I soliti sospetti Zona rossa alla Stazione Termini e nel centrale quartiere Esquilino. Al Quarticciolo, in periferia, arriva il "modello Caivano"
Homeless alla stazione Termini – Andrea Sabbadini
La stazione Termini di Roma e la periferia del Quarticciolo distano chilometri ma si ritrovano accomunate dall’essere terreno di sperimentazione dei provvedimenti securitari del governo Meloni, dal ddl Caivano al decreto Cutro, fino alle zone rosse istituite a colpi di circolari dal ministro Piantedosi.
Il Giubileo ha fornito l’occasione per provare i dispositivi di controllo e repressione impostati dall’esecutivo e sarà probabilmente un anticipo di quello che potrebbe succedere nei centri urbani se venisse approvato il decreto Sicurezza (ddl 1660). La Capitale del 2025 sarà un modello per lo sviluppo del concetto di sicurezza per il resto delle città italiane. Anche se di sviluppo in senso proprio non si può parlare dato che il metodo è sempre lo stesso per destra e sinistra: la militarizzazione del territorio e la profilazione dei poveri.
A POCHI GIORNI dall’entrata in vigore della zona rossa che riguarderà non solo la stazione ma tutto il quartiere Esquilino, Termini ieri era poco affollata. Nel grande atrio, ormai un centro commerciale, non si vedevano guardie. Solo un gazebo dell’esercito con due miliari, l’effetto è più che altro coreografico. Fuori, davanti all’ingresso principale, la presenza delle forze dell’ordine si nota ma, dice un ragazzo che lavora in uno dei tanti ristoranti della stazione, «ci sono da qualche mese».
La polizia fa gruppetto in un angolo, quella municipale anche. Due militari stazionano davanti alla fila per i taxi, altri due fanno avanti e indietro. Per tutta l’ora successiva quello che faranno sarà chiudere e richiudere la porta allarmata aperta per sbaglio dai turisti. Un ragazzo con evidenti segni di disabilità mentale tenta di avvicinarsi a un cestino dei rifiuti, gli fanno cenno di andarsene. All’ingresso dal lato di via Giolitti invece nessun evidente presidio di forze dell’ordine, il via vai è ordinario così come le pressanti richieste dei tassisti abusivi.
Percorrendo la strada fino in fondo si arriva al dormitorio e alla mensa della Caritas. Da lì, e fino all’area intorno al sottopasso di San Lorenzo, si susseguono le tende delle persone che erano state sgomberate da viale Pretoriano e che in teoria avrebbero dovuto trovare accoglienza in una delle tensostrutture previste per il Giubileo. Tutto intorno Termini la varia umanità che circonda ogni stazione. Gruppi di ragazzi, homeless, persone con problemi mentali o vulnerabili, senza tetto in carrozzina. Tutta gente che potrebbe essere oggetto di daspo urbano o allontanata dalla zona rossa che aprirà a giorni se ritenuti molesti o pericolosi.
IL DISPOSITIVO di Piantedosi (che è stato l’estensione di una norma del suo predecessore al Viminale, Minniti), dopo una prima applicazione a Bologna e Firenze, è già in vigore a Milano. Qui è stato oggetto di una forte denuncia da parte della Camera penale cittadina: «La percezione d’insicurezza, vera o presunta, diviene l’occasione per restringere spazi di libertà, allarma il fatto che diritti tutelati a livello costituzionale e convenzionale, quali quelli alla libertà personale (l’allontanamento forzoso la viola senza dubbio) e di movimento, vengano compressi con provvedimenti a categorie impalpabili».
