La resa dei conti. Castellone: «Basta attacchi al fondatore». E Todde mette le mani avanti: «Ormai siamo una forza progressista». Il primo incontro tra il fondatore e i suoi sostenitori potrebbe tenersi a metà settembre
Sostenitori del Movimento 5 Stelle - Lapresse
Una volta esplicitato l’oggetto del contendere, con lo scambio epistolare tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte e i «tre pilastri» da preservare evocati dal primo (il nome, il simbolo e il tetto dei due mandati), il dibattito dentro il Movimento 5 Stelle attorno all’«assemblea costituente» del 19 e 20 ottobre prossimi comincia a infittirsi. Un tassello lo ha messo domenica scorsa Alessandra Todde alla Festa nazionale dell’Unità di Reggio Emilia. Secondo la presidente della Regione Sardegna ormai lo schieramento del M5S nel campo del centrosinistra è imprescindibile. «Abbiamo deciso, con la carta dei principi e dei valori, che il M5S fa parte del campo progressista e questo è un fatto da cui non si può tornare indietro» ha detto dialogando con Pierluigi Bersani. Al punto di porre questa scelta di campo come condizione per la sua permanenza tra i 5 Stelle. «Se mai l’assemblea dovesse decidere un’altra collocazione, ne prenderò atto, perché la mia collocazione è di donna progressista e non posso pensare di essere messa in un altro contesto – assicura Todde – Abbiamo fatto una battaglia per andare in Europa in un gruppo di sinistra. A me non piace chiamarlo campo largo, mi piace di più campo progressista. I valori sono gli stessi, tenere la schiena dritta di fronte al fascismo è lo stesso».
IERI SI È REGISTRATA anche l’uscita di Mariolina Castellone. È la prima volta che una parlamentare di peso pentastellata esprime una posizione in difesa di Beppe Grillo. La vicepresidente del senato stigmatizza «le risposte scomposte, aggressive alla lettera di Beppe, che per me racchiudeva concetti scontati per tutti noi». Da qui, un sospetto che pare un’insinuazione pesante: «Ho purtroppo percepito che il vero obiettivo di questo processo che stiamo affrontando sia in realtà quello di fare definitivamente quel ‘salto di specie’, restando in ambito scientifico, che ci trasformerà in qualcos’altro, dando vita a un qualche tipo di ‘mostro’». «La strategia posta in essere per questa involuzione – prosegue Castellone – è quella di abbattere l’ultimo argine di resistenza, che è rappresentato dal nostro garante, e con lui da quei pochi che non si sono mai piegati al volere del capo di turno». Ancora una volta «Sul tema del secondo mandato mi sono già espressa più volte, e posso solo dire che è davvero triste vedere che il superamento di questo vincolo sia diventato l’unico obiettivo per i molti (o i pochi) che ne trarranno beneficio». E ancora: «Una costituente, per quanto importante, non può e non deve trasformare un Movimento come il nostro in un partito tradizionale. Non è accettabile che si apra una costituente per rilanciare il M5S, e alla fine si esca come la brutta copia di un qualunque altro partito». Da via Campo Marzio lasciano trapelare che questa uscita non è da considerarsi come attacco a Conte e alle sue posizioni, ma al contrario come prova di un dibattito libero, oltre l’ingessatura di un confronto a due.
RESTA IL FATTO che il fronte pro-Grillo si sta organizzando. Verso metà settembre a Roma potrebbe tenersi l’incontro tra il garante e i suoi sostenitori. Allo scopo, dice uno dei promotori dell’iniziativa, di «difendere i principi per cui è nato il M5S e non infangare tutto il lavoro fatto in questi anni». All’indomani dello scontro tra Grillo e Conte, undici ex parlamentari pentastellati avevano scritto una lettera contro il presidente del M5S e in difesa del fondatore: chiedevano al primo di prendersi «le sue responsabilità». «Bisogna fermare la deriva in corso – spiega chi lavora all’appuntamento – Il M5S ha smarrito la propria identità per diventare sempre più partito personale». Il paradosso, non l’unico di questa storia, è che quella lettera era firmata da parlamentari come Nicola Morra, Elio Lannutti e Alessio Villarosa che dal M5S vennero messi alla porta perché non accettarono di votare la fiducia al governo Draghi alla quale aveva lavorato con forza proprio Beppe Grillo. Ma proprio questo è il rischio che incombe sulla testa di Conte: che una coalizione senza alcuna coerenza logica prima che politica si formi attorno a Grilo per rivendicare il ritorno alle origini
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Crisi ucraina. E nemmeno i cittadini ucraini la prendono bene
Volodymyr Zelensky - foto di Brendan Smialowski/GettyImage
Il Papa si schiera in difesa della Chiesa ortodossa russa messa al bando dal governo di Kiev. Durante l’Angelus di domenica Francesco ha attaccato direttamente la nuova legge, promulgata dalla Verkhovna Rada, il parlamento unicamerale ucraino, dicendo che «le chiese non si toccano» e che la politica dovrebbe «lasciare pregare chi vuol pregare in quella che considera la sua chiesa».
