Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

«L’Italia non ci ha informato né ha saputo spiegare». Ora che il libico Elmasry, accusato di omicidi e torture dei migranti, è stato scarcerato e riportato a casa da un volo di Stato, crollano le scuse del governo Meloni. Protesta la Corte penale internazionale che vuole processarlo per crimini contro l’umanità

Chi molla il boia La Corte penale si dice stupita dall’atteggiamento del governo. Il mandato spiccato sabato: le autorità italiane erano informate. Delmastro: «Questione giuridica imposta dai giudici». Ma il volo di ritorno era già organizzato

L’Aja contro Roma: «Najeem liberato senza avvertirci»

 

«Senza preavviso» e senza «consultazione». Così la Corte penale internazionale, in un comunicato uscito nel tardo pomeriggio di ieri, ha definito il ritorno in Libia dall’Italia di Osama Najeem Elmasry Habish, il capo della polizia giudiziaria di Tripoli arrestato domenica a Torino e rilasciato con tante scuse martedì nonostante su di lui pendesse un mandato per crimini contro l’umanità e di guerra, tra cui omicidio, tortura, stupro e violenza sessuale.

Per questo L’Aja «sta cercando, e deve ancora ottenere, una verifica dalle autorità sui passi presumibilmente intrapresi» da Roma. Così apprendiamo pure che l’Italia aveva chiesto silenzio intorno all’operazione. I giudici internazionale, infatti, dicono che si sono astenuti dal rilasciare qualsiasi commento pubblico «su richiesta e nel pieno rispetto delle autorità italiane», pur continuando a seguire la vicenda da vicino «per garantire l’effettiva esecuzione di tutti i passaggi richiesti dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta della Corte». Èin questo contesto che è stato «ricordato alle autorità italiane che nel caso in cui individuassero problemi che potrebbero impedire l’esecuzione della presente richiesta di cooperazione, dovrebbero consultare la Corte senza indugio al fine di risolvere la questione».

LA VERSIONE sin qui fatta filtrare dal governo è un insieme di incoerenze e incongruenze più unico che raro. Formalmente una spiegazione proprio non c’è (il sottosegretario Delmastro: «Èuna questione giuridica imposta dai giudici»), e le comunicazioni ufficiali sono ferme al pomeriggio di martedì, quando dal

ministero della Giustizia è uscito un comunicato in cui si parlava del «complesso carteggio» che Nordio stava valutando se inoltrare o meno al procuratore generale delle Corte d’appello di Roma. Il problema, come facilmente dimostrato dal giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura su X, è che già in quel momento il Falcon 900 italiano che poi avrebbe riportato il generale Najeem a casa era in movimento da un bel po’: erano le 11 e 15 quando l’aereo è decollato da Ciampino in direzione Torino. Da lì sarebbe infine ripartito alle 18 e 45 per arrivare a Tripoli alle 21 e 15.

La redazione consiglia:
Un lavoro sporco che deve continuare

NON CORRISPONDONO nemmeno i tempi con cui il ministero della Giustizia sarebbe stato avvisato: dettaglio fondamentale, visto che la motivazione offerta dalla Corte d’appello per scarcerare Najeem si basa proprio sul fatto che nessuno avrebbe preventivamente concordato il suo arresto con via Arenula. A quanto si apprende, il 2 ottobre dell’anno scorso la procura generale della Cpi aveva chiesto l’arresto del poliziotto di Tripoli. Sabato l’uomo è stato individuato in Germania mentre, insieme ad altre due persone, stava noleggiando un’automobile che poi aveva in programma di restituire all’aeroporto di Fiumicino. Appresa la notizia, la prima sezione della Corte penale internazionale ha autorizzato l’arresto ed è scattato il canonico red notice dell’Interpol. È più che verosimile che a questo punto almeno i servizi di sicurezza italiani fossero informati. Di certo lo erano all’ambasciata in Olanda, avvisata di tutti i dettagli da un funzionario della Cpi. L’operazione ha poi coinvolto diversi paesi europei (almeno sei), tra cui la Germania, l’Olanda, la Francia (dove i tre libici sono passati) e l’Italia, dove domenica è infine intervenuta la Digos di Torino. Najeem si trovava in città dal giorno precedente per assistere alla partita tra la Juventus e il Milan.

SEMPRE NELLA GIORNATA di domenica, la polizia ha avvisato sia la Corte d’appello di Roma sia il ministero della Giustizia dell’operazione. Da questo momento è cominciata un’altra partita, del tutto politica e solo in parte coperta da cavilli di natura giuridica. L’Italia ha con la Libia rapporti di stretta collaborazione sul fronte dell’immigrazione da almeno due decenni e c’è anche il (tristemente) celebre memorandum siglato tra i due paesi nel 2017 (Gentiloni a palazzo Chigi e Minniti al Viminale) a testimoniare la forza di questo rapporto. Si capisce che il capo della polizia giudiziaria libica è un tassello importante di questo puzzle e non fa niente se a Roma devono chiudere entrambi gli occhi di fronte alle tante accuse relative al trattamento disumano che Tripoli riserva ai migranti prima di provare ad attraversare il Mediterraneo. I rischi legati al caso Najeem, per l’Italia, erano due: l’emersione di coinvolgimenti più o meno diretti nelle sue attività e la possibilità che i libici venissero meno al loro compito di sorvegliare la frontiera dall’altra parte del mare, lasciando partire chiunque, con conseguente aumento degli sbarchi. Così sono partite le manovre e le contromanovre per chiudere la vicenda nel minor tempo possibile. Alla fine sono bastate 48 ore.

RESTA il problema legato al tradimento della Cpi, che, laconicamente, in fondo al suo comunicato «ricorda il dovere di tutti gli stati di cooperare pienamente con la Corte nelle sue indagini e nei suoi procedimenti penali in materia di reati». Niente di tutto questo è avvenuto: il governo che dopo la strage di Cutro aveva giurato che avrebbe inseguito gli scafisti «su tutto il globo terracqueo» alla fine ne ha riportato uno a casa sua con un volo di stato.