A Roma l’inizio della zona rossa è stato rinviato per consentire altri tavoli tecnici tra prefettura e questura. La vastità dell’area coinvolta nella Capitale deve aver suscitato dubbi sull’applicazione. «Abbiamo allertato le altre associazioni della Rete dell’Esquilino – spiega Giovanna Cavalli che, come legal aid dello Sportello Immigrazione dello spazio sociale Spin Time, va in missione a Termini una volta al mese – vogliamo chiedere conto al Campidoglio e alla prefettura del dispositivo, non si capisce come potrà essere applicato. In base a cosa questa zona viene ritenuta un ricettacolo di criminali? Come viene selezionato chi deve lasciare l’area?». E ancora: «Le forze dell’ordine saranno costrette a fare i buttafuori mandando via persone che sono sospette per il colore della pelle o per una visibile condizione di vulnerabilità». «Hanno deciso che il Giubileo è un’emergenza – nota l’avvocata -, i grandi eventi internazionali si gestiscono sempre con privatizzazione di pezzi di città da parte della polizia e si nascondono i poveri come la polvere sotto il tappeto».
PIETRO DEL COMITATO di quartiere del Quarticciolo, edilizia pubblica a ridosso del Parco di Centocelle: «Ormai è passata l’idea che la gestione dell’ordine pubblico sia la risposta a qualsiasi tipo di problema, dall’accattonaggio alla mancanza di alloggi, dal degrado urbano alla povertà, fino alla salute mentale: tutto nello stesso dispositivo». Il suo quartiere è tra le sei periferie scelte per replicare il modello Caivano. Ci sarà quindi un commissario straordinario che individuerà gli interventi per il territorio. Bypassando realtà del quartiere e lo stesso sindaco Gualtieri. Il comitato ha indetto un’assemblea pubblica per il 18 gennaio. «Il ddl 1660 è ancora in discussione ma il decreto Caivano bis ne anticipa gli strumenti: Quarticciolo non è un deserto, gli abitanti hanno costruito esperienze resistendo all’abbandono istituzionale e alla devastazione della vendita di crack. Meloni fa propaganda».
IL PROVVEDIMENTO porterà anche fondi, quasi 2.500 euro a cittadino: «Neanche nello stato sociale svizzero di una volta – ironizza Pietro -, il rischio è che diventi una mangiatoia a favore dei cacicchi». Dal Quarticciolo chiamano in causa anche Gualtieri: «Mentre la città è aggredita dall’ipertursimo e dalla rendita, permetterà che in periferia la destra faccia deserto delle esperienze sociali e civiche?». Daniele Leppe, avvocato contro gli sfratti: «In tutte le città dove si vuole esportare il modello Caivano o dove si aprono zone rosse ci sono dibattiti in consiglio comunale, nella Capitale tutto tace»
Commenta (0 Commenti)Giorgia Meloni vola alla corte di Trump a Mar-a-Lago nel tentativo di sbloccare la trattativa per la liberazione di Cecilia Sala. Dal presidente Usa incaricato spera di ottenere il permesso per lo scambio con l’ingegnere iraniano Abedini, arrestato su mandato di Washington
Only you Incontro in Florida. L’obiettivo è risolvere l’affaire Sala-Abedini senza irritare gli Usa. C’è un precedente andato a buon fine del 2019, quando il tycoon era alla Casa Bianca
Giorgia Meloni – Pool Photo via Ap
È attraverso i contatti con «gli amici americani» che il governo italiano intende risolvere l’intrigo internazionale che vede la giornalista italiana Cecilia Sala prigioniera a Teheran e l’ingegnere iraniano Mohammed Abedini recluso nel carcere di Opera con una richiesta d’estradizione degli Usa che pende sulla sua testa.