La levata di scudi del pontefice arriva dopo la decisione, il 20 agosto scorso, da parte dell’Ucraina di impedire «le attività dei gruppi religiosi legati alla Chiesa ortodossa russa o di qualsiasi altro gruppo religioso che sostenga l’invasione della Russia in Ucraina». La motivazione ufficiale è che la Chiesa ortodossa russa in ucraina (Uoc) è «un’estensione ideologica del regime dello Stato aggressore, complice dei crimini di guerra e contro l’umanità».
Ma dietro a questa misura si cela un progetto più ampio dell’amministrazione di Kiev, ovvero la volontà di allontanare il più possibile gli ucraini dall’influenza storica russa. Già l’anno scorso, in occasione delle festività natalizie, il governo e la Chiesa ucraina ortodossa (Uco), istituzione autocefala che rifiuta l’egemonia moscovita, avevano annunciato l’abbandono del calendario giuliano in favore di quello gregoriano e avevano provato a spostare le celebrazioni dal 7 gennaio al 25 dicembre, come in Occidente. Tuttavia, gli ucraini sono restii ad abbandonare un culto che ha radici secolari, radicato soprattutto nelle zone rurali in Ucraina dell’ovest. Tra l’altro il numero di credenti e praticanti nel Paese invaso è addirittura maggiore, in percentuale, di quello nella Federazione russa. Le parrocchie che fanno capo alla Uoc sono oltre 12mila, mentre quelle passate alla Uco circa 7mila. Questa breve panoramica aiuta a comprendere che la legge del 20 agosto non è una misura tra le altre e che provocherà non pochi malumori all’interno della popolazione ucraina.
Certo, il Patriarca Kirill, capo della chiesa ortodossa moscovita non ha mai nascosto la sua vicinanza a Vladimir Putin e si è spinto fino a definire l’invasione dell’Ucraina una «guerra santa» contro la perversione dell’Occidente corrotto. Proprio quest’appoggio aveva spinto la Uoc a emanciparsi dal patriarcato di Mosca nel 2022, ma la decisione per gli 007 di Kiev era solo un proclama di facciata. Per questo negli ultimi due anni le indagini contro i pope e gli amministratori della Uoc sono continuate, fino alla settimana scorsa.
Dalla lingua alla storia, fino ad arrivare alla religione, i vertici ucraini sono impegnati in una costante opera di «derussizzazione» della società. Ma se con la politica il compito era stato più semplice, al netto di resistenze più o meno accese nelle aree storicamente più legate alla Russia, con la religione non lo sarà altrettanto. Tentare di obbligare i milioni di fedeli ucraini a rinnegare la propria fede in virtù del contesto politico-militare attuale potrebbe far precipitare ancora di più la popolarità di Zelensky presso i propri concittadini
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Francia. All’Eliseo giro di consultazioni con la destra. Scartata d’autorità l’ipotesi Castets prima ministra: obiettivo spaccare la sinistra. La France Insoumise conferma di voler presentare una mozione in Parlamento per la “destituzione” del presidente
Marine Le Pen e Jordan Bardella all’Eliseo per le consultazioni - Ap
Emmanuel Macron, dopo una prima tornata di consultazioni, scarta d’autorità la possibilità di un governo del Nuovo Fronte Popolare in nome della «stabilità istituzionale»: l’Eliseo ha «constatato che un governo sulla base del solo programma e dei soli partiti proposti dall’alleanza che ha più deputati, il Nuovo Fronte Popolare, sarebbe immediatamente censurato dall’insieme dei gruppi rappresentati all’Assemblée Nationale». Di fronte a queste parole la France Insoumise ha confermato di voler presentare una mozione in Parlamento per la “destituzione” del presidente e che proporrà una mozione di sfiducia contro qualsiasi proposta di primo ministro diverso da Lucie Castets.
