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Berlino obbedisce alla Nato. Per fronteggiare la minaccia Putin, in Germania arrivano gli euromissili di nuova generazione. Il cancelliere Scholz conferma la scelta «tormentata e inevitabile», sfidando l’ala sinistra della Spd che insiste sul rischio nucleare

A volte ritornano. Sicurezza minacciata da Putin, la Germania mantiene la promessa fatta a Washington. In arrivo i nuovi Tomahawk. Il cancelliere sfida l’ala sinistra dell’Spd: scelta «inevitabile e tormentata»

Un missile Tomahawk di nuova generazione in una base UsaUn missile Tomahawk di nuova generazione in una base Usa

All’inizio era solo una promessa più o meno azzardata a Washington, fatta da Olaf Scholz in perfetta autonomia senza consultare nessuno – alleati di coalizione compresi – a eccezione del suo inner-circle. Poi è diventata una scelta ufficiosa del governo, seppure ribadita soltanto nel recinto protetto delle interviste sui media o negli incontri ufficiali alla cancelleria federale.
Ora è l’«inevitabile e tormentata» decisione che la Germania sarà costretta controvoglia ad assumere nel nome della sicurezza Nato mai così minacciata da Putin, da far ingoiare ai dirigenti della Spd ben prima della campagna elettorale per il voto nazionale del 2025, in cui Scholz sarà nuovamente lo “Spitzenkandidat” socialdemocratico.

PER LA PRIMA VOLTA il cancelliere difende il ritorno degli euromissili sul suolo tedesco fra le mura del suo partito. Invitato a visitare la la sezione Spd di Dresda, ieri Scholz ha scandito l’assoluta necessità di installare i “Tomahawk” nucleari Usa per salvaguardare la pace. «Abbiamo bisogno di un deterrente affinché la guerra non scoppi mai. Tutti devono sapere che il prezzo di un attacco alla Germania sarebbe altissimo e in questo momento incombe la minaccia missilistica della Russia. Dobbiamo fare di tutto per proteggere la popolazione» sottolinea il leader Spd.
Prima di dribblare la madre di tutte le domande preceduta dalla inevitabile premessa. Secondo l’ultimo sondaggio Civey un tedesco su due è convinto che gli euromissili porteranno all’escalation del conflitto con Mosca. Critici soprattutto i cittadini della Germania dell’Est che fra 10 giorni vanno alle urne. «Che ne pensa il cancelliere?» incalzano i cronisti. Scholz glissa, nonostante sia a Dresda, capitale della Sassonia, Land della ex Ddr dove fino al 1989 l’unico nemico atomico erano i “Pershing” di Reagan puntati sulle città del Patto di Varsavia, e sebbene a vincere le elezioni locali (così indicano i sondaggi) il 1 settembre saranno precisamente le due forze politiche più contrarie al riarmo nucleare: i fascio populisti di Afd e i nazionalisti di sinistra dell’Alleanza Sahra Wagenknecht.

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Da Rheinmetall a Leonardo. L’effetto a valanga della svolta del governo Scholz. Dopo lo stop a nuove armi all’Ucraina a partire dal 2025 imposto dal ministro delle Finanze, Christian Lindner, arriva la risposta della […]

Munizioni prodotte dalla tedesca Rheinmetall foto Getty Munizioni prodotte dalla tedesca Rheinmetall - foto Getty

L’effetto a valanga della svolta del governo Scholz. Dopo lo stop a nuove armi all’Ucraina a partire dal 2025 imposto dal ministro delle Finanze, Christian Lindner, arriva la risposta della Borsa che a quanto pare non si fida delle rassicurazioni di Berlino: «Gli aiuti a Kiev continueranno comunque».

I numeri del libero mercato connesso con il business bellico sono inequivocabili e non si limitano alla Germania. La reazione a catena investe l’intero business del settore difesa: a Francoforte, prima piazza d’affari dell’Ue, ieri il titolo del colosso tedesco Rheinmetall ha perso il 3,7% del valore mentre il produttore di radar Hensoldt addirittura il 7,6%.

Da qui la cascata di sfiducia sull’italiana Leonardo (-1,68 alla Borsa di Milano), che con Rheinmetall condivide non poche partnership strategiche per la produzione congiunta delle armi commissionate da tutti i governi europei. Ma paga il conto dello stop tedesco anche il norvegese Kingsberg Gruppen (-2,7%) specializzato nella costruzione di lanciatori e sistemi di controllo dei missili. In generale il paniere di titoli della Difesa di Goldman Sachs cede il 3,4%.

