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Coronavirus. Anche fautori del liberismo e della disarticolazione istituzionale mettano ora sotto accusa il taglio alla sanità pubblica e la scellerata «autonomia differenziata»

Ieri a Wall Street

 

Scriveva Thomas Mann che «certe conquiste dell’anima e della conoscenza non sono possibili senza malattia». Sul tema si è soffermato anche Dostoevskij, in una sorta di misticismo della malattia. Un tratto comune della grande letteratura europea a cavallo dei due secoli trascorsi.

I I Si pensi a Proust: «La Recherche è la grande opera di un malato» commentava infatti Giovanni Macchia. La malattia, dunque, come un viaggio della e nell’anima alla scoperta di una nuova relazione fra sé e la realtà esteriore che la transitoria sanità del corpo impediva di vedere con tanta vibrante lucidità. L’evento della malattia era inteso come un accadimento all’individuo, non ad una collettività. Ma quando un’epidemia che tracima in pandemia investe di fatto l’intera popolazione mondiale senza zone franche, si può immaginare un simile percorso di «redenzione»?

SE LEGGIAMO le migliori riflessioni che si fanno strada tra l’opprimente volume di banalità che le soffoca, troviamo forse qualche cosa di nuovo. Non solo il rafforzamento di elementi critici verso il sistema economico e l’impalcatura istituzionale del moderno capitalismo, ma sbucano elementi che alludono ad una strada diversa. Nel nostro paese la cosa è abbastanza evidente. Non passa giorno che persino fautori del liberismo e della disarticolazione istituzionale non mettano sotto accusa il taglio alla sanità pubblica e la sua regionalizzazione. Mentre appare ridicolo insistere nello scellerato progetto di una autonomia differenziata voluta e sostenuta dalle regioni del Nord, le prime ad essere travolte dalla inedita emergenza sanitaria.

QUANTE VOLTE abbiamo sentito dire, retoricamente, che «L’Europa deve parlare con una voce sola», di volta in volta riferendosi ai più diversi argomenti, quali la politica energetica o quella estera. Ora il tema si pone in modo grave, acuto, urgentissimo su due versanti: uno non nuovo, ma riproposto in modi terribili e strazianti, quello dei migranti spinti da Erdogan contro le militarizzate frontiere di una Grecia dove ben si coglie il carattere barbaricamente regressivo del cambio di politica e di governo. L’altro è quello del terreno delle politiche economiche da attuare subito per fornire strumenti e risorse contro l’ondata epidemica, almeno per contenere se non invertire gli effetti depressivi che comunque lascerà nella società e nella economia europea.

QUESTI DUE aspetti, persino brutale l’uno, drammatico l’altro, incastonati in uno sfondo di guerre e di deterioramento climatico-ambientale, non sono separati ma sfaccettature di un prisma di ottusità impermeabile a qualsiasi pratica di solidarietà fra i paesi della Ue. Ma se quest’ultima non affronta e risolve questi nodi che ci sta a fare? I fenomeni di deglobalizzazione non hanno aspettato le recenti drammatiche congiunture per manifestarsi. Da tempo sono in crisi i vecchi assetti dei rapporti commerciali. Non da oggi la curva della profittabilità delle multinazionali, che delocalizzavano intere fabbriche alla ricerca del minore costo del lavoro possibile, si è volta verso il basso o quantomeno appiattita. Il sistema economico dominante ha reagito strutturando nuove tipologie e modalità di formazione e di organizzazione delle catene del valore, abbattendo lo stato sociale, puntando sul «capitalismo delle piattaforme», su quello «della sorveglianza» ove sono abbattute le spese per impianti fissi e per personale stabile, agendo essenzialmente con il lavoro precario o addirittura gratuito in quanto nascosto nella crisalide del consumo. Tutto ciò oggi viene messo a nudo anche da fattori extraeconomici.

SE AL DI LÀ di vuote parole, verso i processi migratori, indotti da guerre e da disastri ambientali da noi stessi europei in gran parte provocati, persiste la cieca politica della negazione della vita; sul versante economico – e non a caso – si fa strada seppure faticosamente qualche barlume di consapevolezza. Il tema degli Eurobond, pur nelle sue molteplici versioni possibili, non è più un tabù e neppure l’idea stravagante di qualche Cassandra. Anzi è nato un nuovo neologismo: i coronabonds. In sostanza obbligazioni emesse dai singoli Stati nazionali ma garantite dall’insieme dei membri dell’Unione e vincolate a finanziare il contrasto alle conseguenze economiche dell’epidemia in corso. Si tratta come è noto di superare le logiche sovraniste e separatiste di diversi paesi, non «frugali» ma «tirchi» come li ha definiti il capo del governo portoghese, e soprattutto le ataviche resistenze della Germania. La suddivisione fra i vari paesi del rischio lo ridurrebbe a poco più di nulla.

Anziché discutere delle modifiche regressive al Mes, che cristallizzano la divisione dei Paesi in quelli finanziariamente sicuri e quelli no, è di questa innovazione che bisognerebbe urgentemente parlare e decidere. Tanto più che la pioggia di liquidità del quantitative easing, ha perso sempre più di efficacia, fomenta nuove bolle, non raggiunge né imprese né persone, ma si ferma nelle banche. Cosa più disastrosa che inutile in una situazione in cui, anche a causa delle recenti restrizioni, la crisi si fa sentire su entrambi i lati, quello della domanda e quello dell’offerta.

NELLO STESSO tempo una svolta solidale in economia aprirebbe spiragli per contrastare la disumanità con cui trattiamo i migranti. Anziché fili spinati, gas ustionanti, pallottole e bastonate, servirebbe aprire le porte della Ue, ridare speranza di vita a chi è stata tolta anche per nostra responsabilità, per smontare il ricatto criminale di Erdogan e per trovare insieme le strade di un nuovo modello di società.