NELLA NOTTE italiana, l’ora di cena a Palm Beach in Florida, la premier Giorgia Meloni ha visto il presidente eletto Donald Trump e, tra i vari argomenti che hanno trattato, non poteva certo mancare quello che da prima di Natale maggiormente preoccupa il governo italiano. L’incontro, peraltro, è stato concordato solo all’ultimo, segno che qualche urgenza in effetti c’è. L’aereo è partito dall’Italia alle 11 di ieri mattina e, dopo uno scalo tecnico in Irlanda, ha fatto rotta verso gli Stati Uniti. Il tutto nel silenzio chiesto dalla famiglia Sala per non disturbare delle trattative «complicate». Le difficoltà italiane, in effetti, sono evidenti a partire dl rapporto con l’Iran (la situazione non si sblocca dal 19 dicembre, giorno dell’arresto della reporter) e negli ultimi giorni la posta si è alzata sempre più, tra le richieste insistenti della Repubblica islamica di liberare Abedini nel più breve tempo possibile e la minacciosa allusione al deterioramento dei rapporti con Roma se questa continuerà a seguire le indicazioni degli Usa, che almeno sin qui non hanno mai mostrato intenzione di rinunciare all’ingegnere, considerato un criminale.
GIUSTO IERI, il Wall Street Journal, in un lungo pezzo, raccontava le varie difficoltà dell’affaire Sala-Abedini. «Se l’Italia rilasciasse Abedini – era uno dei ragionamenti del quotidiano – rischierebbe di irritare il presidente eletto Donald Trump, che rinnoverà la sua strategia di massima pressione sull’Iran, e di danneggiare lo sforzo della Meloni di posizionarsi come uno degli interlocutori preferiti di Trump in Europa». Se un altro snodo importante sarà l’arrivo del presidente uscente Joe Biden in Italia domenica prossima, non è detto che con l’ amministrazione entrante le cose saranno necessariamente più complicate. L’obiettivo, comunque, è di risolvere la cosa tra il 15 gennaio (quando la Corte d’Appello di Milano si esprimerà sulla scarcerazione di Abedini) e il 19, giorno prima dell’entrata in carica di Trump. Dalla Farnesina, inoltre, ricordano un precedente del dicembre 2019, quando pure il tycoon era al potere e lo stesso Washington e Teheran – attraverso la mediazione della Svizzera – riuscirono ad accordarsi per scambiarsi due prigionieri, lo studente di Princeton Xiyue Wang e scienziato iraniano Masoud Soleimani.
DOMANI, comunque, avrà luogo la parlamentarizzazione della crisi iraniana con l’audizione
Leggi tutto: Meloni cerca l’ok di Trump per lo scambio di prigionieri - di Mario Di Vito
Commenta (0 Commenti)Tutto sui fossili Importatori netti di gas liquido fino al 2015, gli Stati uniti hanno invertito il trend a discapito dell’ambiente. L’Italia sta investendo per diventare hub di transito e consumo
Rifle (Colorado, Usa), operazioni di fracking – Brennan Linsley/Ap photo
La chiusura del gasdotto tra Russia ed Europa attraverso l’Ucraina ha acceso un faro utile a cogliere come sta cambiando il mercato del gas: nel 2024, gli Usa hanno esportato ben 88,3 milioni di tonnellate metriche di gas naturale liquefatto (Gnl), in aumento del 4,5% rispetto al 2023. È un mercato in cui il Paese è leader e, con tutta probabilità, lo resterà dopo l’insediamento alla presidenza di Donald Trump, in programma il 20 gennaio: un governo negazionista, che sarebbe pronto a uscire nuovamente dall’Accordo di Parigi sul clima, non potrà che continuare a spingere sulle fonti fossili.
A dicembre 2024, tra l’altro, l’export Usa di Gnl ha raggiunto livelli quasi record, salendo a 8,5 milioni di tonnellate metriche, anche grazie all’avvio di due nuovi impianti. E poco importa se la letteratura scientifica certifichi che «l’impronta di gas serra» del Gnl come fonte di combustibile è del 33% superiore a quella del carbone, da sempre considerato come il più «sporco» tra i combustibili fossili. L’espansione del gas naturale liquefatto dipende anche dal sostegno delle banche, che continuano a pompare finanziamenti illimitati nel settore: fra il 2021 e il 2023, secondo il report «Frozen gas, boiling planet», a livello globale sono stati concessi al settore finanziamenti per 213 miliardi di dollari. Le banche italiane hanno fornito 6 miliardi di dollari, senza preoccuparsi che il trasporto di gas liquefatto (che arriva anche in Italia, a Piombino, a La Spezia, presto anche a Ravenna) aumenta il rischio di fuoriuscita di metano, cioè di un gas serra che è in media 80 volte più potente dell’anidride carbonica in un periodo di 20 anni.