«Siamo e rimaniamo il più forte sostenitore dell’Ucraina. Al prossimo G7 lanceremo un prestito da 50 miliardi di euro per Kiev così potrà comprare armi su vasta scala» scrive Scholz sul suo profilo “X”, fuori tempo massimo, quando la frittata finanziaria in Borsa ormai è fatta Non è di sicuro il crollo del business delle armi, cresciuto di ben il 45% da gennaio grazie alle tensioni internazionali, ma indica chiaramente che gli investitori cominciano a vedere la fine della cuccagna degli utili fin qui garantiti dal sostegno incondizionato alla difesa militare dell’Ucraina in cui spicca proprio il governo Scholz.

Vano il tentativo in extremis del ministro della Difesa, Boris Pistorius (Spd): durante l’ultima litigiosa sessione sul bilancio ha provato a opporsi con ogni argomento alla forbice di Lindner. Il braccio “armato” di Scholz, fra gli inventori del formato Ramstein, non rappresenta più l’assicurazione di ferro contro l’austerity imposta dal leader dei liberali che non è certo pacifista ma da segretario di Fdp registra il calo di voti per il suo partito sui sondaggi: non solo i tedeschi sono stanchi della guerra ma lo sforzo finanziario è sempre meno sostenibile sotto il punto di vista della tenuta dei conti pubblici. Su 39,3 miliardi di euro che l’Ue ha girato all’Ucraina dal 2022, 14,7 provengono dalla Germania, come indica l’Ufficio di statistica federale analizzando gli aiuti a Kiev da gennaio 2022 allo scorso 1 luglio.

Più di Regno Unito, Canada, Paesi Bassi e Francia, i più bellicisti ma con i soldi degli altri; questo il dettaglio che Lindner ha fatto notare a Pistorius prima di tagliare le munizioni per l’Ucraina; questo il sottotesto del messaggio politico spedito per opportunità anche agli Usa e al liberale olandese Mark Rutte, neo segretario Nato.

Lindner lo ha spiegato pure alla bellicosa ministra degli Esteri, Annalena Baerbock (Verdi), oltranzista del sostegno illimitato all’Ucraina invasa da Putin fino alla liberazione di tutti i territori invasi. Ma il requiem ai massicci aiuti militari a Kiev, oltre che dagli investitori è scritto nero su bianco in primis nel rapporto interno del ministero della Difesa appena svelato dalla Bild. Interpreta la situazione pratica nello stesso modo della Borsa: «L’esercito ucraino sta finendo le armi tedesche e la Germania non è più nelle condizioni di sostituirle».

In questa cornice il dibattito sull’impiego delle forniture militari di Berlino da parte di Kiev per attaccare in profondità del territorio russo è destinato a consumarsi in parallelo all’usura dei panzer Leopard.

Mentre riparte il caso Nordstream, riacceso dal mandato di cattura della procura tedesca contro un sub ucraino accusato del sabotaggio. Sul tavolo di Baerbock, l’ultima protesta ufficiale del suo omologo russo, Sergey Lavrov. «La Germania deve rispondere a tutte le domande sul caso smettendo di negare i fatti che non abbiamo appreso attraverso i canali ufficiali ma via media. Vergognoso che Berlino abbia deciso di ingoiare così il rospo del Nordstream. L’inchiesta giudiziaria si concluderà con il nulla di fatto»

 

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Crisi ucraina. L’incursione di Kiev avanza in territorio russo, la Russia avanza in territorio ucraino. «Nessun dialogo»: Mosca nega anche l’esistenza del negoziato descritto dal Washington Post

Nel Kursk salta l’ultimo ponte, nel Donbass ucraini evacuati 

Sudzha, in Russia, e Pokrovsk, in Ucraina, sono ufficialmente i due fronti della guerra in questo fase. L’incursione di Kiev in territorio nemico dura ormai da un paio di settimane, senza che vi sia stata un significativa risposta da parte di Mosca. Nei giorni scorsi, anzi, le forze ucraine sembrerebbero aver messo a segno alcuni importanti colpi operativi: il terzo e ultimo ponte sul fiume Seym, nei pressi del villaggio di Karyzh (a nord-ovest dell’area attualmente controllata) è stato fatto danneggiato e reso inutilizzabile, chiudendo così in maniera definitiva una possibile linea di rifornimento per le truppe russe. Questo, fra l’altro, rende anche alcune unità del Cremlino che si trovano a sud del fiume a rischio di accerchiamento. «Stiamo raggiungendo i nostri obiettivi», ha scritto sul suo canale Telegram il presidente Zelensky dopo un ragguaglio con il comandante Syrsky, aggiungendo che sarebbero pure stati catturati nuovi prigionieri (per il momento, siamo sicuramente nell’ordine delle centinaia da quando è iniziato lo sconfinamento).

