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Riforme. Morando e Tonini difendono la riforma del Titolo V, il Nazareno: «Nessuna spaccatura»

Pd, la fronda dei riformisti: «No al referendum sull’autonomia» Un banchetto per la raccolta firme per il Referendum contro l’Autonomia differenziata foto Ansa

Dal Pd minimizzano parlando di «iniziativa personale» ma la lettera aperta degli ex senatori Enrico Morando e Giorgio Tonini al Corriere della Sera ha reso evidente l’esistenza di una faglia nella linea ufficiale dei dem sull’autonomia differenziata. Morando e Tonini (il primo piemontese, il secondo di Trento), entrambi esponenti della corrente Libertàeguale, hanno preso spunto da un’intervista del manifesto a Giovanni Maria Flick, presidente del Comitato contro l’autonomia differenziata, per denunciare: «La legge Calderoli può essere criticata per molti aspetti ma in sé è troppo poca cosa per giustificare un referendum abrogativo. Se si ricorre al referendum, è perché si vuole mettere in gioco una grande questione di orientamento politico generale, che in questo caso è la Costituzione come riformata da noi 24 anni fa».

IL PUNTO DI CADUTA è la riforma del Titolo V che per il presidente emerito della Consulta «è stata un disastro, di fronte all’errore commesso allora non era il caso di insistere». Una posizione che i due esponenti dem contestano fin dalla radice, rivendicando la scelta fatta allora: «Siamo in tanti ad aver sostenuto la riforma del Titolo V – spiega Morando – non abbiamo inseguito la Lega, questa interpretazione è infondata, do per scontato che tra i nostri elettori quella posizione di un tempo abbia messo radici e non sia del tutto dimenticata».

A FARE SALTARE dalla sedia i due riformisti, oltre alle parole del presidente del comitato, è stato l’intero impianto della comunicazione del referendum abrogativo: «Nei manifesti si chiede di firmare contro l’autonomia non contro la legge Calderoli». Non è un dettaglio per chi, dal centrosinistra, esprime posizioni federaliste e autonomiste da diversi decenni. Come Daniele Marantelli, altro ex parlamentare dem, «federalista fin dai tempi del Pci», come dice di sé. Con una differenza: «I contenuti della lettera di Morando e Tonini sono difficilmente contestabile ma ho scelto di non fare battaglie contro perché è chiaro che questo argomento mette insieme tutta l’opposizione contro il governo Meloni e sia una mossa giusta – dice Marantelli, soprannominato il leghista rosso – però di sola tattica si muore». E ancora: «La sinistra ha nel suo dna il principio dell’autonomia ma Calderoli, un pasticcione, e la Lega hanno fatto forzature e avanzato una proposta strampalata. La nostra controproposta però qual è?», si chiede Marantelli.

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DAL NAZARENO rassicurano: «Non c’è nessuna fronda». Il senatore Dario Parrini, vicepresidente della commissione Affari Costituzionali, è il primo a prendere le distanze dalla lettera dei suoi compagni riformisti: «Sono in netto dissenso. Morando e Tonini vanno contro la realtà quando affermano, da una parte, che la legge 86 non è così rilevante da meritare una richiesta di referendum e, dall’altra, che il quesito colpisce un titolo intero della Costituzione. Inoltre l’equazione sostegno al referendum uguale centralismo è arbitraria. L’alternativa qui non è tra centralismo e autonomia. Ma tra autonomia sana o insana». Marco Sarracino, della segreteria del partito (e responsabile Mezzogiorno), chiosa: «Il Pd è unito, lo dimostra il numero di assemblee, iniziative, banchetti, da nord a sud, con cui raccogliamo le firme e spieghiamo le criticità della legge Calderoli. Questa battaglia è condotta con un fronte molto largo e anche per questo la destra è in difficoltà».

LA LETTERA APERTA intanto sta circolando: «Qualche chiamata l’ho ricevuta», ammette Morando. Che ci siano territori inquieti, o tiepidi, sul referendum è un fatto. Nel Pd di Bolzano così come a Bologna e a Torino, ci sono state diffidenze e freddezza nella raccolta delle firme. Sconfessare completamente la riforma del Titolo V e le richieste di deleghe del passato (come quelle dell’Emilia Romagna guidata da Bonaccini) a molti sembra un gesto troppo forte. «Non siamo noi a dover spiegare la nostra posizione – dicono alcuni dirigenti locali a microfoni spenti – è la segretaria Schlein che ci può dire cosa l’abbia indotta a un mutamento di posizione sull’autonomia».