L’espansione del Gnl avviene nonostante le proiezioni dell’Agenzia internazionale per l’Energia mostrino una sovracapacità del settore: a volerlo sono società petrolifere e del gas, come Eni, TotalEnergies e QatarEnergy, specialisti del Gnl come Venture Global e anche società di servizi, come Enel, che hanno in programma un’espansione massiccia delle loro attività, con 156 nuovi terminali entro il 2030. Secondo Justine Duclos-Gonda, attivista di Reclaim finance, «le compagnie petrolifere e del gas stanno scommettendo sui progetti di Gnl, ma ognuno dei loro progetti mette in pericolo il futuro dell’Accordo di Parigi. Le banche affermano di sostenere le compagnie petrolifere e del gas nella transizione, invece stanno investendo miliardi di dollari in future bombe climatiche. Il Gnl è un combustibile fossile e non ha alcun ruolo da svolgere in una transizione sostenibile. Le banche devono assumersi le loro responsabilità e smettere immediatamente di sostenere gli sviluppatori di Gnl e i loro terminali di esportazione».
Il rapporto accende un faro sugli Usa: nel maggio 2024, gli investitori statunitensi rappresentavano il 71% degli investimenti totali nell’espansione del gas liquefatto, con i fondi BlackRock, Vanguard e State Street in testa. Insieme questi tre soggetti (che raccolgono anche in Italia i risparmi di milioni di persone) sono responsabili del 24% di tutti gli investimenti nell’espansione del Gnl. Anche per questo, dei 156 nuovi terminali in corso di realizzazione o progettati da qui al 2030, destinati a collegare i mercati di produzione ed esportazione con quelli d’importazione (come il nostro), oltre il 50% della nuova capacità di export si concentra negli Usa, in Canada e in Messico.
Alcune ricerche universitarie, però, dimostrano che dal 2005 a oggi se gli Stati Uniti hanno a disposizione gas da esportare, ciò è dovuto principalmente all’aumento della produzione usando la tecnica del fracking, per ottenere quello che viene chiamato shale gas, gas di scisto: gli Usa, importatori netti di gas naturale dal 1985 al 2015, dal 2016 sono esportatori netti. Una leadership di mercato che ha un forte impatto ambientale, dato che il fracking (fratturazione idraulica) è molto oneroso in termini di emissioni. Eppure, ieri c’è stato chi ha voluto ricordare che anche l’Italia avrebbe dovuto sfruttare fino in fondo tutti i giacimenti di gas, anche quelli più delicati, anche usando tecniche come il fracking: «La nostra follia è stata scegliere di non usare il gas che potremmo estrarre nel nostro paese, e che col referendum del 2016 abbiamo deciso di non usare. Questo è il vero fallimento del sistema paese» ha affermato in un’intervista Davide Tabarelli, presidente Nomisma Energia.
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Incontro teso a Teheran con l’ambasciatrice italiana: l’Iran lamenta l’arresto di Abedini e si irrigidisce. I genitori di Cecilia Sala chiedono il silenzio stampa. La liberazione della giornalista resta legata a quella dell’ingegnere iraniano. La scelta spetta al governo
L'ultima parola Le lamentele e gli alibi di Teheran con l’ambasciatrice Amadei. «Situazione preoccupante». I timori italiani sulle trattative. Il ricercatore Abedini dal carcere: «Prego per me e per lei». La decisione sui domiciliari il 15 gennaio
L’ambasciatrice italiana in Iran Paola Amadei – Ansa
L’incontro avvenuto ieri mattina a Teheran tra l’ambasciatrice italiana Paola Amadei e il direttore generale per l’Europa occidentale del ministero degli Esteri dell’Iran Majid Nili Ahmadabadi non viene commentato dalla Farnesina. Solo una voce, informalmente, commenta il resoconto diffuso attraverso l’agenzia di stampa Irna che riporta la sola versione dalla Repubblica Islamica: «Sono le loro posizioni, forti come sono le nostre. È un botta e risposta». È il gioco della reciprocità che caratterizza questa difficile fase della trattativa.
