Archiviate le Olimpiadi, a Parigi partono finalmente le consultazioni per formare il nuovo governo. Macron è deciso a sbarrare la strada a la France insoumise e prova a spaccare il Fronte popolare. Pretende quella «maggioranza assoluta» che i suoi hanno già perso
Vedo rosso. Si alza la diga contro il Nfp. La coalizione del presidente, Ensemble, pronta a votare la sfiducia a un governo con ministri insoumis
Lucie Castets con Manuel Bompard, Marine Tondelier e Olivier Faure arrivano all’Eliseo foto Ansa
Un governo con dei ministri della France Insoumise sarebbe vittima di una «censura immediata»: così si sono espressi i principali leader della coalizione macronista, in conclusione della prima giornata di colloqui voluti da Emmanuel Macron con le forze politiche, in vista della formazione del nuovo governo.
LA CRISI ISTITUZIONALE avviatasi dopo lo scioglimento dell’Assemblée Nationale voluto a giugno da Macron, sembra quindi ben lontana dall’essere risolta. Le legislative di luglio hanno sancito la vittoria del Nfp, arrivato in testa ma ben al di sotto di una maggioranza assoluta in parlamento. La coalizione macronista, dal canto suo, ha perso quasi 80 deputati rispetto allo scrutinio del 2022, che pure era stato considerato disastroso: Macron aveva perso la maggioranza assoluta in parlamento.
Con una Camera tripartita tra il Nfp (maggioranza relativa), Ensemble (la coalizione di Macron) e l’estrema destra del Rassemblement National, il presidente della Repubblica ha inizialmente affermato che «nessuno ha vinto» le elezioni, prima di imporre un’unilaterale «tregua olimpica». Finora, Macron ha fatto orecchie da mercante agli inviti dei leader della sinistra francese di nominare la prima ministra proposta dal Nfp, Lucie Castets.
Dopo aver ricevuto i rappresentanti della sinistra guidati da Castets, è stato il turno dei leader di Ensemble e dei Républicains, cioè i gollisti di destra che hanno rifiutato di unirsi all’avventura di Éric Ciotti, ormai alleato di Marine Le Pen. Secondo quanto riportato dall’Agence France-Presse, davanti ai «suoi» il presidente della Repubblica ha sostenuto che il risultato delle legislative «non è una smentita completa» del proprio campo politico. Per questo, ha detto, l’obiettivo è la ricerca di una «soluzione istituzionalmente stabile», ovvero una che permetta la creazione di «un governo stabile e sicuro».
Castets su pensioni e salario minimo: «Guai a rinnegare le promesse fatte»
Immediatamente, il primo ministro dimissionario Gabriel Attal ha riecheggiato le parole di Macron in un messaggio ai deputati di Ensemble, pubblicato dai media francesi. Secondo Attal, la volontà dell’inquilino dell’Eliseo «è quella di far emergere una
Commenta (0 Commenti)Francia. Al via le consultazioni. Il presidente chiede la maggioranza più vasta possibile. Lettera del Fronte popolare: basta manovre, tocca a noi
Incominciano oggi le tanto attese consultazioni che il presidente della Repubblica Emmanuel Macron terrà con le varie forze politiche francesi. Dopo aver sciolto l’Assemblée Nationale a giugno, il partito di Macron è uscito con le ossa rotte dalle legislative di luglio, che hanno invece consacrato come prima forza politica del paese la coalizione delle sinistre del Nuovo Fronte Popolare.
Tuttavia, nessuna delle coalizioni parlamentari ha i numeri per una maggioranza assoluta. D’altronde, tale maggioranza manca dalle legislative del 2022: per due anni, infatti, Macron ha governato in minoranza, prima del crollo verticale delle ultime elezioni.
DOPO SETTIMANE di discussioni, i partiti del Nfp (France insoumise, Partito socialista, Ecologisti e Partito comunista francese) si sono messi d’accordo sul nome di una candidata premier: Lucie Castets, ex-funzionaria del Tesoro e attivista di lungo corso per i servizi pubblici. Ma l’opzione di un governo di minoranza di sinistra, finora, è stata completamente ignorata dall’Eliseo, malgrado il fatto che il Nfp abbia vinto le elezioni.
