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L'intervento conclusivo del segretario generale della Cgil alla manifestazione unitaria Cgil, Cisl e Uil in Piazza San Giovanni

 

Cgil, Cisl e Uil in piazza per il futuro del Lavoro


 
 

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Migliaia di manifestanti hanno riempito le strade della capitale dietro le parole d’ordine #FuturoalLavoro. Una mobilitazione proclamata unitariamente da Cgil, Cisl e Uil a sostegno della piattaforma unitaria con la quale le tre confederazioni avanzano le loro proposte e per chiedere al Governo di aprire un confronto serio e di merito sulle scelte da prendere per il futuro del Paese.

Tutto il mondo del lavoro è sceso in piazza per rivendicare la creazione di lavoro di qualità, investimenti pubblici e privati a partire dalle infrastrutture, politiche fiscali giuste ed eque, rivalutazione delle pensioni, interventi per la tenuta sociale del Paese, a partire dal welfare, dalla sanità, dall’istruzione, dalla Pubblica Amministrazione e dal rinnovo dei contratti pubblici, maggiori risorse per i giovani, le donne e il Mezzogiorno.

Un corteo pacifico e colorato. Palloncini, bandiere e striscioni hanno invaso le vie del centro di Roma, hanno sfilato fianco a fianco lavoratori e lavoratrici di tutte le categorie, giovani, donne, pensionati e migranti (ascolta – leggi). All’arrivo del corteo in Piazza San Giovanni in Laterano, quando la coda era ancora a Piazza della Repubblica, hanno preso la parola dal palco: una infermiera del 118, una pensionata, un rider, un delegato dell’ex Ilva di Taranto, una delegata della scuola e un lavoratore di un’impresa edile (ascolta).

A concludere la grande giornata di mobilitazione gli interventi dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Maurizio Landini, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo.
“È davvero uno spettacolo questa piazza così piena, così grande. E c’è ancora gente che deve mettersi in marcia per il corteo”. Queste le prime parole del segretario generale della Cgil Maurizio Landini dal palco, “in tanti mi chiedono – ha aggiunto – quanti siamo oggi. Ci sono troppi che danno i numeri in questo Paese: a loro dico, a questo punto, contateci voi”. “A quelli del governo dico: se hanno un briciolo di intelligenza ascoltino questa piazza e aprano il confronto. Noi siamo il cambiamento”. (leggi – ascolta).

 

 

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No presidente Mattarella, davvero no. Io sono fra quelli che hanno sempre avuto per lei massima stima, ma credo che questa volta lei sia davvero in errore.

Dare legittimità a Guaidò è contro ogni regola democratica, significa opporsi alla posizione assunta dalle Nazioni unite che, con tutte le sue debolezze, è però tutt’ora una delle poche istituzioni che ci garantiscono il rispetto, almeno formale, di qualche diritto internazionale.

Significa rifiutare la ragionevole proposta di dialogo avanzata da papa Francesco che è uno che l’America latina la conosce molto bene.

Temo ci sia, sul Venezuela e la sua crisi, una grande disinformazione.

Bisognerebbe forse ricordare che quelli che oggi sostengono questo signore autoproclamatosi presidente (fra cui la notoriamente pessima rappresentanza della comunità italiana) sono stati coloro che un golpe l’hanno fatto nel 2002 contro il presidente democraticamente eletto del Venezuela, Hugo Chavez. Lo arrestarono, addirittura, e c’è un bel documentario trasmesso allora dalla Bbc, che consiglierei di proiettare al Parlamento europeo a Bruxelles, in cui si vedevano i golpisti su un palchetto, un insieme che sembrava tratto dal famoso affresco di Diego Rivera nel

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Economia. Produrre di più con meno persone, un modello che oggi raschia il fondo del barile e blocca il sistema sotto i colpi di uno sviluppismo che crea debito e bassi salari

Dopo tanto criticare, più o meno sensato, da parte degli “sviluppisti” di ogni forma e colore alla decrescita felice alla Latouche, siamo entrati a gonfie vele nell’età della decrescita infelice. Mentre i politici e la maggior parte degli economisti studiano i modi per far crescere il Pil, il Pil non cresce, non solo in Italia, ormai tecnicamente in recessione, ma nemmeno in quelle che sono state in Occidente le locomotive della crescita che abbiamo alle spalle. Emerge una verità scandalosa.