Dopo aver incontrato i gruppi, Macron forza per imporre le sue posizioni iniziali: punta a un governo di coalizione al centro, che non rimetta in questione, «non disfi», quello che è stato fatto negli ultimi sette anni. Per arrivarci, l’obiettivo resta spaccare il Nuovo Fronte Popolare, escludendo la France Insoumise, con un appello a Ps, Verdi e Pcf a prendere le distanze. Il presidente propone oggi un nuovo ciclo di discussioni – allargate al di là dei partiti a personalità che «si sono distinte per il senso dello stato». Cinquanta giorni dopo il voto delle legislative, 41 giorni di governo dimissionario, la situazione resta bloccata.
Ieri, Emmanuel Macron ha ricevuto Marine Le Pen e Jordan Bardella del Rassemblement national e la frangia di Eric Ciotti, l’(ex) presidente dei Républicains che si è alleato con l’estrema destra. Sono stati ricevuti anche i presidenti dell’Assemblée Nationale e del Senato, Yaël Braun-Pivet e Gérard Larcher. Il Nfp ha fatto sapere che tornerà all’Eliseo alla sola condizione di discutere le «modalità» della nomina della sua candidata, Lucie Castets, a Matignon. La France Insoumise ha annunciato la “censura” contro qualsiasi governo che non sia a guida Nfp.
Oggi c’è una finestra – di tempo – domani c’è l’apertura dei Giochi Paraolimpici (per i Giochi Olimpici c’è stata l’ambigua “tregua” che ha permesso di rimandare le decisioni), giovedì e venerdì il presidente è in viaggio in Serbia. La prima sessione ordinaria dell’Assemblée nationale uscita dal voto del 7 luglio sarà il 1° ottobre ma per quella data il bilancio 2025 dovrà già avere dei contorni più o meno definiti, anche perché ci sono le scadenze di Bruxelles (con la Francia sotto osservazione per deficit eccessivi).
Ieri, gli ospiti dell’Eliseo hanno messo in scena un’offensiva anti-Nuovo Fronte Popolare: il Rassemblement National ha dichiarato che presenterà e voterà la “censura” di «qualsiasi governo a guida Nfp». Per Eric Ciotti, la «sola alleanza possibile» è «l’unione delle destre». Precedentemente, il MoDem e Horizon, due componenti dell’area Macron, si erano dichiarate a favori di una “censura” di un governo di sinistra. Ieri, il primo ministro dimissionario, Gabriel Attal, che ora è anche capogruppo di Ensemble pour la République (Epr), ha attaccato la proposta del week end di Jean-Luc Mélenchon, la rinuncia alla partecipazione di ministri della France Insoumise per smascherare l’opposizione al programma Nfp: per Attal, si tratta di «un simulacro di apertura, un tentativo di prova di forza di Mélenchon». Attal continua a proporre un’intesa allargata, si dice «pronto al compromesso», nella speranza di rompere il fronte del Nuovo Fronte Popolare, staccando il Ps (o parte di esso).
Le bordate contro il Nfp sono arrivate ieri anche dal Medef (la Confindustria francese). Agli «incontri degli imprenditori», il presidente Patrick Martin ha criticato la «vaghezza politica che sta durando da troppo tempo» e invocato l’imposizione del «primato dell’economia nel dibattito e nella decisione politica».
Il Medef rifiuta in blocco il programma del Nfp: no all’abrogazione della riforma delle pensioni, che dovrebbe essere la prima decisione di un governo Castets, no all’aumento del salario minimo a 1.600 euro (la minaccia è il ritorno della disoccupazione di massa), no all’aumento delle tasse, a cominciare dall’Isf (la patrimoniale), per non parlare della soppressione o revisione al ribasso del credito di imposta per la ricerca, un vantaggio per le imprese in vigore dalla presidenza Hollande, applicato con grande manica larga e che fa parte dell’intoccabile, per il padronato e per Macron: la supply side economics, la politica pro-business perseguita finora
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Arma infame. Ennesimo ordine di evacuazione israeliano, i centri delle Nazioni unite sono inutilizzabili
Nella foto grande, sfollati palestinesi in fila per il cibo nel centro di distribuzione dell’Onu a Deir al Balah Ap/Abdel Kareem Hana
Domenica sera l’esercito israeliano ha emesso il quarto ordine di evacuazione in quattro giorni per Deir al-Balah, città che dà il nome a uno dei distretti centrali di Gaza. Ventiquattro ore dopo, ieri, le Nazioni unite hanno annunciato – ufficiosamente – lo stop alla consegna degli aiuti umanitari nella Striscia. In attesa di individuare nuovi luoghi in cui coordinare gli arrivi (sporadici) e le consegne (complicate) fa sapere un alto funzionario dell’Onu in condizione di anonimato, «stiamo provando a bilanciare i bisogni della popolazione con quelli di sicurezza del personale delle Nazioni unite».