Urge qui sottolineare come i meccanismi della V Repubblica siano profondamente diversi da quelli di altre democrazie parlamentari. La nomina del primo ministro (o della prima ministra) spetta al presidente della Repubblica, senza alcun contrappeso formale. L’unico limite, sostanziale, è il fatto che l’Assemblée Nationale può votare una mozione di sfiducia. Tale mozione non è «automatica» alla presentazione di un nuovo governo, ma richiede l’iniziativa dei parlamentari.
Questo concederebbe a un eventuale governo di minoranza spazio di manovra per cercare di convincere altri gruppi a votare alcuni progetti di legge sui quali potrebbero prodursi delle maggioranze, caso per caso.
TALE È IL PROGETTO dei leader del Nfp, che ieri hanno pubblicato una lettera agli elettori e alle elettrici nella quale rivendicano il diritto di provare a formare un governo, in barba alle manovre della compagine macronista.
«Siamo convinti che possiamo migliorare concretamente e rapidamente il tenore di vita dei francesi», si legge nel comunicato firmato dai leader dei partiti e da Lucie Castets, che si dicono altrettanto convinti del fatto che «l’assenza di maggioranza assoluta non ci impedirà» di attuare alcuni punti fondamentali del programma, come l’abrogazione della riforma delle pensioni di Macron, l’aumento del salario minimo, il rifinanziamento dei servizi pubblici. Temi sui quali, secondo il Nfp, «tutti i parlamentari dovranno rendere conto dei propri voti davanti ai cittadini e alle cittadine». Dichiarazione meno retorica di quanto può apparire a prima vista: tra un anno, infatti, è molto probabile che si voti di nuovo.
IL NFP SARÀ LA PRIMA compagine a essere ricevuta da Macron, che chiuderà le consultazioni lunedì. L’Eliseo ha fatto sapere ieri che l’obiettivo è «comprendere in quali condizioni le forze politiche possono ottenere» una maggioranza più vasta possibile. È a partire da queste considerazioni che Macron deciderà chi nominare come premier.
A corredo del comunicato ufficiale dell’Eliseo, la presidenza ha fatto sapere all’Agence France-Presse che è particolarmente apprezzato «il lavoro di fondo svolto dalla destra repubblicana», cioè quel che resta della destra gollista dei Républicains, con «il blocco centrale», ovvero la coalizione macronista. Le medesime fonti hanno detto all’Afp che non sono disdegnate le manovre tentate dall’attuale primo ministro (dimissionario) Gabriel Attal, che nei giorni scorsi aveva invocato la creazione di una grande coalizione che escludesse il Rassemblement National di Marine Le Pen e La France Insoumise di Jean Luc Mélenchon. Un progetto che non ha raccolto alcun consenso nel Ps, a parte una minoranza conservatrice del partito più Raphael Glucksmann, capolista alle europee, ma il cui partitino conta un unico deputato in parlamento
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Diritti. La premier osserva in silenzio l’escalation di Forza Italia sullo ius scholae. Sono Marina e Pier Silvio a spingere Tajani alla battaglia. Fino a dove vogliono arrivare?
La premier Meloni con i figli diBerlusconi - Ansa
Altro che la falsa indagine contro Arianna Meloni spacciata dal Giornale. A tormentare gli ultimi giorni di ferie di Giorgia Meloni, a farle temere per il futuro del suo governo c’è un altro pensiero: quei pericolosi bolscevichi dei figli di Berlusconi, Marina e Piersilvio. La premier pensa, a ragione, che siano stati loro a tirare il mite Tajani per la giacca e a spingere il ministro degli Esteri, già alle prese con due guerre, alla campagna d’estate sullo ius scholae, la cittadinanza per i minori immigrati, tema che a destra è come la criptonite.