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Nella foto: Donne palestinesi piangono mentre evacuano la scuola che era stata il loro rifugio a Deir al-Balah, nella Striscia di Gaza @Abdel Kareem Hana, Ap

Oggi un Lunedì Rosso che interroga il concetto di Altro. In politica può essere sinonimo di diverso, persino nemico. Ma anche di alternativa, cambiamento. È una prospettiva differente sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale quella offerta dall’approfondimento di Evgeny Morozov. La prospettiva diversa che caratterizza anche la produzione cinematografica della regista neozelandese Jane Campion. Incontrata a Locarno, racconta al manifesto i vantaggi e le difficoltà di proporre uno sguardo femminile dietro la cinepresa. L’Altro, di cui il femminile è l’espressione per eccellenza, può essere anche l’oggetto della sopraffazione più brutale. Accade così alle donne afghane, piombate da ormai tre anni in un intollerabile apartheid che vieta ogni loro libera espressione.

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Il fattore Gaza. La convention dem a Chicago decide la linea del partito e incorona la sfidante di The Donald. Attesa per le proteste pro-Palestina

Kamala Harris suona la riscossa. Tutti (o quasi) sono con lei Un murales di Kamala Harris a Chicago foto Getty Images

A distanza di un mese da quella repubblicana che si è tenuta a Milwaukee, lunedì comincia a Chicago la convention democratica, in un panorama politico completamente diverso da quello di sole quattro settimane fa. Quello che si pensava sarebbe stato il funerale dei Dem nella corsa per la Casa bianca, dall’uscita di scena di Biden e dall’entrata di Kamala Harris e Tim Walz, si è trasformato in una festa annunciata. A Chicago si aspetta l’arrivo di più di 50mila persone fra sostenitori del partito e delegati, e di 15mila giornalisti da tutto il mondo.

LE CONVENTION SONO SEMPRE il momento più celebrativo per i partiti, ma a questo giro i democratici hanno voluto fare le cose in grande dividendo gli eventi in due hub principali: un centro congressi che si trova nel centro di Chicago, nel cosiddetto loop, dove si svolgeranno gli incontri con i singoli politici durante la mattina e il primo pomeriggio, e un’arena fuori dal loop, dove dalle 17 alle 22 si alterneranno i discorsi ufficiali dei leader dem per presentare la linea del partito e, giovedì sera, nominare ufficialmente Kamala Harris come loro candidata, in una cerimonia che è vista come un’incoronazione politica.

A differenza della convention repubblicana, da dove il Grand Old Party (Gop) è praticamente sparito, fagocitato dal Maga (Make America Great Again, il movimento di Trump), a quella democratica sono attesi tutti i principali attori politici. Se a Milwaukee erano assenti pezzi da 90 come i Bush, i Cheney, Mitt Romney e perfino l’ex vice presidente di Trump, Mike Pence, a Chicago sarà molto diverso. Lunedì sera arriverà Hillary Clinton, ma il vero ospite d’onore sarà Joe Biden, e non solo per dare, ancora una volta, la sua benedizione politica a Harris: il suo intervento sarà l’occasione per celebrare e, in qualche modo, archiviare la sua figura, per concentrarsi sul nuovo ticket.

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Controinvasione. L’ultimo tassello nella costruzione a cui il Cremlino lavora ormai da nove giorni lo ha sistemato ieri Nikolaij Patrushev, uno degli uomini più fidati di Putin, al punto da essere […]

 

L’ultimo tassello nella costruzione a cui il Cremlino lavora ormai da nove giorni lo ha sistemato ieri Nikolaij Patrushev, uno degli uomini più fidati di Putin, al punto da essere inserito tempo fa nell’elenco dei suoi possibili sostituti.

