Putin e la governatrice della Banca centrale russa Elvira Nabiullina in un colloquio nel 2017 - Alexei Nikolsky via Ap
Si dice che la governatrice della Banca centrale russa, Elvisa Nabiullina, avesse avuto l’intenzione di dimettersi subito dopo l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio, ma che evidenti ragioni di opportunità politica l’abbiano dissuasa.
Come è noto cercare la verità in tempo di guerra è impresa proibitiva. Quello che pare ormai certo è che le sue opinioni sulle prospettive economico-finanziarie del suo paese divergono sempre più da quelle di Putin e dell’ex presidente russo Dmitrij Medvedev.
Parlando alla Duma, la camera bassa, la Nabiullina avrebbe affermato – stando alla Tass – che le sanzioni adottate contro il suo paese se in un primo momento hanno colpito essenzialmente il mercato finanziario, ora fanno sentire i loro effetti sull’economia reale. Il contrario della spavalderia mostrata da Putin che parla del fallimento della strategia della guerra lampo economica contro la Russia o da Medvedev che avverte che un default russo trascinerebbe nell’insolvenza l’intera Europa.
Per Nabiullina – ed è questa la parte più importante del suo discorso, specialmente se ci fosse qualche forza in grado di raccoglierla – le sanzioni imporrebbero cambiamenti strutturali nell’economia russa, modificando anche il suo «modello di business» con il resto del mondo.
Al contrario per Putin il quadro economico si starebbe stabilizzando e il rublo tornerebbe ai livelli antecedenti al varco del confine ucraino. Lo scontro verterebbe quindi sull’efficacia delle sanzioni e sulle eventuali conseguenze trasformative del modello di sviluppo.
Woodrow Wilson verso la fine del primo conflitto mondiale definì le sanzioni economiche «peggiori della guerra». Biden ha rilanciato lo stesso concetto affermando che l’unica alterativa alle sanzioni sarebbe una terza guerra mondiale.
Del resto gli Usa le hanno imposte ininterrottamente e con particolare intensità dagli anni Novanta in poi verso un numero sempre crescente di Paesi. Ma se l’interdipendenza economica ne moltiplica gli effetti, allo stesso tempo li depotenzia, essendo la loro efficacia legata alla centralità dominante di chi le impone.
Ma gli Usa non si trovano più nella posizione di assoluti padroni del mondo. La Cina può attutire l’effetto sanzionatorio anche in campo finanziario, offrendo un sistema alternativo allo Swift; allo stesso tempo la contromossa di Putin sul pagamento in rubli anziché in dollari delle esportazioni energetiche russe rende più arduo il tentativo di isolare l’economia e la moneta di quel paese.
L’ammonimento di Putin, nel summit virtuale con Biden del 7 dicembre scorso, che le banche russe avrebbero saputo aggirare le sanzioni era più che una boutade.
In realtà la «guerra lampo» resta un mito tanto sul terreno militare quanto su quello economico. Ma sul più lungo periodo le cose cambiano.
Nabiullina ha avvertito che il periodo in cui l’economia può vivere sulle scorte è comunque limitato. Il protrarsi nel tempo della guerra, sommata a una sindemia ancora non debellata, ci conduce nella situazione descritta recentemente da Kristalina Georgieva, direttrice del Fmi, secondo cui 143 paesi, pari all’86% del Pil mondiale, sono condannati a una crescita più bassa o a una recessione, ove povertà e sottonutrizione raggiungeranno nuovi record negativi.
La doppia crisi, sanitaria e bellica, porta alla «forse più grave sfida al quadro di regole che ha governato il mondo per più di 75 anni».
Il riferimento agli accordi di Bretton Woods è esplicito e infatti l’uscita da questa doppia crisi richiederebbe un appuntamento mondiale di quella portata, per ridisegnare un quadro di relazioni interamente stravolto.
Anche le previsioni della Banca d’Italia sono legate alla durata del conflitto. L’ultimo Bollettino disegna tre scenari ipotetici, nessuno dei quali allegro, ma certamente il peggiore, tutt’altro che improbabile, è quello in cui, anche a causa di un’interruzione dei flussi di gas russo in presenza di uno ritardo storico sulle rinnovabili, «il Pil diminuirebbe di quasi mezzo punto percentuale nel 2022 e nel 2023; l’inflazione si avvicinerebbe all’8% nel 2022 e scenderebbe al 2,3% l’anno successivo».
A ciò va aggiunto che l’inflazione acuisce le diseguaglianze, poiché morde di più sugli acquisti indispensabili dei ceti popolari.
Appare quindi lunare quanto irresponsabile il dibattito sullo scostamento di bilancio o sull’ipotesi di un nuovo patto concertativo per contenere le rivendicazioni salariali.
Se quindi guardiamo le cose dal punto di vista sociale ed economico diventa ancora più evidente e urgente riannodare il filo della trattativa per imporre il cessate il fuoco in Ucraina che, invece, l’invio di armi sempre più letali non fa che alimentare, trascinandoci verso il baratro non più impossibile di una nuova guerra mondiale nucleare.
Iddio acceca coloro che vuole perdere.