Che la crescita e la cultura economica e politica che l’ha animata, non solo distruggono ambiente e territorio ma non producono nemmeno maggior sviluppo. In molti avevano provato a spiegarcelo. Il ciclo del consumismo dissennato che aveva trainato la crescita degli anni felici si è inesorabilmente bloccato. Produrre di più con meno persone al lavoro- questa è stata la ricetta della produttività e della competitività nei paesi dell’Occidente e questo è stato il modello che si è provato a imporre al mondo intero- alla fine raschia il fondo del barile.

Se diminuiscono i salari e il numero di chi li percepisce, è impossibile tenere alto il livello dei consumi. La finanziarizzazione dell’economia, che ha permesso per un po’ alle persone e agli Stati di comprare indebitandosi, si è bloccata, travolta dall’insolvibilità dei debiti che essa stessa ha sollecitato. Se lo sviluppo continuerà ad essere misurato sul Pil e sulla crescita dei consumi probabilmente lo sviluppo si è bloccato per sempre. E se le persone continueranno a vedere nel possesso di beni la chiave per la felicità sono destinate ad essere sempre più infelici.

Nel frattempo si fa strada una ragione ancora più profonda di insicurezza e di infelicità. La preoccupazione per il riscaldamento climatico, per l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, per la fragilità del territorio rispetto ai sempre più frequenti “eventi estremi”. Secondo un recentissimo sondaggio Swg, riguarda l’81% degli italiani. E si comincia a capire come ci sia un rapporto stretto fra il degrado ambientale e la cementificazione del territorio e l’uso privilegiato delle energie fossili.

Nonostante tutte le prediche sullo sviluppo sostenibile i dati in proposito ci dicono che l’unico stop significativo all’aumento del CO2 nell’atmosfera è avvenuto negli anni peggiori della crisi economica. E però gli esponenti del partito del Pil, trasversali a tutti gli schieramenti politici, continuano a progettare una crescita basata sull’intensificazione dell’uso dei combustibili fossili, magari a prezzi più bassi per difendere la competitività delle nostre imprese. E a progettare grandi infrastrutture considerando come una variabile secondaria il loro impatto sul territorio e sulla vita di chi ci abita. Uomini, animali, piante. In nome di una crescita trainata dall’ulteriore intensificarsi degli scambi di merci, anche quando i numeri ci dicono che questi scambi stanno rallentando.

Persino chi dentro il governo sembra più sensibile alle ragioni dell’ambiente, il Movimento 5Stelle, finisce per giustificare una misura come il reddito di cittadinanza come ossigeno necessario alla crescita del Pil, e a vaneggiare su un nuovo miracolo economico alle porte, la cui prevedibile assenza alimenterà ancora di più l’infelicità futura. I sovranisti autoritari- da Trump a Salvini- contrappongono l’occupazione alla lotta al riscaldamento climatico. L’ambientalismo, come l’accoglienza dei migranti, è una roba da ricchi, per chi ha la pancia piena. E propongono vecchie ricette che distruggono l’ambiente e la dignità del lavoro.

E non costruiscono lavoro stabile, perché nessun lavoro dura se contribuisce a distruggere il mondo in cui viviamo.

Basterebbe guardarsi intorno per vedere le macerie che un’idea dissennata della crescita ha provocato. La speculazione edilizia ha prodotto centinaia di mega edifici vuoti, che non trovano compratori. Accanto agli scheletri dei capannoni industriali cominciano a comparire gli scheletri dei supermercati abbandonati.

L’assenza di una cultura del riciclo, del riuso, della manutenzione, nell’epoca dell’usa e getta applicato alle cose e alle persone, ci presenta un conto salatissimo. Accanto alle lavatrici, ai frigoriferi, ai computer gettati in discarica, cominciano a comparire le macerie dei ponti, delle scuole, delle strade.