«Gli ucraini hanno pianificato l’operazione a Kursk con uomini della Nato e di servizi speciali dell’occidente», le parole dal consigliere presidenziale, uno che, dalla fine degli anni Novanta, ha attraversato ogni passaggio politico ai vertici del potere russo.
Elementi a sostegno della tesi ce ne sono, basti pensare all’ampio impiego di mezzi tedeschi, britannici, americani e canadesi nel corso di questa offensiva, oppure ai suggerimenti, ne ha parlato in settimana il New York Times, che gli Stati Uniti avrebbero avanzato ai loro interlocutori a Kiev: dimenticatevi del fronte, delle trincee, delle zone minate e fortificate; colpite i russi nel punto in cui sono più vulnerabili, ovvero sul loro stesso territorio.

Quel che è strano nelle parole di Patrushev, e più in generale nella risposta della Russia all’iniziativa ucraina, è la priorità che il Cremlino continua a concedere al lato retorico della questione rispetto al lato militare. Come se il controllo delle informazioni e della versione di stato da trasmettere ai cittadini fosse più importante di quello sui confini.Sul campo la risposta del ministero della Difesa e dei servizi segreti è parsa sin dal primo momento lenta, stanca, priva di convinzione. In dieci giorni gli ucraini sono riusciti a inchiodare l’esercito russo su un’area vicina ai mille chilometri quadrati facendo centinaia di prigionieri e occupando oltre ottanta insediamenti, come ha ribadito da Kiev il presidente, Volodymyr Zelensky. Nella cittadina di Sudzha hanno stabilito un posto di comando amministrativo-militare, proprio come i russi hanno fatto sinora nelle province dell’Ucraina. Nel vicino villaggio di Glushkovo ieri sono riusciti a distruggere un ponte, bloccando in una sacca circa settecento militari russi. Ma anziché risolvere l’emergenza, nella cerchia di Putin sembrano impegnati a mettere insieme una adeguata struttura teorica.

La lentezza militare sorprende anche gli alleati di Mosca. «Nel caso in cui qualcuno varcasse i nostri confini la risposta sarebbe immediata», ha assicurato il presidente bielorusso, Aleksander Lukashenko. Che ha poi aggiunto: «Noi di linee rosse non ne abbiamo». Un riferimento esplicito ai limiti sempre più misteriosi di cui Putin discute quando minaccia ritorsioni esistenziali ai nemici.

Ebbene, questa volta l’esercito ucraino ha rotto la sacralità dei confini russi fra le province di Sumy e Kursk, nel luogo in cui il mito vuole che i popoli slavi abbiano mosso i primi passi, fra le campagne che hanno segnato l’inizio della controffensiva sovietica in quella che in Russia è ricordata come Grande guerra patriottica. Come dire: la circostanza dovrebbe spingere il Cremlino a misure decise, eppure proprio adesso nessuno da quelle parti sembra avere intenzione di agire.

Una spiegazione bene informata di quel che avviene nella cerchia di Putin ha provato a fornirla la giornalista indipendente Yuliya Latynina. Secondo Latynina, Putin e il suo stato maggiore non hanno ceduto al comportamento più semplice. Ovvero spostare subito le truppe schierate nel Donbass, distribuirle fra Kursk e Belgorod, spegnere sul nascere il pericolo di una invasione a settecento chilometri da Mosca. Per ora si è deciso di stabilizzare il nuovo fronte con piccole unità, con squadre di specialisti, con un certo numero di coscritti, e di portare avanti nello stesso tempo la spinta nel Donbass.

L’obiettivo non sarebbe, quindi, almeno per adesso, impedire una presenza militare ucraina da questa parte del confine, ma semplicemente renderla inoffensiva. Perché il piano funzioni, però, è necessario che il flusso di armi e munizioni fra l’occidente e l’Ucraina rallenti, e che i governi della Nato non procedano con il via libera all’impiego degli aiuti militari più moderni sul territorio russo.