MA SE SUL FRONTE interno la Russia temporeggia, su quello “esterno” in Donbass guadagna metri e si lancia all’offensiva. Le autorità ucraine hanno dato una o al massimo due settimane ai residenti della cittadina di Pokrovsk, oblast di Donetsk, per andarsene dato l’imminente accerchiamento da parte delle forze nemiche. Secondo la ricostruzione del Kyiv Indipendent, ci sarebbero ancora oltre 50mila civili nell’area ma le evacuazioni stanno procedendo con un ritmo di 500-600 persone al giorno. Inoltre sono stati segnalati attacchi su Toretsk e Zarichne, che hanno causato almeno quattro vittime. La spinta di Mosca in terra ucraina, dunque, non accenna a fermarsi ma al contrario pare quasi crescere d’intensità – probabilmente anche come strategia di contrattacco da parte di Putin rispetto al danno strategico e d’immagine che sta rimediando “a casa sua”, nell’area di Kursk. Tuttavia, è difficile che almeno nel breve periodo sia l’una che l’altra operazione portino a delle svolte decisive nell’andamento del conflitto.

LO ASSERISCE, fra gli altri, anche il think tank statunitense Isw: «Sia le forze di Kiev che quelle di Mosca mancano delle capacità necessarie per portare avanti singole azioni che possano garantire la vittoria e sono al contrario costrette a condurre attacchi multipli e graduali di portata limitata», si legge nell’ultimo report pubblicato. Certo è che l’inedita situazione sul suolo russo ha messo in moto numerose reazioni, fra dubbi, trionfalismi e accuse. Ieri Maria Zacharova ha smentito le rivelazioni apparse sabato scorso sul Washington Post per cui l’incursione a Kursk avrebbe fatto saltare negoziati segreti previsti per fine mese a Doha, Qatar. «Non c’era proprio nulla da far saltare, non ci sono mai stati né sono in corso negoziati diretti o indiretti», ha dichiarato secca la portavoce del ministero degli esteri russo. È probabile però che si tratti di affermazione rivolte soprattutto alla propria popolazione, dettate dalla necessità di mostrare decisione e fermezza verso un avversario che ha appena effettuato uno sconfinamento a sorpresa. Zacharova si è poi nuovamente espressa su un servizio realizzato dall’inviato Rai Ilario Piagnerelli, che la scorsa settimana ha intervistato un soldato ucraino sul cui cappello era presente il simbolo di una divisione delle Ss naziste. Dopo le prime accuse, il giornalista aveva cancellato l’intervista dai social, il che ha generato un commento sarcastico della portavoce russa, al quale ha a sua volta fatto seguito una replica di Piagnerelli che ha definito il clamore attorno alla cosa «propaganda di Mosca». «La nostra è solo propaganda antifascista», è stata infine la risposta di Zacharova, che si è appellata alla necessità di difendere la memoria della “grande guerra patriottica”.

SU UNA LINEA simile Sergei Lavrov: «Non è possibile alcun dialogo finché l’attacco a Kursk continua», ha detto il ministro degli esteri russo, battendo anche sulle recenti notizie riguardanti il sabotaggio di Nord Stream 2 che, sempre nelle sue parole, «è stato sicuramente ordinato dall’alto, ovvero dagli Stati Uniti». A proposito di gas, è stato intanto siglato un accordo di “partnership strategica diversificata” fra Gazprom e l’omologa azera Socar, nell’ambito della visita diplomatica che ha portato in questi giorni il presidente russo nella repubblica del Caucaso. Dall’altro lato del fronte è stata annunciata ieri la decisione del governo danese di stanziare altri 100 milioni di dollari per aiuti militari all’Ucraina, mentre è stato reso noto che è in programma per questa settimana una visita a Kiev da parte del primo ministro indiano Narendra Modi, che solo un mese fa abbracciava Putin a Mosca. Sarebbe la prima volta dall’inizio del conflitto