LE RAGIONI DIETRO la decisione sono essenzialmente due, entrambe legate agli ordini di evacuazione che significano che una determinata area è considerata dall’esercito israeliano passibile di bombardamenti senza ulteriori avvertimenti: la prima è la posizione dei principali centri di immagazzinamento e di distribuzione degli aiuti umanitari, tutti dentro quelle caselle colorate con cui Tel Aviv da mesi seziona Gaza e che, ordine dopo ordine, non sono considerabili «sicure»; la seconda è il numero senza precedenti di operatori umanitari ammazzati in un’offensiva militare, 289 in quasi undici mesi, la maggior parte dei quali – 207 – appartenenti all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa.
«Non lasceremo Gaza perché la gente ha bisogno di noi», ha aggiunto ieri il funzionario dell’Onu spiegando che l’organizzazione si sta muovendo per individuare nuove postazioni, diverse da quelle di Deir al-Balah e di Rafah, a oggi i principali hub umanitari nella Striscia. Non è facile: «Dove ci trasferiamo adesso? La sfida è trovare un luogo da cui ripartire e dove poter effettivamente operare».
DI FATTO è l’identica sfida che si trovano davanti dal 7 ottobre i palestinesi di Gaza: dove andare, dove sentirsi davvero al sicuro. È una domanda senza risposta in un fazzoletto di terra che è ormai un’immensa «zona rossa»: almeno l’85% di Gaza ricade oggi sotto «ordine di evacuazione». L’allarme non è nuovo, da mesi le Nazioni unite implorano per corridoi umanitari davvero sicuri. A partire dalle porte di accesso, i valichi via terra sotto-utilizzati a causa della burocrazia di guerra israeliana: regole che non esistono su carta e che sono di fatto l’ennesimo strumento militare.
Ieri il World Food Programme (Wfp) ha denunciato «le autorizzazioni lente e i frequenti rifiuti quando si chiede il permesso a muovere» gli aiuti che, uniti ai saccheggi e all’ormai totale assenza di ordine, hanno fatto sì che «solo la metà delle 24mila tonnellate di aiuti alimentari necessari a 1,1 milioni di persone» arrivassero a destinazione.
L’AGENZIA UMANITARIA dell’Onu (Ocha) dà i numeri: dal primo al 22 agosto il 19% delle 147 missioni umanitarie verso il nord di Gaza (in piena carestia) è stato ostacolato, il 31% negato e il 6% cancellato all’ultimo momento. Totale 56%. La responsabilità, aggiunge il Wfp, ricade su «l’intensificarsi del conflitto, il numero limitato di valichi e le strade disastrate» e, infine, sugli ordini di evacuazione israeliani.
Oltre che di fame, a Gaza si continua a morire di bombe. Ieri l’aviazione israeliana ha colpito l’ennesima scuola, rifugio agli sfollati, in quella che è diventata la «normalità» dell’offensiva israeliana. Vittime si registrano a Gaza City, Nuseirat, Jabaliya e Deir al-Balah, dove a preoccupare è la condizione dell’ospedale al-Aqsa, «caduto» dentro gli ultimi ordini di evacuazione militare. All’interno ci sono ancora un centinaio di pazienti in gravi condizioni, di cui sette in terapia intensiva; altre decine, insieme a tanti sfollati, sono scappati nelle ultime ore, nel panico. Secondo le autorità sanitarie di Gaza gli uccisi ieri erano almeno trenta. Portano il totale accertato dal 7 ottobre a 40.435, a cui si aggiungono 10mila dispersi.