All’inizio erano solo mezze dichiarazioni nel pieno del clima olimpico, con le vittorie degli atleti italiani con la pelle nera. Poi la cosa si è fatta più seria, fino al crescendo di ieri al Meeting di Rimini, con Tajani che, come trasfigurato, tira fuori il petto e dice «non accetterò imposizioni». Per chi mastica un po’ di politica è chiaro si tratta di uno scarto, nei toni soprattutto, che non ha precedenti in queste legislatura, fatta salva sola la proposta dello scorso anno sugli extraprofitti delle banche che fu ritirata proprio per il fuoco di sbarramento dei forzisti. E del resto i Berlusconi hanno una banca e quando gli tocchi la roba quelli s’infuriano come il papà.
Stavolta però non c’è in campo nessun affare di famiglia, e allora la cosa si complica. Anche perché Salvini, sempre più condizionato da Vannacci, che nel famigerato libro se la prendeva con la pallavolista Paola Egonu accusandola di scarsa italianità, non può certo indietreggiare nella sua guerra contro gli immigrati. E così la tensione sale, su un tema che finora era rimasto fuori dai radar di Meloni e della maggioranza.
E allora la domanda che tutti si fanno nel cerchio magico della premier è: «Dove vuole arrivare Tajani?». Il timore è che stia preparando lo strappo, lo sganciamento dai sovranisti, dandosi una verniciata liberale e turbo europeista. Ma per andare dove? Qui le ipotesi si fanno fantapolitica, perché è chiaro che un voto di Fi con le opposizioni sullo ius scholae segnerebbe uno strappo difficilmente recuperabile. Se Pd e alleati in autunno porteranno la legge in aula si vedrà se è un bluff o meno. In pochi credono, a sinistra, che Tajani andrà fino in fondo.
E tuttavia queste campagne di consapevole logoramento, spesso in passato hanno dato frutti amari per i governi: Fini nel 2010 sulla giustizia contro Berlusconi, Renzi contro Conte sul Mes nel 2020. Sabotaggi studiati e di successo che hanno portato a governi di larghe intese, prima Monti e poi Draghi. Governi certamente apprezzati da poteri forti e establishment italiani ed europei che Meloni teme come vampiri, e che ha spesso evocato come interessati a farle lo sgambetto.
Il contesto attuale non fa pensare a scenari di questo tipo: il debito pubblico è da record, ma lo spread non suscita allarmi. E le opposizioni, in primis il Pd di Schlein, hanno fatto capire chiaramente che stavolta se il governo cade si torna a votare: niente larghe intese. Schlein ne ha fatto un punto d’orgoglio, uno dei capisaldi della sua campagna per la leadership del Pd: «Con me niente governi tecnici».
E tuttavia in casa Meloni la pazza estate di Tajani non fa dormire sonni tranquilli. Troppo alti i toni, troppo strumentale il tema, visto che non c’è nessuna emergenza legata alla cittadinanza e che negli anni scorsi anche la sinistra non è mai arrivata a punto su una riforma a favore dei giovani immigrati.
Le opposizioni, in ogni caso, si preparano a vedere le carte: a settembre sarà chiesta la calendarizzazione in aula di una mozione del Pd che chiede una «riforma della legge sulla cittadinanza», indicando lo ius soli ma aperta anche a soluzioni più light come lo ius scholae. «Siamo pronto a confrontarci con tutti per arrivare a un risultato», fa sapere il responsabile Immigrazione del Pd Pierfrancesco Majorino.
In casa dem sono consapevoli che quella di Tajani è soprattutto una «mossa di posizionamento politico», per parlare a un elettorato moderato, cattolico e lontano dalla destra estrema. E tuttavia anche loro sono stupiti dai toni del titolare della Farnesina. Nessuno pensa realmente che i figli di Berlusconi vogliano mandare a casa Meloni. Anche perché sarebbero pochi i parlamentari di Forza Italia pronti a perdere il potere senza una concreta prospettiva di conservare il posto.