L’IRAN ha convocato Amadei per esprimere le sue rimostranze sul caso dell’arresto in Italia di Mohammed Abedini, senza fare alcun cenno alla situazione di Cecilia Sala, detenuta nel carcere di Evin dal 19 dicembre. Il timore della vigilia è che le «comunicazioni» annunciate fossero la formalizzazione dell’accusa, tanto infondata quanto clamorosa, di spionaggio a carico della reporter. Non è detto, ad ogni modo, che non avverrà in futuro, andando ad alzare la tensione oltre ogni livello di guardia immaginabile. Del resto, come già raccontato dal manifesto, in Iran quello di Sala è definito come un caso di «sicurezza nazionale».
Ma di questo, per fortuna, ieri non si è parlato. Ahmadabadi si sarebbe per così dire limitato a intimare all’Italia di respingere «la politica statunitense di presa di ostaggi iraniani» e rilasci subito il connazionale prigioniero a Opera, arrestato «su richiesta del governo degli Usa e in linea con i suoi comprovati obiettivi politici e ostili di tenere in ostaggio i cittadini iraniani in ogni angolo del mondo imponendo l’attuazione extraterritoriale delle sue leggi». Il rischio, secondo gli iraniani, è che «gli Stati Uniti» danneggino «le relazioni bilaterali tra Teheran e Roma», che in effetti sono sempre state buone. Non solo, il caso Abedini si configurerebbe anche come una violazione dei «principi e degli standard del diritto internazionale, comprese le norme sui diritti umani, e può essere considerato una forma di detenzione arbitraria».
E QUESTA è la botta. Quanto alla risposta, niente di niente. Anche se era inizialmente previsto che la Farnesina rilasciasse una nota ufficiale. La decisione di non farlo è dovuta alla richiesta dei genitori di Cecilia Sala: «silenzio stampa» perché la situazione è «complicata e molto preoccupante» e richiede
Leggi tutto: L’Iran alza la posta, i genitori di Cecilia Sala chiedono silenzio - di Mario Di Vito
Commenta (0 Commenti)TUTTO SUL FOSSILE Il metanodotto di Popoli passa attraverso aree di uso civico interessando il più grande bacino imbrifero regionale. Proteste a Ravenna e Savona per gli impianti nei rispettivi porti
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Sull’albero di Natale che sta facendo il giro di Savona (fino al 6 gennaio è di fronte al ristorante-focacceria Bella Recco) i messaggi sono chiari: «Fermiamo il mostro», «ostacola la transizione ecologica», «impianto a rischio di incidente rilevante». Sono i messaggi dei cittadini contrari alla realizzazione di un rigassificatore offshore a pochi chilometri dalla costa ligure, tra il capoluogo e Vado Ligure, un’infrastruttura che rischia di avere un impatto negativo anche sul Santuario internazionale dei mammiferi marini Pelagos, area protetta di circa 96mila chilometri quadrati istituita con un accordo internazionale, firmato nel 1999 da Italia, Francia e Principato di Monaco, per la protezione dei mammiferi marini e del loro habitat.
Il rigassificatore che arriverebbe in Liguria è quello finora piazzato a Piombino, in Toscana, dove a dicembre è attraccata la 50esima nave da quando l’impianto è entrato in funzione: la nave rigassificatrice si chiama Italis Lng di proprietà di Snam, l’ex monopolista pubblico del gas, oggi controllato da Cassa depositi e prestiti con una partecipazione della compagnia cinese State Grid Corporation of China.
