Beni Comuni. A sette anni dal referendum nazionale boicottato, i comitati «Rete rifiuti zero» rilanciano la battaglia. Ma il Pd in Regione difende i privati.
Dopo sette anni i comitati per l’acqua pubblica ci riprovano. Lo fanno in Emilia-Romagna, la Regione che nel 2011 assicurò, assieme a Toscana e Trentino-Alto Adige, il raggiungimento del quorum referendario che puntava a trasformare l’acqua in un bene comune a gestione pubblica. Un plebiscito lontano e inapplicato quello di sette anni fa, e i referendari lo sanno bene. Per questo i comitati e i loro alleati della “Rete Rifiuti zero” hanno accantonato la via del referendum per scegliere invece quella della Proposta di legge regionale.
SE SARÀ APPROVATO il provvedimento non solo faciliterà la vita a quei Comuni che vorranno ripubblicizzare il servizio idrico ma normerà anche l’importantissimo tema dei rifiuti. Un doppio binario che parla di ambiente e partecipazione dal basso nella gestione dei servizi pubblici, e che punta a scardinare il dominio incontrastato delle grandi multiutility nel settore, in Emilia-Romagna si parla di due player di livello nazionale come Hera e Iren, aziende quotate e galline dalle uova d’oro per gli enti locali che ogni anno incamerano importanti dividendi e, questa la contropartita, riescono sempre meno a dettare le linee e strategie alle loro aziende.
«VOGLIAMO RIPORTARE la gestione di acqua e rifiuti il più possibile vicino ai cittadini – dice Natale Belosi, coordinatore regionale della Rete Rifiuti Zero -. Vogliamo dare gambe ai principi alla base dell’economia circolare e scrivere nero su bianco che la raccolta e la gestione dei rifiuti deve sottostare a una finalità pubblica e non ubbidire a mere regole di mercato». Al di là degli importanti principi generali, che nero su bianco definiscono l’acqua un bene comune e quello dei rifiuti un ciclo strategico da orientare alla produzione zero, restano gli strumenti operativi che la legge metterebbe in campo. A cominciare da un fondo per la ripubblicizzazione dell’acqua.
IL TESTO DI LEGGE DOVRÀ essere discusso nell’aula regionale e li si vedrà l’orientamento delle varie forze politiche. Resta un punto fermo: dopo tanti sforzi, anni di proteste, proposte e tentativi di dialogo, a vari livelli il Pd ha sistematicamente chiuso la porte al referendum del 2011, e in sette anni Hera è diventata più grande (6,1 miliardi il fatturato 2017, più 10,3 per cento sull’anno precedente) e si è sempre più allontanata dagli enti locali. Anche dove erano partiti processi capaci di portare alla ripubblicizzazione del servizio tutto è stato bloccato. È successo ad esempio nel 2015 a Reggio Emilia, che ha avuto la possibilità di affidare la gestione del ciclo idrico ad una società 100 per cento pubblica e che invece, dopo una piroetta del Pd locale, si è ritrovata a fare marcia indietro tra le proteste dei comitati referendari.
«NEL 2021 SCADRÀ l’affidamento del servizio idrico in provincia di Bologna – ragiona Andrea Caselli dei comitati Acque bene comune -. Vogliamo arrivare a quel momento con una normativa regionale capace di aiutare tutte le amministrazioni che vorranno affidare l’acqua ad un’azienda pubblica. L’anno prossimo ci saranno le elezioni regionali ed è questo il momento in cui le forze politiche dovranno impegnarsi a dire ai cittadini cosa vogliono fare». Con i promotori si sono già schierati Sinistra Italiana e il consigliere Giovanni Alleva dell’Altra Emilia-Romagna. Il Movimento 5 Stelle sta invece valutando la questione, resta però sul tavolo la promessa di Massimo Bugani, capogruppo dei grillini a Bologna e membro dell’associazione Rousseau: «Se vinceremo in Regione lavoreremo per l’acqua pubblica». E il Pd? «La strategia negli ultimi anni è stata quella di strisciante privatizzazione – dice Caselli -. Alla fine queste scelte politiche porteranno sempre più utili e dividendi ai privati, mentre toglieranno potere ai soci pubblici».