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La chiave di Gaza. «Positivo» l’incontro tra Blinken e Netanyahu che però insiste per tenere i soldati israeliani al confine tra la Striscia e l’Egitto
I funerali del reporter Ibrahim Muharib, ucciso in un raid israeliano a Khan Yunis foto Abdullah Abu Al-Khair/Ap I funerali del reporter Ibrahim Muharib, ucciso in un raid israeliano a Khan Yunis - foto Abdullah Abu Al-Khair/Ap

Almeno 289 operatori umanitari uccisi da Israele a Gaza dal 7 ottobre, tra cui 207 dipendenti dell’Unrwa. A questi si aggiungono 885 operatori sanitari, 21 medici e infermieri della Mezzaluna rossa, 82 membri della Protezione civile e non devono essere dimenticati i 169 giornalisti e cameraman morti, l’ultimo poche ore fa, Ibrahim Muharrab, 26 anni, colpito da una cannonata di carro armato a Khan Yunis. «Uccisi durante lo svolgimento del loro dovere, mentre fornivano assistenza umanitaria o cure mediche ai feriti e ai malati», ha scritto ieri su X il Commissario dell’Unrwa, Philippe Lazzarini. Non crediamo che questi numeri drammatici, che sono solo una frazione degli oltre 40mila palestinesi uccisi dal 7 ottobre, siano stati tra i temi dei colloqui per la tregua a Gaza avuti ieri a Gerusalemme dal Segretario di stato Antony Blinken con Benyamin Netanyahu. Piuttosto i due hanno discusso della sicurezza di Israele, della presenza israeliana sul Corridoio Filadelfia tra Gaza e l’Egitto e al Corridoio Netzarim che taglia la Striscia a metà da est a ovest, e degli altri paletti alzati dal primo ministro israeliano per andare al cessate il fuoco con Hamas.

Israele accetta l’ultima proposta annunciata dagli Usa, ha fatto sapere Netanyahu. Ma il premier israeliano non vuole rinunciare alle sue condizioni anche se rischiano di far saltare l’esito favorevole dei negoziati ripresi la scorsa settimana a Doha e che proseguiranno al Cairo. Hamas ripete che non accetterà cambiamenti alla proposta in tre fasi formulata da Joe Biden nei mesi scorsi. Un funzionario israeliano coinvolto nei negoziati ha detto al sito Ynet che «sono ore molto critiche. La questione del Corridoio Filadelfia è ancora aperta…egiziani e Hamas insistono per un ritiro totale delle forze israeliane. Netanyahu non è disposto ad arrendersi». Secondo il quotidiano libanese Al Akhbar, Israele aveva accettato di ridurre progressivamente i soldati che da inizio maggio, quando ha lanciato l’attacco alla città di Rafah, occupando il confine tra Gaza e l’Egitto. In cambio il Cairo avrebbe deciso di non stabilire tempi precisi per il loro ritiro completo che, comunque, dovrà avvenire. Non è quello che ha in mente Netanyahu. «Il primo ministro sostiene fermamente il principio secondo cui le IDF rimarranno fisicamente sul Corridoio Filadelfia per impedire il rifornimento di armi mortali ad Hamas», ha detto il portavoce del governo, David Mercer.

Blinken ha sottolineato al presidente israeliano Herzog, a Netanyahu e al ministro della Difesa Yoav Gallant, in incontri separati, quanto fosse importante accettare l’accordo. E ha avvertito che questa potrebbe essere l’ultima possibilità per riportare a casa gli ostaggi. Parole che difficilmente produrranno risultati. La guerra, non solo a Gaza, anche in Libano, resta l’opzione preferita dal premier e il suo governo. Gallant ha ordinato alle Forze armate di richiamare i riservisti che erano stati esclusi dalle precedenti chiamate. Dopo l’entusiasmo (eccessivo), mostrato da Usa, Qatar e Egitto sui «buoni risultati» ottenuti dai colloqui a Doha, ora i mediatori tornano con i piedi per terra. I nodi veri sono ancora da sciogliere. Hamas gli ostaggi li libererà solo se ci sarà una tregua definitiva a Gaza e la contemporanea scarcerazione di prigionieri palestinesi di primo piano. Netanyahu, lo pensano tanti israeliani e le famiglie degli ostaggi, invece vuole la liberazione dei sequestrati a Gaza, ma intende continuare l’offensiva militare. Perciò pone condizioni su condizioni che allontanano la tregua perché inaccettabili per Hamas, come l’aumento del numero dei prigionieri palestinesi (pare 150) che Israele deporterà verso altri paesi una volta che saranno scarcerati in cambio degli ostaggi.

