Niente scuse Il caso del generale libico a capo della «polizia giudiziaria» di Tripoli, fermato a Torino per un mandato di cattura della Corte penale internazionale, che lo considera un torturatore, e […]
Migranti in un centro di detenzione in Libia - foto Medici Senza Frontiere
Il caso del generale libico a capo della «polizia giudiziaria» di Tripoli, fermato a Torino per un mandato di cattura della Corte penale internazionale, che lo considera un torturatore, e in appena 48 ore scarcerato e trionfalmente riportato in patria da un volo di stato italiano è semplice. A complicarlo sono le giustificazioni del governo Meloni.
Arrestato in base all’ordine esecutivo della Corte dell’Aja, avrebbe dovuto essere consegnato ai giudici internazionali «al più presto» per essere processato, lo prevede lo statuto della Corte che proprio a Roma è stato firmato nel 1998.
Rischia una condanna all’ergastolo per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, compresi omicidi, torture e stupri. Il ministro Nordio, invece, dopo 24 ore di silenzio ha fatto sapere – con un comunicato stampa – che stava studiando «il complesso carteggio». Nel frattempo il volo che avrebbe riaccompagnato Osama Najeem Elmasri a Tripoli era già partito da Roma per recuperarlo a Torino. Studia studia, Nordio non deve essere riuscito a inventarsi nulla, così la via d’uscita l’ha trovata qualche ora dopo la solerzia della procura generale e della Corte di appello di Roma: il ministro della giustizia (piegato sulle carte) non era stato consultato prima dell’arresto (che però era obbligatorio in forza di un mandato esecutivo, emesso dopo che le consultazioni c’erano state). L’ingombrante “tifoso” libico (era a Torino per Juve-Milan, aveva in programma di proseguire per Roma) è stato così non solo scarcerato, ma anche riaccompagnato con tante scuse a Tripoli dove lo aspettavano caroselli e fuochi d’artificio.
La ricostruzione governativa evidentemente non sta in piedi e la storia è assai più semplice. Quello che per la Corte penale internazionale è un aguzzino, è un valido collaboratore delle autorità italiane. Un protagonista di quella «politica mortale» (New York Times, non il manifesto) per la quale i flussi migratori dalla Libia verso l’Italia si aprono o si chiudono, e i migranti rischiano di morire di torture nei centri di detenzione in terraferma o di affogare in mare, sulla base di logiche di puro guadagno e di ricatto. Non c’è alcuna differenza nelle modalità di azione dei trafficanti e carcerieri libici, ufficiali (come Elmasri) o ufficiosi che siano, lo denunciano da sempre le Ong e lo ha certificato una missione promossa dal segretario generale delle Nazioni unite.
È tutto scritto, è tutto noto, oltre ai rapporti e agli atti di accusa della Corte penale internazionale ci sono video, foto, migliaia di testimonianze: le più terribili violenze sono pratiche ordinarie nei centri libici. L’ipocrisia delle formule è una patina che viene via immediatamente, come una scusa di Nordio o il nome dell’apparato di repressione che dirige il fortunato generale libico che ha risparmiato anche sul biglietto di ritorno: «Istituto di riforma e riabilitazione». Parole vuote, come «diritto» e «legalità internazionale»: per il nostro paese non contano niente. Più importante è tutelare chi può continuare a farci il favore di limitare le partenze, altrimenti ci tocca mandare i migranti in Albania – cosa che come si è visto non è affatto semplice.
Conosciamo anche i nomi di chi ha promosso e firmato il «memorandum d’intesa» con la Libia che regge tutto questo sistema e giustifica i trasferimenti di denaro e mezzi dall’Italia e dall’Europa che lo sorreggono: il ministro dell’interno Minniti e il presidente del Consiglio Gentiloni nel 2017, la ministra Lamorgese e il presidente Conte che lo hanno prorogato nel 2020 e il ministro Piantedosi e la presidente Meloni che lo hanno ancora prorogato nel 2022 fino, per il momento, al 2026. Proprio la presidente Meloni che aveva promesso di scatenare una caccia mondiale ai trafficanti di esseri umani ma si accontenta di far arrestare qualche disperato tra i sopravvissuti in mare, identificato come «scafista». I veri criminali invece li proteggiamo e li riaccompagniamo a casa, purché continuino il lavoro. In silenzio.