È proprio a questo punto che arrivano le parole di Patrushev. Una richiesta più che una denuncia, il cui esito può avere ripercussioni ben oltre il conflitto con l’Ucraina

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L’esercito ucraino consolida le posizioni nella regione russa di Kursk. La Bbc rivela: Kiev sta impiegando blindati britannici. Canada e Germania ammettono l’uso delle loro armi per l’attacco, l’Italia resta ambigua. Mosca punta il dito: operazione firmata Nato

Cari armati. La Bbc: blindati britannici nel Kursk. Germania e Canada: liberi di usarle come vogliono. In arrivo un nuovo pacchetto militare dagli Stati uniti. L’Italia resta ambigua sull’impiego dell’equipaggiamento fornito agli ucraini. Sul quale permane il segreto

Kiev avanza, cade il veto sulle armi per l’attacco Un edificio colpito dagli attacchi ucraini ieri a Kursk - foto Getty Images

Due fronti che si approfondiscono e si prolungano in due direzioni opposte. Da una parte, le truppe di Kiev continuano a rinsaldare la propria presa nella regione russa di Kursk, controllando la cittadina di Sudzha (circa 15mila abitanti) e numerose altre località oltre confine. Dall’altra, l’esercito di Mosca sembra intensificare la propria avanzata nel Donbass, avvicinandosi a circa 10 chilometri dall’importante centro logistico di Pokrovsk (circa 60mila abitanti prima della guerra, oblast di Donetsk).

Ciascuno dei contendenti sta provando a sfruttare al massimo le vulnerabilità dell’altro. Con la sua incursione inaspettata, l’Ucraina ha messo in luce le difficoltà logistiche e organizzative delle retrovie nemiche, costringendo le forze del Cremlino a mobilitare coscritti e membri di servizi interni di Fsb e Rosvgardija e a richiamare in patria molti dei propri effettivi che erano impiegati nei territori occupati per respingere l’attacco (ufficiali Usa hanno parlato ieri alla Cnn di «diverse brigate da almeno mille uomini»). Alcuni report indipendenti indicano che i russi stanno scavano trincee alla periferia di Kursk, circa 45 chilometri dal confine. A Sudzha, intanto, gli ucraini hanno istituito un vero e proprio centro di comando militare «per mantenere l’ordine nell’area e andare incontro ai bisogni della popolazione che si trova nei territori ora sotto controllo».

PROPRIO IERI la Bbc citando fonti militari britanniche ha rivelato che nell’offensiva di Kiev sono stati usati carri armati «Challenger» – Londra ne aveva trasferiti 14 all’Ucraina – malgrado ufficialmente non sia stata data l’autorizzazione a impiegarli in territorio russo. La notizia segue quanto riferito il 14 agosto dal ministero della difesa tedesco: una volta consegnate le armi agli ucraini, questa la posizione ufficiale, la Germania considera le forze armate di Kiev libere di stabilirne l’impiego. Le ultime armi consegnate da Berlino sono i carri armati Leopard 1 e 2, veicoli di fanteria «Marder» e lanciamissili.

SI SA CHE ANCHE l’Italia ha fornito a Kiev armi potenzialmente d’attacco come i missili Samp-T e Storm Shadow, pure mantenendo il segreto sulle forniture, ma confuse dichiarazioni di ministri e maggioranza hanno ripetuto che non andrebbero usate per un’offensiva. Il ministero della difesa del Canada ha invece apertamente dichiarati che le armi spedite a Kiev possono essere utilizzate «liberamente e senza restrizioni geografiche». Intanto proprio in queste ore si aspetta un nuovo pacchetto di aiuti militari dagli Usa.

I numerosi reportage sul campo che si inseguono negli ultimi giorni da parte di testate indipendenti russe e internazionali mostrano una vasta gamma di reazioni da parte della popolazione, dallo smarrimento alla rabbia sia verso l’inefficienza del proprio governo che contro le forze armate ucraine.

HA FATTO scalpore l’esclusiva realizzata dai giornalisti Rai Stefania Battistini e Simone Traini, che hanno documentato l’altro ieri la situazione a Sudzha e dintorni al seguito delle truppe di Kiev: i media russi hanno prima riferito dell’intenzione da parte di Mosca di aprire un procedimento giudiziario nei loro confronti, mentre sul web sono apparse minacce da parte di blogger militari; poi, nella serata di ieri, il ministero russo degli affari esteri ha convocato la nostra ambasciatrice Cecilia Piccioni per protestare per il servizio televisivo.