NUMERI che rimbalzano sul muro di gomma che è il negoziato in corso tra Israele e Hamas. Il tavolo atteso per domenica scorsa, con le speranze ridotte al lumicino, non ha riservato alcuna sorpresa: un nulla di fatto, Hamas se n’è andato quasi subito. Le due parti restano distanti anni luce sui punti chiave, ovvero il controllo dei due corridoi (Netzarim al centro e Philadelphia a sud) e sul destino dei prigionieri palestinesi da liberare. Ovvero sulle condizioni che il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha aggiunto alla proposta accettata dal movimento islamico palestinese, quella formulata il 31 maggio scorso dal presidente statunitense Joe Biden e approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
GLI UNICI a spacciare ottimismo sono gli Stati uniti, una posizione che ogni giorno di più appare dettata da meri calcoli elettorali interni e sempre meno da prospettive effettive.
Il dialogo non è morto, ma non sembra nemmeno mai nato. Washington dice che il lavoro prosegue, su quali basi non è chiaro nemmeno a loro
Commenta (0 Commenti)La notifica. Da guru anarcoide dei nuovi media a ricercato speciale per decine di
crimini commessi sulla sua piattaforma. Dubbi sulla "consegna"
Mosca, fogli con il logo di Telegram lasciati per protesta davanti all’ambasciata di Francia - foto Afp
Tanti e tali rimangono i misteri, che a tre giorni dall’arresto in un aeroporto francese qualcuno comincia a chiedersi se in fin dei conti Pavel Durov abbia deciso di consegnarsi spontaneamente assieme ai segreti del sistema di messaggi Telegram che lui stesso ha creato con il fratello Nikolaij una decina d’anni fa, che nel corso del tempo gli ha portato prima ricchezza e poi popolarità, e che lo ha esposto a problemi diventati più grandi del suo status: quello di guru anarcoide dei nuovi media.
UN PONTE DELLE SPIE FAI DA TE, ponte aereo in questo caso, jet privato partito da Baku e atterrato sabato sera a Bourget, scalo minore di Parigi, fra le braccia dei gendarmi. Mandato di arresto per concorso in decine di reati commessi sulla sua piattaforma, accuse vaghe al punto da costringere l’Eliseo a intervenire sul caso: l’arresto è in linea con un’inchiesta in corso, non si tratta di decisioni politiche, ha scritto ieri pomeriggio il presidente, Emmanuel Macron.
È raro che un capo di stato tratti in prima persona le vicende di un singolo cittadino. Con Durov sono in due ad averlo fatto in poche ore. Sempre ieri, prima di Macron, il portavoce del Cremlino aveva smentito le voci su un incontro con Vladimir Putin la settimana scorsa in Azerbaigian. Nessun commento, però, sull’ipotesi, circolata anche quella con insistenza, che Durov avesse chiesto di vedere di persona Putin.
Destino ammaccato di un figlio della nomenklatura sovietica, trentanove anni, muscoli da star del fitness, infanzia fra San Pietroburgo e Torino, le città in cui il padre aveva insegnato filologia, e passaggio poco più che adolescente dagli studi in lingue straniere al grande business dei tempi moderni: internet, la rete globale, la stella nascente dei social network, merce che in Russia può rovesciare in pochi mesi la vita di un giovanotto ambizioso, com’era accaduto con le scarpe da basket negli anni Novanta.
Telegram, l’app inviolabile che ha sconfitto l’Nsa e il mistero dell’atterraggio a Parigi
L’IDEA DI COSTRUIRE Telegram, una fortezza digitale a prova di intrusioni esterne, l’aveva avuta nel 2011 dopo un incontro con i servizi segreti. Quelli gli chiedevano l’identità di oppositori iscritti a VKontakte, la versione russa di Facebook grazie alla quale era entrato nel 2006 nell’universo dei nuovi milionari. Lui gli aveva opposto il dito medio in sensi figurato e pratico. Estromesso da Vkontakte, abbandonata la Russia, Pavel aveva messo al lavoro Nikolaij. Un progetto romantico: tenere gli apparati degli stati autoritari fuori dagli
Leggi tutto: I segreti di Durov. Parigi prova a violare la fortezza Telegram - di Luigi De Biase
Commenta (0 Commenti)(Tommaso Merlo) – Non doveva più succedere un olocausto ed invece siamo assistendo alla persecuzione e sterminio di un altro popolo, quello palestinese. L’ordine mondiale emerso a seguito della seconda guerra mondiale doveva garantire pace tra le nazioni ed evitare si ripetessero certe immani tragedie. Ed invece eccoci qua. Ormai viviamo un’epoca di guerra permanente, i cannoni hanno ripreso a tuonare anche in Europa mentre a Gaza si sta ripetendo l’impensabile.