L’ultimo carico arrivato dall’Algeria è pari a 164mila metri cubi di gas naturale liquefatto. L’infrastruttura è in funzione da luglio 2023 e a oggi, informa Snam, «il totale immesso in rete dalla Italis Lng è pari a circa 4,3 miliardi di metri cubi di gas». Il dato complessivo è quindi inferiore alla capacità di rigassificazione di 5 miliardi di metri cubi l’anno, una quantità che sarebbe pari a circa un sesto dei volumi importati negli ultimi anni dalla Russia ovvero l’8% del fabbisogno nazionale. Una quantità, insomma, cui l’Italia potrebbe ovviare riducendo i consumi, cosa che in effetti sta avvenendo negli ultimi anni.
Un conflitto sociale parallelo a quello ligure – i cui cittadini a luglio 2024 sono stati protagonisti di una lunga catena umana in spiaggia per ribadire il proprio no – va avanti a Ravenna, dove sono in corso di realizzazione le infrastrutture per collegare un secondo rigassificatore alla rete metaniera nazionale. A fine dicembre, sempre Snam ha informato che è arrivata in Italia la nave BW Singapore, che dovrebbe entrare in funzione nell’area portuale nella primavera di quest’anno. Per l’amministratore delegato di Snam, «l’arrivo della nave in acque italiane è un ulteriore tassello della strategia di diversificazione delle forniture di gas avviata nel 2022, che ha consentito di affrontare con successo la crisi energetica derivante dal conflitto russo-ucraino, anche grazie al contributo del Gnl».
Ravenna, intanto, è stata nel 2023 la seconda città italiana per consumo di suolo, complice il cantiere per la realizzazione del metanodotto. E se il Pd in Liguria ha manifestato in piazza con i cittadini, contro un intervento voluto dalla giunta Toti, in Emilia-Romagna l’ex sindaco di Ravenna De Pascale (oggi presidente della Regione) ha sempre sostenuto l’intervento Snam: una schizofrenia che non tiene conto dei dati reali, che vedono i consumi di gas in Italia in calo del 30% negli ultimi vent’anni. C’è questa considerazione anche dietro la mobilitazione dei cittadini di Sulmona e dell’Abruzzo, che protestano contro il famigerato gasdotto della Linea Adriatica che dovrebbe collegare il sud Italia attraverso lo snodo abruzzese con Minerbio, in Pianura Padana. Nella bella cittadina della Valle Peligna che ha dato i natali al poeta latino Ovidio la mobilitazione va avanti da quasi un decennio, in rete con le tante organizzazione che in tutta Italia fanno parte della rete Per il clima, fuori dal fossile.
L’ultima denuncia presentata riguarda il taglio di 317 alberi di ulivo, sacrificati da Snam per la costruzione della centrale di compressione a Case Pente. In nome di una presunta emergenza energetica, «nella sola Valle Peligna andranno persi circa 100 ettari di terreno agricolo. La provincia de L’Aquila e una parte di quella di Pescara saranno attraversate dal metanodotto per 106 chilometri. Ciò significherà la perdita di centinaia di ettari non solo di terreni agricoli ma anche di boschi. In diverse aree, come a Paganica, la presenza molto estesa dell’uso civico con le relative tartufaie rappresenta una consistente risorsa per la popolazione, una risorsa pesantemente colpita. A Popoli il metanodotto interessa non solo aree di uso civico ma anche il più grande bacino imbrifero regionale. Il progetto Snam – denuncia il comitato – prevede un tunnel di 1,6 chilometri tra Popoli e Collepietro, il che comporta un elevato rischio di alterazione della falda idrica». Altro che transizione.
