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MEDITERRANEO . «La prima cosa sarà chiamare mia madre e dirle: sono vivo e lontano dalla Libia», afferma Dao. Fuori la gioia per un futuro che si spera diverso, dentro le cicatrici del viaggio. «Felici che l’indicazione sia stata rapida, ma rimane l’incertezza sui motivi della novità», dice Anabel Montes Mier, coordinatrice dei soccorsi di Msf

Via libera alla Geo Barents. A bordo esplode la festa Festa sulla Geo Barents - Giansandro Merli

Quattro applausi e quattro urla collettive di gioia. Perché ci sono volute quattro traduzioni per far sapere a tutti che la Geo Barents aveva ottenuto il porto di Salerno: francese, arabo, inglese e tigrino. È un mondo fatto di tanti mondi quello che da domenica scorsa brulica sulla nave di Medici senza frontiere. Sedici le nazionalità: Egitto, Eritrea, Guinea Conakry, Costa d’Avorio, Sud Sudan, Sudan, Siria, Etiopia, Ghana, Gambia, Senegal, Camerun, Liberia, Niger, Togo, Mali. Una babele di lingue, culture e percorsi di vita che nei giorni trascorsi insieme hanno trovato i modi di comunicare oltre ogni barriera. Con i gesti e i sorrisi. Con i linguaggi internazionali: musica, preghiere e poi scacchi e carte distribuite dall’equipaggio per passare il tempo.

«LA PRIMA COSA che farò a terra sarà chiamare mia madre. Per dirle che sono vivo e lontano dalla Libia. Mi ha fatto partire perché a casa avevamo troppi problemi, ma non sapeva ciò che accade in quel paese. Per la paura non uscivo più, lei era terrorizzata da mesi», dice Dao (tutti i nomi sono di fantasia). È nato in Costa d’Avorio, ha 16 anni, ma è alto e parla come un uomo maturo. Adesso può guardare avanti e ha gli occhi gonfi di speranza. Uno sguardo diverso da di chi si sforza di ricordare il passato prossimo, lasciato al di là del mare.

ODETTE HA 20 ANNI, del Camerun. Parla francese. Accetta di raccontare solo quando le viene detto che il governo italiano vorrebbe bloccare le persone in Libia. «In Libia? Ma è l’inferno in terra!», sbotta. Si mette seduta e con calma ripercorre il viaggio. La fuga da casa per rifiutare un matrimonio combinato. «Voglio stare con l’uomo che amo, non con quello scelto dalla mia famiglia», dice. Il volto si adombra al passaggio della frontiera algerina. «Ho sentito sparare per la prima volta in vita mia. Ci hanno rubato tutto, hanno picchiato gli uomini e preso le donne», continua descrivendo l’inizio dell’incubo.

«IN LIBIA NON ESISTE PIETÀ per chi ha la pelle nera. Sono stata picchiata e torturata. Mi colpivano ogni giorno sulle orecchie. Adesso sento poco. Ho conosciuto il kalabush, la prigione, in luoghi come Sabratha e Zawyia. È l’inferno in terra. È scritto anche all’ingresso. Gli uomini ti vedono, ti indicano e ti portano di là per stuprarti», riesce a dire Odette prima di scoppiare a piangere. Si commuove anche Mohamed, 15enne ivoriano che si avvicina da solo per raccontare la sua storia ma continua a dire: «Non si può descrivere tutto quello che succede là. Non si può».

AD ALTRI, in particolare agli egiziani e a chi è stato in Libia pochi mesi, è andata meglio. Ma è da esperienze di violenza e terrore che vengono la maggior parte delle persone, e praticamente tutte le donne, soccorse dalle Ong. Per questo qui a bordo li chiamano «sopravvissuti». Sopravvissuti due volte: al Mediterraneo e alla Libia. Quel paese in cui i soldi italiani ed europei finanziano centri di detenzione e milizie che con nomi diversi danno la caccia a sub-sahariani e originari del Corno d’Africa. Per sequestrarli ed estorcere soldi ai parenti.

CHE ABRAHAM sarebbe sopravvissuto non lo credeva nessuno, raccontano gli amici. Ha 20 anni ed è nato in Eritrea. È scappato per sottrarsi al servizio militare, obbligatorio e a tempo indefinito. Non voleva partecipare a nessuna guerra. Vuole studiare e lavorare per aiutare i suoi. Ha le mani e il bacino consumati dalle croste. Per il personale medico si tratterebbe di un’infezione secondaria alla scabbia, che dà prurito fino a consumare la pelle. Lo hanno arrestato e venduto prima in Niger e poi in Libia, rinchiuso nel lager di Korciafana. Dove in una stanza sono stipati fino a mille corpi. Senza spazio per stendersi. Con pochissimo cibo e acqua.

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QUANDO LA PROPAGANDA razzista, mascherata da realpolitik, parla di fermare le partenze è in posti del genere che vuole condannare i migranti. Ai 254 salvati dalla Geo Barents e al bambino nato a bordo è andata bene. Gli è andata bene anche perché non hanno dovuto attendere un porto per otto, nove, dieci giorni come ogni volta negli ultimi cinque anni. Con i governi di tutti i colori. Come se le sofferenze che le persone si sono lasciate alle spalle giustificassero qualsiasi cosa, anche abbandonarle sui ponti delle navi. A dormire per terra. A lavarsi con un secchio d’acqua. A nutrirsi con il cibo d’emergenza offerto dagli equipaggi.

IERI È STATO quasi un record: la prima e unica richiesta di porto è stata spedita alle 9.12, la risposta è arrivata con una telefonata alle 15.10. «Scegliete Bari o Salerno», ha detto la guardia costiera. Msf ha optato per la città campana, un po’ più vicina ma comunque a 262 miglia nautiche. Oltre un giorno di navigazione. «La prima reazione è di sorpresa e stupore – commenta Anabel Montes Mier, coordinatrice dei soccorsi della Geo Barents – Il porto sicuro deve essere assegnato nel più breve tempo possibile e in questo caso è stato relativamente rapido. Nelle missioni precedenti si era normalizzata un’attesa troppo lunga che non deve avvenire. Anche se il porto è lontano, salutiamo con allegria l’indicazione. Rimane però l’incertezza su quale sia la ragione di questa novità». È difficile credere che il governo Meloni abbia deciso di rispettare il diritto internazionale e non stia invece ripensando la strategia per ostacolare i soccorsi. Dopo la sconfitta degli «sbarchi selettivi» e lo scontro diplomatico con la Francia iniziato un mese fa.

Ragazzi guardano il mare a poppa, foto di Giansandro Merli

INTANTO, PERÒ, Dao, Odette, Mohamed, Abraham e tutti gli altri potranno finalmente toccare terra. Dovranno ricominciare a lottare perché difficilmente troveranno la cura e l’attenzione che in questi giorni gli ha riservato l’equipaggio di Msf. Forse ha ragione il ministro della Difesa Guido Crosetto quando definisce le navi umanitarie «centri sociali galleggianti». Non per il significato negativo che un politico a lungo attivo nel settore delle armi riserva a luoghi che si battono per pace e solidarietà. Ma perché, come gli spazi autogestiti a terra, le navi umanitarie disegnano in mare una rotta radicalmente diversa da razzismo, diffidenza, isolamento, banalizzazione del male.