Resta il fatto che Meloni è preoccupata. Sul tema ha detto il meno possibile, mandando i suoi a spiegare che «non è la priorità». Poco conta che la stessa premier due anni fa avesse sposato la proposta di dare la cittadinanza al termine della scuola dell’obbligo. Oggi la priorità è non farsi scavalcare a destra da Salvini e Vannacci. E soprattutto fermare l’operazione dei fratelli Berlusconi. L’incubo è iniziato a fine giugno con l’intervista di Marina al Corriere, in cui la primogenita si diceva «più in sintonia con la sinistra sui diritti». Da lì è partita la slavina
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A Gaza, indisturbato, Israele continua a bombardare: ieri altri quaranta palestinesi uccisi. In Egitto la trattativa per il cessate il fuoco slitta di altri due giorni: ormai nessuno più ci crede. A Chicago i delegati democratici pro Palestina allontanati dal palco: non vogliono sentirli
Striscia di sangue. Benyamin Netanyahu non rinuncia al controllo del confine tra Gaza e l’Egitto. Secco no di Hamas. Si riaffaccia la risposta di Hezbollah e iraniani alle uccisioni compiute da Tel Aviv a luglio
Gaza. Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant sul Corridoio Filadelfia - Ansa
Guidata dal capo del Mossad David Barnea e dal generale Eliezer Toledano, una delegazione israeliana è partita ieri per il Cairo per preparare i colloqui sulla tregua a Gaza e lo scambio di prigionieri con Hamas, che dovrebbero tenersi domenica. Al Cairo era atteso anche il capo della Cia Williams Burns. La notizia non deve creare illusioni sulla possibilità di arrivare in tempi stretti al cessate il fuoco. La trattativa resta incagliata sulle ultime condizioni poste da Benyamin Netanyahu, macigni che nelle intenzioni del premier dovranno garantire il controllo israeliano, almeno parziale, dei Corridoi Filadelfia e Netzarim a Gaza. Secondo la stampa americana, Israele intende alzare otto torri o punti di osservazione sul Filadelfia, al confine tra Gaza e l’Egitto. Gli Usa ne propongono due. Un esito che Hamas non intende accettare perché la mancata uscita completa da Gaza delle forze di occupazione israeliane segnerebbe la sua sconfitta e darebbe a Netanyahu la vittoria militare che insegue anche a scopo politico.
Il premier israeliano non manca di astuzia. Mandando la delegazione al Cairo si mostra disponibile al cessate il fuoco come gli chiedono gli alleati americani e le famiglie degli ostaggi a Gaza. Allo stesso tempo ribadendo con forza le sue ultime condizioni in nome della sicurezza di Israele – accolte in parte da Washington – tranquillizza i partner di governo di estrema destra che premono per la rioccupazione permanente di Gaza. Rispondendo a David Ignatius del Washington Post che scrive di un Netanyahu più «flessibile» rispetto a qualche giorno fa, un funzionario del governo ha precisato che il primo ministro non ha cambiato idea in alcun modo sul controllo israeliano dei due corridoi a Gaza.
Dall’Irgun ai coloni di oggi, l’obiettivo è scacciare i palestinesi dalle loro terre
L’onere della ricerca di un via d’uscita alla paralisi in atto è dell’Amministrazione Usa. Secondo il quotidiano qatariota al Araby al Jadeed, il segretario di stato Antony Blinken avrebbe proposto che l’Egitto partecipi alle forze internazionali che, nei disegni di Washington, dovrebbero sorvegliare il Corridoio Filadelfia in accoglimento delle pressioni di Israele che comunque avrebbe la supervisione della striscia di terra di 14 chilometri che divide Gaza dall’Egitto. Altre fonti dicono che la gestione di sicurezza del valico di
Commenta (0 Commenti)Europa/Italia. Il monito del governatore sul debito: spendiamo più in interessi che in istruzione
Il governatore della Banca d’Italia striglia il governo sui temi dell’europeismo e della riduzione del debito. Ospite del Meeting di Rimini, il governatore ha ricordato che «l’Italia è l’unico Paese dell’area dell’euro in cui la spesa pubblica per interessi sul debito è pressoché equivalente a quella per l’istruzione». E per rendere sostenibili pensioni e sanità serve anche l’immigrazione regolare.