La ragione e l’esperienza dovrebbero insegnarci che la vecchia strada è bloccata e che bisogna intraprenderne una nuova. Ma la ragione e l’esperienza non bastano, ad una economia e a una politica che si ritrae di fronte alla possibilità di immaginare un futuro diverso, in cui la buona vita, la cura dei beni comuni, la salute e l’istruzione prendano il posto del Pil come misuratore del benessere delle persone e dei territori . Contro il senso comune che ci inchioda al vecchio mondo che muore.

 

 

 

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Intervista al sociologo. Il professore: il leghista si è mangiato M5S, cita il fascismo e presto pretenderà Palazzo Chigi. Il ministro dell’interno è il leone che ha preso la gazzella e la sbrana un pezzo alla volta. Ma oggi non c’è alternativa: Renzi ha cambiato il Pd, finirà in milioni di schede bianche

Ha studiato i 5 stelle, ha fatto ricerche per loro, ne ha apprezzato il potenziale. Poi per primo li ha avvertiti che se avessero fatto il governo con la Lega sarebbero finiti «mangiati». Il sociologo Domenico De Masi ha appena dato alle stampe «Il mondo è ancora giovane» (Rizzoli), una lettura carica di speranza. Con un’avvertenza finale, una condizione: «Se non andiamo a sbattere in un fascismo».

Professore, la Lega si è mangiata i 5 stelle, anche nella vicenda Diciotti si sono consegnati a Salvini?

Gli scontri ci sono tutti i giorni, ma ormai l’esito si può quantificare. All’inizio Salvini aveva il 17% e Di Maio il 33. Ora le parti sono inverse. Mai in Italia, forse al mondo, un partito ha raddoppiato i consensi stando al governo e in soli 8 mesi. Continuerà così. Salvini è il leone che ha preso la gazzella, la tiene ferma e se la mangia un pezzo alla volta.

E dopo il banchetto?

Salvini esibisce il suo piano. Va in giro vestito da militare. Cita apertamente il linguaggio fascista: ’molti nemici molto onore’. Umberto Eco elenca 14 elementi per riconoscere la propensione all’autoritarismo, all’Ur-fascismo, il fascismo eterno. Salvini li ha tutti. E così gli elementi che Adorno individua nella personalità autoritaria. E quelli di Talcott Parsons. Per ora in dose pediatrica. Ma il decreto sicurezza vieta gli assembramenti e punisce i mendicanti: altri fascismi l’hanno fatto dopo la presa del potere. Qui prima.

Salvini si avvia alla ’presa del potere’?

Se alle europee avesse un successo smaccato, come quello che dette alla testa a Renzi, non tarderebbe a porre il Colle a un bivio: o Palazzo Chigi o il voto. Non continuerebbe a fare ’solo’ il vicepremier. A quel punto il lavoro sporco non lo farebbe più lui. Non a caso blandisce formazioni come Casapound.

Il ’lavoro sporco’ è costruire il consenso sulla pelle dei migranti, come in queste ore?

Questi episodi sono un effetto. Il fenomeno è che in Italia c’è il 35 per cento degli elettori che è d’accordo. Il metodo con cui Salvini lo snida è rozzo: tenendo migranti al gelo su una nave, portando via dalle scuole i bambini. Cose che non possono non evocare come i fascisti si comportarono con gli ebrei. Quello di Salvini è un linguaggio. Così il suo linguaggio ’vestimentario’, l’uso delle divise. Significa: se io avessi il potere lo eserciterei in modo militare. Ma il modo militare in caserma è democratico, nella società è fascismo. E poi vuol dire alle forze armate: state pronti, sono la persona giusta.

E l’altro 65 per cento che fa?

Questo è il punto. Il fascismo è la miscela che rende complici quelli che consentono la presa del potere. L’ho osservato in Brasile, che frequento da trent’anni. Bolsonaro non si è camuffato: in tv ha detto che era contro la parità, a favore della tortura, ha invitato gli studenti a filmare i professori che parlano di politica e a fare delazione. La sinistra ragionevole e colta, per non votare Pt, ha votato scheda bianca. Milioni di voti persi. Il Brasile oggi ha 7 ministri militari.

L’Italia rischia uno scenario del genere?

E cosa ci fa credere di avere gli anticorpi? Ci siamo cullati nell’idea che due cose non potessero mai succedere: il ritorno del fascismo e quello della guerra. Ma la storia dimostra che questi fenomeni sono ricorrenti. Camus racconta che i germi della peste non muoiono, si nascondono nei cassetti.