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Bolletta di guerra Nonostante il conflitto, i consumi europei nel corso del 2024 sono addirittura aumentati toccando quota 17% di import dalla Russia. In Transnistria restano in funzione solo le attività del settore alimentare per il sostentamento della popolazione
Chiusi definitivamente i rubinetti del gas, proseguono le polemiche. A rincarare le recriminazioni retoriche di Mosca sulla decisione da parte di Kiev di non rinnovare il contratto con Gazprom, e dunque di sospendere le forniture russe attraverso l’ultima conduttura attiva sul territorio ucraino, ci ha pensato ieri la portavoce del ministro degli esteri Maria Zacharova: «È una mossa che diminuisce il potenziale economico dell’Europa e che andrà a intaccare la qualità della vita dei cittadini europei. Dietro la decisione dell’Ucraina ci sono ovviamente gli Usa, principali beneficiari della redistribuzione del mercato energetico sul territorio europeo».
È VERO che, per quanto si trattasse di uno sviluppo atteso da settimane, lo stop drastico del primo gennaio sta causando diverse difficoltà sui mercati e presso alcuni paesi limitrofi al teatro di guerra, come la Moldova. Qui a risentire dell’assenza del gas russo è soprattutto la regione indipendente de facto della Transnistria, che era fortemente dipendente da Mosca e la cui centrale di Kuchurgan produce l’80% dell’elettricità di tutto il paese. Non a caso, la repubblica centro-orientale ha dichiarato lo stato di emergenza lo scorso 19 dicembre per fronteggiare la crisi energetica in arrivo e aveva provato a negoziare con Gazprom il mantenimento della fornitura (la quale, invece che dall’Ucraina, sarebbe potuta passare per il gasdotto di Turkstream). Tuttavia, l’esistenza di un contenzioso di lunga data fra Moldova e Russia rispetto ai debiti accumulati dal 1991 al 2021 per l’approvvigionamento di gas (sarebbero oltre 700milioni di dollari, che però Chisinau riconosce solo in parte) è servita da pretesto a Gazprom per opporre un netto diniego.
COSÌ IN TRANSNISTRIA sono iniziati disagi e carenze energetiche: le autorità locali riferiscono di numerosi edifici senza riscaldamento, abitazioni disconnesse dal sistema e dell’interruzione di diverse attività produttive (sarebbero rimaste in funzione solo quelle legate al settore alimentare, per garantire il sostentamento della popolazione). Inoltre, ieri, anche dodici cittadine sotto il controllo del governo centrale sono rimaste senza gas naturale. Un reportage di Radio Free Europe parla di situazione «non critica» ma riferisce che le persone si stanno adattando a una nuova realtà fatta di maggiori privazioni. Nonostante i rapporti non idilliaci, Chisinau e Tiraspol stanno dunque provando a collaborare per ridurre l’impatto del disaccoppiamento dal gas russo. Le aziende energetiche delle due parti hanno fatto sapere che sono pronte a trovare nuove fonti di approvvigionamento, è già stato effettuato un test per il transito dal Balkan Gas Hub della Bulgaria. La Romania, inoltre, ha annunciato che ci sarebbe il via libera dall’Europa per raddoppiare la quota di import verso la Moldova mentre a Bruxelles si è tenuta una riunione straordinaria del gruppo di coordinamento sul gas, da cui sono arrivate ulteriori rassicurazioni: «Non sussistono difficoltà di approvvigionamento o di sicurezza». Ma la «controffensiva ucraina» sul gas russo potrebbe non limitarsi alla chiusura del gasdotto.
SE L’EUROPA ha effettivamente ridotto la propria dipendenza energetica da Mosca nel corso del guerra, le importazioni di gas liquefatto dalla Federazione sono invece addirittura cresciute nel corso del 2024, toccando la cifra record del 17% sul totale della risorsa. Il ministro degli esteri ucraino Andrii Sybiha l’aveva definita qualche giorno fa una «situazione inaccettabile», chiedendo pubblicamente che si ponesse fine anche a quest’altra forma di sostegno finanziario al paese aggressore. Sullo sfondo, speculazioni e fluttuazioni internazionali: sul mercato di Amsterdam il prezzo del gas naturale si è alzato del 4%, toccando un nuovo picco dallo scorso ottobre.
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