Panetta entra dunque nel merito della prossima manovra, partendo dal vincolo numero uno: il debito che sfiora i 3000 miliardi di euro.
La strada maestra passa per una «gestione prudente dei conti pubblici» col «graduale conseguimento di avanzi primari adeguati». Ma anche «da un deciso incremento della produttività e della crescita», usando bene i 194 miliardi di aiuti del Pnrr. Il debito italiano è «ovviamente sostenibile» ma ci costringe a spendere soldi «in modo subottimale». Sottraendo risorse all’educazione, in particolare scuola e università, e così «gravando sul futuro delle giovani generazioni, limitando le loro opportunità».
La premier gioca a Minority Report
Il governatore ricorda a chi governa i danni dei nazionalismi e i vantaggi della moneta unica: «Con l’euro non abbiamo perso sovranità, l’abbiamo guadagnata». Oltre alla moneta, ora serve anche «una capacità fiscale comune», dunque i governi dovrebbero già ora avviare «una riflessione sui prossimi passi» dopo la fine del Pnrr nel 2026. «Un banco di prova per la nuova legislatura europea sarà la capacità di confermare il ricorso a progetti di spesa comuni e di avanzare verso un’unione più completa sul piano sia finanziario sia fiscale», ha detto.
Cita poi il tema delle pensioni e avverte che il calo demografico in tutta Europa «rischia di avere effetti negativi» sulla tenuta dei sistemi pensionistici e sanitari, sugli investimenti e sulla sostenibilità del debito. Occorre aumentare l’occupazione di giovani e donne, ma «anche misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari costituiscono una risposta razionale sul piano economico». «Riflessioni condivisibili che cadranno nel vuoto perché questo governo è euroscettico, corporativo e contrario a una gestione pragmatica dell’immigrazione», commenta il dem Misiani.
Per la manovra, che oscillerà tra i 23 e i 25 miliardi, il governo intende confermare le aliquote Irpef del 2024 e il taglio del cuneo fiscale. «Bisogna essere prudenti, dobbiamo guardare alla tenuta dei conti», ha detto ieri sempre al Meeting detto la ministra del Lavoro Calderone. Salvini, pure lui a Rimini, ha promesso ancora una volta di mettere mano alla legge Fornero e l’apertura «entro fine anno» dei cantieri del Ponte sullo Stretto. E ai balneari ha assicurato «prelazione per gli uscenti e indennizzi sui lavori svolti» negli stabilimenti. Promesse difficili da mantenere
Commenta (0 Commenti)Prima di andarsene, Joe Biden riscrive la strategia nucleare degli Stati uniti: al centro del mirino atomico non c’è più Mosca ma Pechino. La Cina «preoccupata» riarmerà, come stava già facendo. E nel mondo ci sono sempre più testate effettivamente schierate
Corsa al riarmo. Il New York Times rivela il piano top secret di Washington: Mosca è solo uno «tsunami», la Cina è «il cambiamento climatico». La Casa bianca, preoccupata dagli accordi cinesi con Putin e Kim Jong-Un, giustifica così il riarmo di Xi
Missili Tomahawk nella sede di San Diego della General Dynamics
È talmente riservato che non ne esistono nemmeno copie digitali. Circola solo in cartaceo, sulla scrivania di pochi eletti tra funzionari della sicurezza nazionale e comandanti del Pentagono. Eppure esiste, tanto che presto potrebbe essere notificato al Congresso, prima che Joe Biden lasci la Casa bianca. Il documento si chiama «Nuclear Employment Guidance» e della sua esistenza ne dà conto il New York Times.
Si tratta di un piano strategico che sarebbe stato approvato dal presidente lo scorso marzo. Obiettivo? Riorientare per la prima volta la strategia di deterrenza nucleare americana per concentrarsi sulla rapida espansione dell’arsenale della Cina. Nelle scorse settimane, alcuni funzionari hanno fatto brevi riferimenti al piano, che mira anche a preparare gli Stati uniti a rispondere a una possibile sfida nucleare lanciata in modo coordinato da Cina, Russia e Corea del nord.