Non si conosce la «proposta ponte» annunciata dagli Stati uniti per colmare le differenze tra Israele e il movimento islamico palestinese. Ma non mancano le indiscrezioni. Secondo la televisione Al-Arabi, prevede che il cessate il fuoco permanente – che vuole Hamas – sarà negoziato nella seconda fase dei colloqui. Include inoltre negoziati per una «soluzione tecnica» per il Corridoio Filadelfia e per il monitoraggio degli sfollati palestinesi che vogliono tornare nel nord della Striscia. La ricostruzione di Gaza è prevista nella seconda fase, ma non include il ritiro israeliano dalla Striscia.

Hamas ribadendo «non si piegherà per soddisfare la parte israeliana», ieri ha rivendicato, assieme al Jihad, l’attentato fallito di domenica a Tel Aviv. L’attentatore è stato ucciso dall’esplosione prematura di un ordigno che portava nello zaino. Hamas ha avvertito che seguiranno altri attacchi in risposta ai massacri di palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Ha anche rivendicato l’uccisione di una guardia di sicurezza israeliana. A Gaza almeno nove persone sono state uccise in un attacco aereo contro il campo profughi di Shati. Altre quattro sono state uccise nel bombardamento di un’auto civile nel quartiere di Az-Zarqa. Un soldato israeliano è stato ucciso e numerosi altri feriti da un missile malfunzionante sganciato da un aereo e diretto a Khan Yunis. I caccia israeliani hanno anche bombardato diversi edifici a Ayta ash-Shab, Beit Lif e Houla, nel Libano meridionale. Hezbollah ha risposto prendendo di mira l’Alta Galilea con razzi

 
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A Chicago via alla convention del partito democratico: l’ultimo giorno di Biden da leader, il primo della sua vice, l’insperato sorpasso su Trump… Ma la festa finisce appena parte il più grande problema dei dem: il corteo per la Palestina. Dove Harris è ancora chiamata «Killer Kamala»

Pal al centro. Si apre la convention di Chicago, ultimo giorno di Biden e primo dell’era Harris. Ma la questione palestinese si prende i riflettori

 La manifestazione per la Palestina a Chicago

Nella convention di Chicago il primo giorno è stato anche quello di Gaza. La US Palestinian Community Network, una coalizione di oltre 200 gruppi contro la strage israeliana nella Striscia ha chiamato a raccolta il popolo della contestazione alla strage infinita di Netanyahu.

«Questo è il nostro Vietnam», ha detto Hatem Abudayyeh, il coordinatore della protesta. «Dopo mesi di preparazione, il mondo ascolterà la nostra voce, non soltanto quelle che provengono da dentro il United Center», il palazzetto dove è in corso la convention, poco distante da Union Park da dove ieri è partito un corteo colorato e rumoroso. La manifestazione si è tenuta poco prima che dal palco ufficiale parlassero Hillary Clinton e Joe Biden, denunciato nel corteo come “Genocide Joe”.

«GLI STATI UNITI abilitano Netanyahu – ha aggiunto Abudayyeh – lo ha giustamente affermato anche il nostro sindaco qui a Chicago (il progressista afro americano Brandon Johnson), la maggiore città americana che ha approvato una mozione per un cessate il fuoco. Biden potrebbe fermare i bombardamenti. Oggi. È complice e con lui lo sono i leader del partito democratico. Compreso Chuck Schumer (il presidente del Senato, ndr), Nancy Pelosi e anche Killer Kamala». Nel corteo il nomignolo dispregiativo per Kamala Harris è stato invocato a gran voce.

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«La sua candidatura è storica» ammette Victoria, una studentessa con la kefyiah arrivata dalla Florida, dove in primavera è stata sospesa dall’università per aver partecipato ad un accampamento per la pace. «Ma questo non cambia sostanzialmente l’equazione su Gaza. Il problema è lo stesso partito democratico e la sua fondamentale complicità nel

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La crisi post-elettorale. Governo e opposizioni d’accordo solo nel bocciare la proposta di voto bis fatta da Lula. Per il resto piazze contrapposte su tutto. È chiaro ormai che la pubblicazione dei verbali ufficiali, chiesta da più parti a gran voce, non ci sarà

In Venezuela non c’è  soluzione. E Maduro va alla prova di forza Nicolás Maduro in conferenza stampa - Ap

Almeno su una cosa governo e opposizione concordano: la proposta del Brasile di ripetere le elezioni, dicono, è irricevibile. In realtà Lula aveva solo accennato a tale possibilità, indicando come alternativa anche la creazione di un governo di coalizione, magari accompagnata dal ritiro di tutte le sanzioni contro il Venezuela e un’amnistia generale.

