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LO SCONTRO. I sindaci del sud scrivono a Mattarella contro la "secessione dei ricchi". Il ministro per gli affari regionali Calderoli (Lega) sbotta e minaccia querele. Opposizioni divergenti. Cinque Stelle e sinistre chiudono, Terzo Polo apre, il Pd dipende

 Il ministro per gli affari regionali e per le autonomie Roberto Calderoli - Ansa

Cinquanta sindaci si appellano via Pec a Sergio Mattarella chiedendogli di fermare la legge quadro sull’autonomia differenziata che il ministro Calderoli, puntuale come il capodanno, ha presentato quattro giorni fa. Esordiscono ringraziando il presidente per aver segnalato, nel suo discorso di fine anno «le ingiustizie determinate dalle differenze tra i diversi territori del paese». Chiedono un incontro con il presidente, consapevoli del monito forte che era implicito nel discorso di capodanno. Calderoli però non ci sta e sbotta: «Adesso si è passato il limite. Io ho giurato sulla Costituzione che sancisce l’unità nazionale: scrivere che voglio spaccare l’Italia significa darmi dello spergiuro. Sono ministro delle regioni, di tutte le regioni, non di alcune sì e altre no».

La forzatura, specialmente se sommata a quella veicolata dalla manovra con la creazione di una commissione per determinare i Lep, Livelli essenziali delle prestazioni, al posto del parlamento e della conferenza Stato-Regioni, suona però più che minacciosa per le regioni povere a vantaggio di quelle ricche. I governatori del Sud, a partire dal pugliese Emiliano, sono insorti subito appoggiati anche dall’emiliano Bonaccini, sin qui schierato invece a favore dell’autonomia differenziata. «Questa proposta spacca il paese. È una forzatura che mette a rischio la tenuta sociale delle nostre terre».

Certo, il passo indietro sull’autonomia differenziata è anche il prezzo chiesto a Bonaccini dai potenti governatori del sud, Emiliano e De Luca, per appoggiarlo nella corsa alla segreteria del Pd. Ma resta il fatto che la Lega, unico partito a esultare per la proposta Calderoli, appare ora del tutto isolato. Lo stesso silenzio della premier è più gelido che complice e del resto sono noti i suoi crescenti dubbi su una misura che scontenta l’elettorato del sud, cioè la parte meno volatile del suo consenso, e sul quale il capo dello Stato ha fatto capire che non resterebbe a guardare se venisse violato il principio costituzionale dell’eguaglianza territoriale. Quella di Calderoli, insomma, è prima di tutto una forzatura nei confronti del governo e della maggioranza.

L’autonomia è il prezzo che la premier deve pagare alla Lega in cambio dell’appoggio sul presidenzialismo. La tabella di marcia su quel fronte è già fissata: entro gennaio o poco oltre la ministra Casellati incontrerà i partiti di opposizione. Se troverà una disponibilità al dialogo sul modello di presidenzialismo da adottare il governo procederà per via parlamentare, altrimenti avanzerà una sua proposta entro la pausa estiva. Il Terzo Polo aprirà le porte, il M5S le blinderà quasi di certo. Dunque tutto dipenderà dal Pd, che al momento appare attestato sulle stesse posizioni dei 5S ma con la nuova segreteria potrebbe ammorbidirsi, tanto più che la presidente è disposta a partire dal modello privilegiato a suo tempo dall’allora Pds, il semipresidenzialismo francese.

Va da sé che il peso e il condizionamento della Lega varieranno sensibilmente in conseguenza della scelta finale del Pd, impennandosi se la riforma sarà solo della maggioranza ed eventualmente del Terzo Polo ma calando vertiginosamente se invece si tratterà di una testo condiviso partorito da una commissione bicamerale o dalle commissioni Affari costituzionali congiunte. Inoltre i tempi della riforma costituzionale sono inevitabilmente lunghi. Calderoli ha deciso dunque di forzare con l’obiettivo di far approvare il suo testo dal Consiglio dei ministri subito per poi passare alla conferenza unificata e trasformarlo in proposta di legge entro gennaio. Ma in questa sfida la Lega è davvero sola contro tutti.