UNO SCENARIO che fino a qualche tempo fa era ritenuto pressoché impossibile, ma che ora Washington starebbe iniziando a prendere in considerazione, soprattutto dopo l’accordo di mutua difesa siglato a giugno da Vladimir Putin e Kim Jong-un a Pyongyang.
L’ipotesi che la Corea del nord abbandoni la strada dello sviluppo nucleare appare più che mai lontana, tanto che il suo arsenale si starebbe già avvicinando a quelli di Pakistan e Israele. C’è anche chi teme un possibile nuovo test nucleare a cavallo delle elezioni americane. Per Kim sarebbe un modo per guadagnare una posizione più favorevole in vista di un eventuale negoziato, che qualcuno si immagina possa riaprirsi nel caso di un ritorno di Donald Trump.
Ma al centro delle attenzioni di Washington c’è sempre la Cina, che nel gergo degli apparati di sicurezza statunitense viene identificata ormai come «cambiamento climatico», mentre la Russia viene derubricata a «tsunami». Secondo le stime del Bulletin of Atomic Scientists del 2024, Pechino disporrebbe attualmente di circa 500 testate nucleari. Siamo ben lontani dalle 3.700 testate e dagli 800 lanciatori degli Usa, ma il tasso di crescita cinese si è fatto molto rapido.
Secondo immagini satellitari, negli ultimi anni sarebbero aumentati i silos destinati a conservare le armi, spesso nelle zone desertiche del vasto entroterra occidentale. Se la Cina dovesse mantenere questo ritmo, a Washington sono convinti che potrebbe avere già mille testate entro il 2030 e 1500 entro il 2035.
LA NOTIZIA della strategia nucleare segreta approvata da Biden arriva in un momento delicato dei rapporti bilaterali. A luglio, Pechino ha sospeso il dialogo con Washington sul controllo delle armi nucleari, come ritorsione per le ripetute vendite di armi americane a Taiwan.
Le tensioni sono in aumento anche sul mar Cinese meridionale, in particolare sulle dispute territoriali con le Filippine, legate a Washington da un’alleanza militare. Ieri la portavoce del ministero degli esteri Mao Ning ha dichiarato che la Cina «è seriamente preoccupata» per le indiscrezioni del Nyt. «La teoria della minaccia nucleare cinese è solo una scusa per sottrarsi alle responsabilità del disarmo, espandere il proprio arsenale e cercare enormi vantaggi strategici», ha accusato Mao.
Pechino persegue una «politica di non primo uso di armi nucleari», ma rivendica il diritto di accrescere la propria deterrenza per ridurre il gap con l’ampiezza dell’arsenale di Usa e Russia. Il rafforzamento delle proprie scorte non sembra fin qui essere stato toccato dai recenti scandali che hanno toccato le forze missilistiche dell’Esercito popolare di liberazione, la divisione che ha in carico la gestione dei missili, compresi quelli con testata nucleare.
Negli scorsi mesi sono stati rimossi i vertici, contestualmente all’espulsione dell’ex ministro della difesa Li Shangfu. Mentre al terzo plenum del Partito comunista di luglio, contro tutte le previsioni, il suo successore Dong Jun non è entrato (come invece ci si aspettava) nella Commissione militare centrale presieduta da Xi Jinping. Una scelta che può avere vari livelli di lettura, ma che lascia intendere che il controllo del segretario generale e presidente sia uscito rafforzato.
IL NUOVO documento americano verrà con ogni probabilità usato dalla Cina per rafforzare la giustificazione dell’ampliamento del proprio arsenale. Da anni Pechino critica i vari accordi militari degli Usa in Asia-Pacifico, a partire dalla piattaforma Aukus che doterà l’Australia di sottomarini a propulsione nucleare.
Passando per l’ampliamento del cosiddetto «ombrello nucleare» a protezione della Corea del sud e dai legami militari sempre più stretti fra Usa e Giappone. Sentirsi, o quantomeno descriversi, nel mirino darà presumibilmente linfa al potenziamento della sua strategia di deterrenza. Sperando che i due rivali si ricordino di accompagnarla a qualche rassicurazione
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