NESSUNA SOLUZIONE, tuttavia, sembra al momento possibile. I conflitti di qualunque natura che possano sorgere in Venezuela «devono risolverli i venezuelani, con le loro istituzioni, le loro leggi e la loro costituzione», ha reagito Nicolás Maduro, ricordando che in Brasile, quando Bolsonaro aveva gridato ai brogli, «era stata la giustizia a decidere» e nessuno, tantomeno il Venezuela, si era intromesso. Ma i toni più duri il presidente li ha riservati, ovviamente, agli Stati Uniti (inizialmente a favore della proposta di Lula, per smarcarsi subito dopo), respingendo «in maniera completa e assoluta» la loro pretesa di «trasformarsi nell’autorità elettorale del Venezuela o di qualunque altra regione».

Non meno secco è stato anche il “no” di María Corina Machado, che ha definito la proposta come «una mancanza di rispetto»: «Andiamo a una seconda elezione e poi, se il risultato non va bene, a una terza, una quarta, una quinta? Finché l’esito non sia di gradimento di Maduro? Accetterebbero questo nei loro paesi?».

DALLA PROPOSTA di nuove elezioni ha preso le distanze anche López Obrador, il quale peraltro aveva già fatto un passo indietro rispetto al Brasile e alla Colombia – paesi confinanti con il Venezuela e dunque necessariamente più coinvolti -, annunciando di voler attendere, prima di qualsiasi altro passo, il pronunciamento del Tribunale Supremo di Giustizia sulla regolarità del processo elettorale. Una decisione, la sua, che, lascia presagire il riconoscimento della vittoria di Maduro anche in assenza della pubblicazione dei verbali.

Assai più difficile, benché non sia da escludere del tutto, sarà invece un passo analogo da parte di Lula, il quale, alla domanda sul riconoscimento di Maduro, ha risposto «ancora no»: il presidente, ha spiegato, «sa di dovere una spiegazione alla società brasiliana e al mondo». E lo ha ribadito anche il suo consigliere speciale Celso Amorim, pur escludendo qualsiasi «ultimatum»: senza la divulgazione degli atti di scrutinio, «se non ci sarà qualche accordo che renda possibile fare dei passi avanti, non credo che riconosceremo il governo».

IL PUNTO, insomma, è sempre quello: la pubblicazione dei verbali ufficiali dei seggi, che tuttavia, sembra ormai chiaro, non ci sarà. «Abbiamo il 100% delle scatole dei verbali e dobbiamo aprirle alla presenza di testimoni nazionali e internazionali. O forse anche le scatole sono state hackerate?», ha provocato Enrique Márquez, l’ex candidato dal passato anti-chavista sostenuto dal Pcv, il Partito comunista del Venezuela.

Ed è sulla mancanza di trasparenza che ha insistito anche il gruppo di quattro esperti dell’Onu, invitati dal governo come osservatori, nel loro rapporto premilinare sulle elezioni del 28 luglio: un’altra bocciatura del processo elettorale dopo quella del Centro Carter.

La risposta di Maduro non si è fatta attendere, attraverso l’annuncio di una riforma delle leggi elettorali che impedisca, tra l’altro, proprio l’entrata nel paese di missioni «spazzatura» come quelle del Centro Carter e dell’Onu. Ma il governo è andato anche oltre, puntando a ridurre in maniera sempre più decisa gli spazi di manovra delle opposizioni: dalla presentazione di un insieme di disposizioni per combattere «la propagazione dell’odio, del terrorismo e delle espressioni fasciste» alla proposta di regolamentazione dei social network, fino all’approvazione di una legge che impone una regolamentazione più severa alle ong attive nel paese.

UN NUOVA PROVA DI FORZA da parte sia del governo che dell’opposizione era intanto prevista ieri per le strade del Venezuela e non solo: da una parte la Grande protesta per la verità, la manifestazione globale dell’opposizione organizzata in 380 città del mondo, compresa Roma (ma anche Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo); dall’altra la Grande marcia nazionale lanciata dal governo in un centinaio di città del paese

 

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