Stesse furiose dinamiche ideologiche, stesse brutalità militari, stesse drammatiche conseguenze umanitarie. Abbiamo fallito a prevenire certe tragedie e se non reagiamo ne succederanno altre ancora peggiori. Le Nazioni Unite dovevano essere il perno di una nuova era ed invece sono state progressivamente ridotte ad un baraccone burocratico. All’ONU comandano ancora i vincitori della seconda guerra mondiale e paesi diventanti secondari nello scenario attuale come Francia ed Inghilterra hanno addirittura il potere di veto. Così come gli Stati Uniti corrotti dalle lobby, da quella delle armi fino a quella pro Israele. La ex sfidante di Trump, Nikki Haley è stata rappresentante USA presso l’ONU ed è quella che è andata a Tel Aviv a firmare di suo pugno le bombe israeliane e a scriverci sopra “finiteli”. Se sono decenni che le risoluzioni ONU a favore della Palestina vengono calpestate, non è certo un caso. A decidere davvero è chi finanzia la carriera politica di certi personaggi.
E l’Europa non è messa meglio, politicamente mai fatta nascere, è passata dalle macerie della seconda guerra mondiale al riamo in vista della terza. E senza che un solo cittadino venisse consultato. I poveri cristi possono giusto sfogarsi sui social per ora, partecipare a qualche manifestazione e boicottare i prodotti israeliani e anche quelli delle multinazionali statunitensi come Starbucks e McDonald ed altre che hanno avuto posizioni ambigue o addirittura complici. Tutto sacrosanto ed utile, ma per girare pagina storica serve la politica, serve incidere dove vengono prese le decisioni. Le lobby lo hanno capito, i cittadini molto meno ed ancora abboccano alle campagne elettorali. ONU ed Europa sono baracconi burocratici perché i paesi membri si sono tenuti stretti il potere politico. Ma questo potere è passato man mano dai parlamenti ai potentati economici. È molto evidente in paesi come gli Stati Uniti dove si alternano due grandi partiti, due natiche dello stesso deretano che fan finta di litigare mentre sulle cose cosiddette serie come la guerra e perfino il sostegno ad un olocausto, sono in perfetta armonia. E questo perché comprati entrambi a monte dalle stesse lobby delle armi e pro Israele.
Una situazione drammatica che dagli Stati Uniti sta contagiando tutto l’Occidente, capitalismo e quindi soldi che sono riusciti a comprarsi la democrazia. Potere politico passato dal popolo a dei potentati privati senza volto e nemmeno vergogna. La drammatica impotenza politica davanti perfino ad uno olocausto, si spiega così’. Una situazione gravissima perché quello che stanno riuscendo a fare le lobby delle armi e quelle pro Israele oggi, un domani lo potrà fare qualunque altra lobby prendendo il controllo di altri paesi e scagliandoli contro altri nemici per altri deliri ideologici. Oggi le vittime sono i palestinesi, domani potremmo essere noi. È un problema che ci riguarda tutti, in quanto esseri umani cittadini dello stesso mondo. La soluzione è tornare ad una vera democrazia rappresentativa al servizio esclusivo dei cittadini, in cui il potere opera con trasparenza e rispondendo delle sue scelte.
La politica deve essere espressione della volontà popolare e non di chi ha più soldi. Altrimenti è un’altra cosa, è una oligarchia lobbistica con l’aggravante di agire dietro le quinte per salvare le apparenze. Solo ristabilita la democrazia, si potrà dar vita ad un nuovo ordine, un sistema in cui la nuova società civile globale riesca a concretizzare davvero la pace e la solidarietà tra le nazioni e il rispetto dei diritti umani in ogni angolo del globo arginando sul nascere ogni delirio ideologico. Solo così, solo riprendendo il percorso tradito a seguito della seconda guerra mondiale, l’umanità potrà salvarsi dalla pericolosa spirale autodistruttiva che ha intrapreso.
* cooperante italiano responsabile dei progetti di Pro Terra Sancta.Fake views con David Puente, Vicedirettore di Open.
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