanno animato la cena, nello specifico quello del Presidente del Cattaneo Piergiorgio Ardeni, anche collaboratore del manifesto, che ha preso spunto dall’animata discussione del suo tavolo, avvenuta nel più puro stile della militanza politica engagé: volti accalorati, brindisi al passato ed al futuro, vecchie divisioni che venivano rievocate in nome di nuove unità di fronte all’avversario comune. Chi scrive ha discretamente girato tra i tavoli, oltre che per assicurarsi che la cena fosse di gradimento dei commensali, cogliendo segmenti di vissuti che oggi, a cinquanta anni dalla strage di Pizza Fontana, hanno ancora un valore che va ben oltre la semplice testimonianza personale. Diversi ragazzi si sono infatti appassionati a queste storie, potendo così collegare il loro presente ad un passato che, per quanto recente, non era nella loro memoria.

Tra i convitati molti volti storici della sinistra bolognese, dallo psichiatra Gianni De Plato a Sergio Caserta, animatore del circolo del manifesto ed impegnato in una difficile campagna elettorale con la pattuglia di “Emilia Romagna Coraggiosa”. Difficile per una sinistra di alternativa che si trova a fronteggiare a livello locale, sia la critica al modello di sviluppo che il Pd ha prediletto negli ultimi anni, più vicino alle classi medie urbane e produttive che alle periferie, sia la necessità di arginare una destra che può seriamente aspirare alla vittoria. Tra gli altri collaboratori del giornale, Franco Farinelli, il geografo autore di diversi saggi accademici su una disciplina che ha sempre definito come tutt’uno con la filosofia, ed esponenti del pacifismo di matrice libertaria come Horst Wiedemann mediatore culturale già in tempi non sospetti.

Alla fine della serata il ringraziamento di Tommaso Di Francesco, che ha riassunto brevemente la fase che attraversa il giornale, sottolineando la prospettiva di inserire il sostegno alla testata nell’ambito di un impegno politico ed anche culturale orientato dalla necessità di dare voce a strumenti critici ancora in grado di saper leggere la complessità del mondo contemporaneo senza pericolose semplificazioni.

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Ho letto e riletto le parole dette dal senatore Taviani in un occasionale raduno democristiano, che confessano la verità sulla prima delle stragi che hanno insanguinato questo paese: la strage di Milano, capostipite di una lunga stagione di politica criminale, prima in ordine di tempo e seconda, dopo quella di Bologna, per crudeltà e numero di vittime.

Una verità tranquilla. Quella della bomba fu messa «con la copertura dei servizi segreti». Ci fu un errore di calcolo, non c’era l’intenzione di uccidere tutta quella gente. Ma quella bomba fu messa e fatta esplodere «con la copertura dei servizi segreti», organi dello Stato e strumenti del potere politico.

Dunque ora lo si può dire con semplicità, prendendo il caffè: quella fu una strage di Stato. Quei ragazzi estremisti che allora scandivano nelle piazze questo estremo giudizio avevano ragione. Loro non erano credibili, ma il senatore Taviani è un responsabile massimo della politica italiana e lui può essere creduto.

Questa è la nostra Patria, questi sono i suoi capi, questa la nostra storia recente. Per vent’anni ogni italiano è stato preso in giro da processi contro fantasmi, un anarchico vivo e un altro morto. Ora che la memoria è spenta, e il crimine ha premiato chi l’ha commesso, i colpevoli e i beneficiari possono anche farsi riconoscere. Tra qualche anno, in qualche festa amichevole, un altro capo di governo in pensione ci dirà che anche nella stazione di Bologna, come nella banca di Milano, la bomba fu messa «con la copertura dei servizi segreti».

E chi ha «coperto» i servizi segreti? Gli assassini sono tra noi, anzi sopra di noi, e lo dicono. Non è di per sé sorprendente e neppure nuovo, sebbene nessun altro paese dell’occidente europeo possa vantare qualcosa di simile. È sorprendente la tranquillità con cui ora ci vien detto. Possono farlo perché con l’arte del delitto politico, usando quelle bombe o similmente il brigatismo, hanno piegato e trasformato la democrazia italiana in un altro regime, nutrito di un moderno fascismo, nel quale siamo così immersi che non riusciamo a comprenderlo e a definirlo. E perciò alla loro tranquillità fa riscontro la nostra.

Mostruoso è una brutta parola, ma non so definire altrimenti tutto questo. Mostruoso ma secondario e irrilevante, e mostruoso per questo più ancora che per il sangue versato. Oggi nessuno si sognerebbe di fare su questo una campagna elettorale. Hanno vinto e sotto accusa non sono loro, siamo noi, è la sinistra italiana e quanto di essa bene o male resiste.
(il manifesto 28/ 2/ ’92)

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Le sardine di Roma Oggi parliamo noi non sar una sfilata di vip

 

Oggi a Roma la grande nuotata delle sardine, l’Italia che «non si Lega» e «non abbocca» al populismo e all’odio.

«A piazza San Giovanni non sarà una sfilata di vip, parliamo noi. Saremo un corpo intermedio fra politica e mondo civico».

