Referendum Non è finita. Dopo le due decisioni della Consulta, opporsi all’autonomia differenziata assume un significato ancor più rilevante. Preclusa la via diretta dell’abrogazione di una brutta legge, resta la necessità […]
Il Palazzo della Consulta sede della Corte Costituzionale – foto Mauro Scrobogna/LaPresse
Non è finita. Dopo le due decisioni della Consulta, opporsi all’autonomia differenziata assume un significato ancor più rilevante. Preclusa la via diretta dell’abrogazione di una brutta legge, resta la necessità di affermare un regionalismo costituzionalmente orientato.
Questo è stato scritto nella prima sentenza del nostro giudice delle leggi che è l’antecedente storico, ma anche logico, della seconda decisione sull’inammissibilità. Da qui bisogna ripartire.
A ben vedere – come abbiamo già avuto modo di evidenziare in tempi non sospetti su queste pagine – persino l’abrogazione della legge 86 del 2024 per via referendaria non ci avrebbe esentato dall’onere della prova contraria: la necessità di indicare il modello di regionalismo solidale che la nostra Costituzione pretende. Ora, la decisione della Corte costituzionale sull’inammissibilità – che non ci dà soddisfazione, ma che ci riserviamo di valutare nel merito quando leggeremo le motivazioni – ha accelerato i tempi e ci pone da subito di fronte alle nostre responsabilità.
Ripartiamo dalla vittoria e non dalla battuta d’arresto, dallo smantellamento operato dalla sentenza 192 del 2024 che non solo ha dichiarato l’incostituzionalità dei pilastri della legge Calderoli, ma che ci ha anche indicato i principi di un nuovo regionalismo non più di natura «duale», bensì – come ha scritto la Consulta – di natura «cooperativa», «che dà ampio risalto al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le regioni e che deve concorrere alla attuazione dei principi costituzionali e dei diritti che su di essi si radicano». Di più non si poteva dire, non compete infatti al giudice costituzionale scrivere le leggi. Spetta a noi, ai cittadini, alla politica e al parlamento dare attuazione ad un regionalismo solidale.
La redazione consiglia:
No al referendum sull’autonomiaCiò che deve essere chiarito, tanto più ora dopo la doppia pronuncia del giudice delle leggi, è che i principi ispiratori della riforma del regionalismo in Italia non possono comunque più essere quelli proposti dall’attuale maggioranza politica, ma sono quelli definiti dalla sentenza che ha stracciato la legge vigente. La legge Calderoli (i monconi che ne residuano) non può proseguire il suo iter perché definisce un modello di regionalismo in contrasto con quello prescritto dalla nostra Carta fondamentale. Spetta adesso ai soggetti che hanno contrastato questa legge indicare la rotta, ripartendo dalle chiare indicazioni della Consulta.
Si tratta in sostanza di passare dalla critica ad un disegno politico che si è rivelato contrario ai principi della nostra costituzione, alla costruzione di un progetto che sia in grado di darne attuazione. Una nuova prospettiva che ha oggi dalla sua parte una fondamentale ragione in più: la consapevolezza che è diventato indispensabile ricondurre il nuovo regionalismo nel solco della Costituzione, quello sin qui proposto non lo era. Cambiare direzione non è solo possibile, diventa necessario.
Alla realistica obiezione della mancanza di una maggioranza parlamentare che possa cambiare il modello regionale è necessario rispondere ricordando che il cambiamento, così come il necessario consenso popolare, può ottenersi solo a seguito di una lotta per l’egemonia. È da riflettere, dunque, se non sia giunto il tempo per iniziare a costruirla, magari rivoltando gli indirizzi sino ad ora dominanti: contrapponendo al regionalismo egoistico quello solidale; ma anche contrastando il modello verticistico dei poteri, che è alla base della riforma del premierato, tramite il rilancio del pluralismo politico e del parlamentarismo che è da tempo offeso; abbandonando le politiche giustizialiste e di mera contrapposizione tra politica e magistratura per adottare politiche attente alla tutela dei diritti e al garantismo penale; uscendo dalla spirale che sacrifica alla sicurezza la più ampia libertà di dissenso sociale e politico.
In tal modo, si potrebbe persino riuscire a scuotere le forze di opposizione dal torpore e dalla remissività che da tempo sta prevalendo, per farle tornare a dire «qualcosa di sinistra». È mettendo in gioco se stessi e le proprie idee che si conquista una nuova egemonia, non stando alla finestra.
Buon lavoro, dunque, alle opposizioni di oggi, con l’augurio che sappiano ritrovare il legame smarrito con il popolo in nome della Costituzione. Non abbiamo molto tempo da perdere, né è possibile farsi prendere dallo sconforto per una sentenza sgradita.
Sulle decisioni assunte ieri dalla Corte costituzionale, in attesa di conoscere le motivazioni che hanno portato a inibire ancora una volta le richieste dei promotori, un solo aspetto possiamo sin d’ora con certezza rilevare. Se non si vuole rinunciare al principale strumento di partecipazione alle decisioni politiche da parte del popolo è necessario ripensare ab imis fundamentis il referendum e la giurisprudenza costituzionale che si è venuta edificando e che ha portato ormai alla assoluta imprevedibilità degli esiti. Spetta al legislatore illuminato il compito di riscrivere la legge 352 del 1970, mentre il compito della Consulta, se vuole ricoprire il ruolo che le è stato assegnato di «isola della ragione», è quello di definire pro futuro un modello chiaro, unico e semplificato di principi cui i promotori possano attenersi. Avremmo bisogno di un nuovo Livio Paladin (il grande costituzionalista che fu l’estensore della sentenza pilota del 1978).