In molti contestano, qui e oggi, l’uso della parola ’fascismo’.

A differenza di altri autoritarismi, il fascismo è diventato un aggettivo ed è stato usato per la Spagna franchista, per l’Argentina della dittatura, per la Grecia dei colonnelli. Uso questo termine per definire un regime in cui la Costituzione non viene rispettata, in cui il volere del capo prevale su tutto, i dissidenti sono puniti, c’è un culto della tradizione, della patria, il rifiuto della critica, la paura della diversità, il disprezzo per le minoranze, il machismo. Ogni giorno siamo più assuefatti.

E i 5 stelle?

Sono stati un baluardo.

M5s un baluardo?

Tenue, ma baluardo. Sono gli unici con cui Salvini ancora deve trattare. Ora quelli di destra passeranno con Salvini, quelli di sinistra resteranno sbandati e si asterranno. Il Pd è troppo lento nel modificarsi, e forse non ha la consistenza culturale per farlo. È un partito apparentemente di sinistra ma a tutti gli effetti neoliberista, non attrae quelli che abbandonano i 5 stelle.

Il Pd non è socialista, è neoliberista?

Renzi ha emarginato i sindacati, ridotte le tasse, condonato i capitali esteri, abolito l’art.18. Un programma neoliberista.

Insomma c’è una base sociale, un popolo di sinistra ma non c’è una sinistra politica, un partito, un riferimento?

In piazza contro la sindaca Raggi a Roma c’era gente per cui una manifestazione politica è un’increspatura superficiale senza consapevolezza. Qualcuno si rende conto che se salta la Raggi arriva la Meloni? O la Lega? In Italia l’alternativa non c’è. Renzi ha provato a fare un’operazione deleteria nel Pd, allontanare la sinistra e attirare i berlusconiani. È riuscito solo nella prima parte. Oggi rimettere insieme pariolini progressisti e sottoproletari è difficile. E dire che c’è un nemico comune. Qualcosa si muove. Ma troppo lentamente rispetto alla velocità con cui Salvini va al potere.

Prevede la destra al potere per un periodo lungo?

È la sinistra che ha tempi lunghi. Ci sono schegge di sinistra ovunque, persone sfruttate a cui la sinistra non ha fatto pedagogia. E così anche gli sfruttati stanno con gli sfruttatori. Marx la chiama alienazione. C’è una mousse di sinistra abbastanza intellettuale da essere scettica, ma non così tanto da essere colta. Sarà quella che ci regalerà il fascismo votando scheda bianca.

 

 

 

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Intervento pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 26 gennaio 2019

Il pregio del Manifesto di Calenda è aver aperto un dibattito; il difetto averlo impostato su presupposti confusi e discutibili. Un fronte indistinto – che lui definisce liberal-democratico – in una competizione proporzionale sarà facile bersaglio della propaganda gialloverde, facendo loro il regalo di trasformare le elezioni europee in un referendum sull’Europa.
Da giorni ripete “no a quelli Leu”, eppure tra i promotori c’è Enrico Rossi, fondatore di Mdp, che con altri ha dato vita a LeU. Sostiene poi che debba essere escluso chi cerca alleanze nazionali con Lega o M5S. LeU non ha questa intenzione, ma ritengo sia stato un 
errore politico grave non avviare dopo le elezioni un dialogo col M5S: per vedere le carte di un possibile bluff e per non consegnare larga parte di elettorato grillino alla Lega, come è avvenuto (stessa posizione di Martina, altro entusiasta firmatario).
Vista la stima che nutro per Calenda voglio rassicurarlo: 
non aderirò al suo manifesto.
Nella carta dei valori di Liberi e Uguali c’è un concetto a me caro: cambiare il mondo, non aggiustarlo. È indubbio che il centrosinistra, in Italia come in Europa, abbia adottato ricette neoliberiste: in una spirale perversa la politica è stata sopraffatta dall’economia e questa, a sua volta, dalla finanza. Il risultato ci mostra cittadini indifesi di fronte alla ricchezza e al potere di pochi. Calenda denuncia le diseguaglianze e invoca nuove politiche per la crescita e lo sviluppo, ma avendo avuto ruoli importanti negli anni, dal sostegno all’agenda Monti ai successivi incarichi, l’autocritica non basta ad assegnare patenti di novità, eventualmente di trasformismo. Bastano gli esempi dell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, l’acquiescenza ai diktat tecnocratici sull’austerità e il Jobs Act. Puntare poi, come si afferma nel manifesto,