Flash mob anche in altre città italiane e in dodici capitali internazionali. E da domenica si lavora al dopo.

 
 
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Sinistra. Gli operai tornano in piazza e chiedono una politica industriale, e una programmazione. Non serve evocare lo stato imprenditore solo quando esplode l’ennesima crisi

 

Non si vive solo di sardine, ma meno male che ci sono. Le operaie e gli operai tornano a popolare le piazze. Cosa che stupisce solo chi pensava che non esistessero più. Dall’ex Ilva, da Almaviva, da Alitalia, da Whirpool, da Bosch, solo per citare alcuni luoghi di lavoro in crisi, in molti sono arrivati nella capitale per protestare contro la “desertificazione industriale”.

I rapporti dell’Onu, quanto quelli della Ue hanno spietatamente registrato la contrazione di almeno un quarto della produzione industriale italiana dal 2007 ad oggi. Le valutazioni dell’Istat hanno documentato nello scorso novembre la settima flessione produttiva consecutiva e prevedono per fine anno una diminuzione del 2,4%. Al Mise sono aperti 160 tavoli sulle crisi industriali, oltre 250mila lavoratori coinvolti, ma non se ne chiude uno.

Dopo sei anni di riduzione delle ore di cassa integrazione, i primi dieci mesi del 2019 hanno fatto segnare una totale inversione di tendenza: +18,30%, con una media di oltre 20 milioni di ore mese. E’ come se si fosse registrata un’assenza completa di attività produttiva per oltre 121.800 lavoratori, mentre i “tutelati” dall’ammortizzatore sociale hanno visto crollare il loro reddito per complessivi 878 milioni di euro.

Se andiamo più indietro nel tempo, quando arrivò la grande ondata delle privatizzazioni, scopriamo che dal 1993 ad oggi sono spariti circa 700mila posti di lavoro. Si sono rivelate profetiche le parole che Luciano Gallino scrisse nel 2003: “La settima economia del mondo – cioè quella italiana – pare essere diventata un nano industriale”. Ma, come nel più classico dei casi, non sono state ascoltate. E Landini può ben gridare nel comizio di ieri che “Né i governi di destra né quelli di sinistra hanno fatto la politica industriale di cui abbiamo bisogno”.

Le crisi industriali colpiscono quasi tutti i settori e la situazione è grama anche a livello internazionale. Per l’Ocse il 2019 sarà l’anno a minor crescita media globale dalla grande crisi. In Europa la locomotiva tedesca è in piena marcia indietro. Di fronte ad un quadro così disastrato non bastano qualche investimento pubblico e privato; l’allargamento degli ammortizzatori sociali; gli sgravi fiscali; un’innovazione che tutti reclamano ma che funziona solo in senso, quello della profittabilità degli scarsi investimenti; l’ormai retorico richiamo a Industria 4.0, un progetto in realtà pensato per la struttura produttiva tedesca che vuole mantenere la supremazia competitiva internazionale della Germania nell’eccellenza tecnologica e si basa sul rafforzamento del suo sistema partecipativo-corporativo; o pallidi accenni a una non meglio precisata green economy.

Serve un altro ritorno in termini innovati: quello dello Stato imprenditore che non può essere invocato occasionalmente quando si aprono le voragini delle crisi industriali e occupazionali. Al contrario deve essere il pilastro portante di una conversione ecologica dell’economia. Serve quindi un piano, va messa in atto una programmazione economico-industriale, un termine che il neoliberismo ha tacciato di sovietismo d’antan, salvo poi utilizzare la mano dello Stato per i propri comodi.

La situazione non è certamente quella del 1962, quando nella sua famosa “nota aggiuntiva” Ugo La Malfa, nel declinare di quello che fu il miracolo economico mai più raggiunto, metteva il dito sulla piaga degli squilibri, regionali, settoriali e sociali che quella stagione di sviluppo aveva portato con sé e tacciava di insufficienza l’intervento straordinario nel Mezzogiorno.

Ora la situazione è più complicata data la maggiore integrazione internazionale della nostra economia e gli stringenti vincoli europei. Ma questo significa che una moderna programmazione ne deve tenere conto, non che essa sia impossibile. Questo richiede la (ri)costruzione di strumenti operativi adatti alle nuove condizioni.

Non basta la nostalgia dell’Iri, anche se diventa sempre più forte. C’è bisogno di una visione almeno europea. Il padronato già si muove in questa direzione, come dimostra la dichiarazione congiunta dei primi di dicembre fra Confindustria, i tedeschi di Bdi e i francesi di Medef. Langue invece l’iniziativa del sindacato a livello europeo. Né si può dire che l’unità sindacale da noi abbia fatto grandi passi in avanti, visto che quando si scende nel concreto la segretaria della Cisl reclama l’applicazione del decreto sblocca-cantieri che la Cgil aveva nomato sblocca-porcate.

Landini ha chiesto un progetto condiviso fra padronato, governo e sindacati ricevendo un’apertura di credito da Conte. E’ una sfida grande e per questo pericolosa. Ciò che la separa dalla riedizione di infauste pratiche concertative è la capacità di rendere protagonista il conflitto sociale, in tutte le sue articolazioni.

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