Intanto, anche dal lato opposto del confine la situazione è problematica. Sono migliaia i civili ucraini evacuati dal fronte del Donbass. La stampa, citando diverse fonti interne all’esercito, sostiene che in quel punto la pressione russa non è diminuita ma anzi potrebbe essere quasi accresciuta.

D’altro canto, ci sono notizie di attacchi da parte ucraina al ponte di Kerch, che collega la penisola di Crimea alla Federazione. La struttura è stata chiusa per qualche ora. Insomma, è un insistito “braccio di ferro” i cui esiti rimangono per ora incerti. Putin si è riunito ieri con i membri del consiglio permanente di sicurezza del paese, per discutere delle «nuove soluzioni tattiche» applicate nel corso dell’«operazione militare speciale». Domani, si recherà in visita di stato in Azerbaijan

 

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 Dopo oltre dieci mesi di assedio israeliano e 40mila uccisi palestinesi, si aprono a Doha colloqui difficili per il cessate il fuoco. Hamas non manda una delegazione. Netanyahu pone nuove condizioni. Eppure solo un accordo di tregua può fermare l’allargamento della guerra

Tutti ostaggi. Oggi colloqui decisivi per il cessate il fuoco. Hamas non ci sarà, Netanyahu invia una delegazione ma pone nuove condizioni

 Gaza. Il campo profughi di Al Maghazi - Ansa

Solo il raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco a Gaza, frutto dei colloqui previsti oggi a Doha, impedirebbe all’Iran di intraprendere la minacciata, da giorni, rappresaglia contro Israele per l’assassinio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, sul suo territorio. Lo hanno detto alla agenzia Reuters tre alti funzionari iraniani. Se i colloqui fallissero o Israele facesse in modo da ostacolarli e prolungarli, Teheran lancerebbe il suo attacco, hanno aggiunto i funzionari. Non è chiaro se questa sia anche la posizione di Hezbollah. Ma è probabile. La chiusura di un accordo di cessate il fuoco permetterebbe ai due alleati di congelare, in nome degli interessi dei palestinesi di Gaza, la risposta per le due uccisioni compiute da Israele senza apparire deboli di fronte alle provocazioni del governo di Benyamin Netanyahu.

Gli americani ieri erano sempre impegnati ad evitare l’escalation che temono per i loro interessi in Medio oriente. Il consigliere del presidente Brett McGurk è arrivato martedì al Cairo per discutere con funzionari egiziani della sicurezza al confine tra Egitto e Gaza. E ieri era attesto a Doha. Joe Biden ha inviato nella regione anche il mediatore Amos Hochstein che ieri ha tenuto colloqui a Beirut per cercare di placare la rabbia del movimento sciita per l’assassinio, compiuto sempre da Israele, del suo comandante militare, Fuad Shukr. «Continuiamo a credere che una soluzione diplomatica sia raggiungibile perché crediamo che nessuno voglia veramente una guerra su vasta scala tra Libano e Israele», ha detto Hochstein dopo l’incontro con Nabih Berri, speaker del parlamento libanese e leader del partito Amal alleato di Hezbollah. In Qatar oggi arriveranno anche il direttore della Cia, Bill Burns, e la delegazione israeliana guidata dai capi del Mossad David Barnea e dello Shin Bet (sicurezza interna) Ronen Bar. Sono inoltre girate voci che l’Iran potrebbe inviare a Doha un suo rappresentante per seguire le trattative anche se in modo indiretto.

In Qatar non ci sarà la delegazione di Hamas. Il movimento islamico palestinese insiste per il ritiro di Israele da Gaza e la fine dell’offensiva che ha devastato la Striscia, prima della sua partecipazione. Più di ogni altra cosa chiede che la trattativa sia fondata sulla proposta di accordo di tregua annunciata da Joe Biden, approvata anche dall’Onu. «Hamas è impegnato a rispettare la proposta presentata il 2 luglio, che si basa sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sul discorso di Biden…Intraprendere nuovi negoziati consente all’occupazione israeliana di imporre nuove condizioni e di utilizzare il labirinto dei negoziati per compiere nuovi massacri», ha detto il portavoce Sami Abu Zuhri.

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