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Si avvicina il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione del lager di Auschwitz da parte dell’armata rossa, che, con una legge del 2000, è stato istituito come “Giorno della Memoria” «al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei».
In occasione del Giorno della Memoria, la legge richiede che siano organizzate iniziative e incontri, in particolare nelle scuole «in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia, affinché simili eventi non possano mai più accadere». Come gli anni precedenti, anche quest’anno si organizzano iniziative e incontri e sugli schermi televisivi passano film che ci rammentano la discesa dell’umanità nell’inferno dei campi di sterminio.
In un paese smemorato come il nostro è essenziale coltivare la memoria, che però ha un senso solo se da essa possiamo trarre degli insegnamenti che ci aiutino a orientarci nel tempo presente, altrimenti si risolve in un mero rito necrofilo, come rinnovare le corone di fiori sui monumenti ai caduti o spolverare le lapidi. Se c’è una cosa che bisogna evitare in questa grigia alba del 2019 è quella di celebrare gli eventi del passato, enucleandoli dal presente. Invece, come osservò Alberto Asor Rosa: «Nostro compito non è ricordarlo (l’olocausto), ma pensarlo. Ricordarlo in quanto avvenimento storico è semplice: difficile è pensarlo nella tragica simultaneità e perennità dei suoi significati possibili».
E allora dobbiamo ricordare che il terreno che ha generato l’olocausto è stato seminato da una politica che ha costruito la discriminazione e l’esclusione sociale, che ha spezzato il vincolo di unità della famiglia umana, separando il destino degli uni dagli altri. Questa politica ha prodotto le leggi di Norimberga in Germania nel 1935 e le leggi razziali in Italia nel 1938 e ha istituito gli stranieri (gli ebrei, considerati un corpo estraneo alla popolazione tedesca e – di riflesso – a quella italiana) come nemici pubblici, responsabili di ogni malessere dei ceti popolari. Dopo vennero la notte dei cristalli, la guerra, i rastrellamenti, i campi di sterminio.
In un differente contesto storico e istituzionale stanno ritornando in tutt’Europa, e specialmente in Italia, i veleni di una politica protonazista, che si esprime in una ostilità per lo straniero, in un ostracismo per il diverso, in una caduta delle garanzie giuridiche, in un daltonismo sociale che non ha occhi per il colore della pelle degli altri. Questi veleni si insinuano nel corpo sociale e ci rendono indifferenti al dolore degli altri.
Ciò consente a un ignobile ceto politico di aggirare i vincoli costituzionali e di adottare misure persecutorie verso il popolo dei migranti, di spingere fuori dalla legalità anche quelli che sono regolari, di emanare norme come il c.d. decreto sicurezza che, al di là della criticabilità delle singole disposizioni, è governato dallo stesso spirito di discriminazione che ispirava le leggi razziali.
La persecuzione, alla fine produce morte. L’Oim, l’Organizzazione per le migrazioni dell’Onu, stima che da inizio anno sono quasi duecento i morti o i dispersi nel Mediterraneo: negli ultimi 5 anni sono stati 17.644. La responsabilità di questo genocidio è dell’intera Europa, ma il nostro paese sta dando un forte contributo delegando il “salvataggio” agli aguzzini libici e vietando lo sbarco alle navi che soccorrono i naufraghi.
È rimasta famosa la frase disperata e profetica che il pastore tedesco Dietrich Bonhoeffer (ucciso dai nazisti nel lager di Flossemburg il 9 aprile 1945) pronunciò  dopo “la notte dei cristalli” del 9 novembre 1938: «Solo chi grida per gli ebrei può cantare il gregoriano». Parafrasando Bonhoeffer potremmo dire: solo chi grida per gli immigrati può cantare nel giorno della memoria.

Domenico Gallo
da: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=26590

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