Nasce il governo gialloverde figlio del terremoto elettorale del 4 di marzo. Un esito che proietta il paese in una fase difficile e densa di incognite.
E che, anche per questo, impegna la sinistra a misurarsi nel nuovo scenario, a difesa dei diritti sociali e civili, del lavoro e dei migranti, dell’Europa e delle garanzie costituzionali.
Una sfida che la mette di fronte al laboratorio politico determinato dalle macerie lasciate dalla crisi economica e culturale che ha quasi azzerato la sua rappresentanza. Ora serve cambiare passo e darsi una prospettiva da misurare sui tempi della XVIII° legislatura.
Nel bilancio di questi mesi, il presidente della Repubblica esce dal tunnel evitando l’imbarazzante precedente di un governo tecnico votato da nessuno, e inoltre determinando alcune scelte dei ministri, a cominciare dallo spostamento del professor Savona, il casus belli che aveva fatto saltare l’accordo.
La lunga e tribolatissima navigazione gli è costata la contestazione di un’invasione di campo e il prezzo di una surreale minaccia di impeachment.
A decidere tutto alla fine è stato Salvini, il leader leghista, capace di gestire il rischio di un’alleanza così sbilanciata nel rapporto di forza elettorale, capitalizzando ruoli-chiave nell’organigramma di palazzo Chigi: interni e vicepresidenza per lui, cruciale sottosegretariato per il numero 2 Giorgetti, e un ministero dell’Economia dove anziché Savona va il collega Giovanni Tria, nome nuovo di area moderata.
Bilancio meno esaltante per i 5Stelle e il loro leader. Prendono i ministeri «sociali» (sanità, lavoro, sviluppo economico, sud). E un presidente del consiglio, Conte, che dovrà faticare parecchio per non essere schiacciato tra i due padrini politici.
Di Maio con il suo partito diventato di maggioranza relativa, grazie ai voti di sinistra, esce invece ferito da mosse autolesioniste e da una forte contestazione interna che non digerisce l’alleanza con la destra lepenista.
Una contraddizione che, come tutte le contraddizioni in seno al popolo, merita attenzione.