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Salone del Libro. Lo scandalo più grande, non è solo lo sfregio che lo stand fascista porta a Torino, ma quello, enormemente più grave e intollerabile, all’intero Paese, rappresentato da un ministro della repubblica che da quell’editore filo-fascista e filo-nazista pubblica

di Marco Revelli (da “il Manifesto del  08.05.2019)

La presenza fascista nella più importante manifestazione editoriale italiana non è un «fatto culturale». È un oltraggio alla cultura. Chiedere alle vittime e ai loro eredi di condividere lo stesso spazio con i loro carnefici (e i loro eredi) non è atto voltairiano di libertà di pensiero.
Ma un gesto di disumanità e di apatia morale intollerabile. Hanno ragione i rappresentanti del Museo di Auschwitz quando richiamano le istituzioni «proprietarie» dell’evento – il Governatore del Piemonte e la Sindaca di Torino in primis – alle loro responsabilità per rimediare alla precedente pilatesca passività. Così come ha ragione – mille volte ragione – quella parte del mondo della cultura che si mobilita di fronte all’oltraggio a quella che è la (residua) dignità degli intellettuali, lacerandosi, certo, dividendosi tra posizioni che hanno, a mio modo di vedere, pari dignità, tra chi intende esprimere la propria indignazione con il rifiuto della propria partecipazione (con l’idea che questa suonerebbe come accettazione). E chi invece intende esserci con la propria combattiva presenza (con l’idea che non esserci significherebbe lasciare agli altri libero il campo). Entrambi con la consapevolezza della portata della sfida in corso: della minaccia, inedita, che la falla aperta dallo sdoganamento di ciò che la fine della seconda guerra mondiale

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Fascion. Il leghista chiede il ritorno del «grembiulino» nelle scuole e invoca «ordine e disciplina». E fa un comizio dallo stesso balcone del duce

Il comizio di Salvini dal balcone "mussoliniano"  del palazzo comunale di Forlì

Tutto l’armamentario da ducetto. Matteo Salvini nel giro di poche ore passa dal discorso dal balcone del municipio a Forlì alla richiesta di ritorno del grembiule a scuola per riportare «ordine e disciplina» per finire a Montecatini con l’ennesimo accenno alla riapertura delle case chiuse e a Capannori (Lucca) lanciando «la castrazione chimica come cura democratica e pacifica per gli stupratori».

LA CAMPAGNA ELETTORALE del vicepremier e capo leghista è un succedaneo, un distillato, un bignami delle parole d’ordine del ventennio. E allo stesso tempo un tipico esercizio di distrazione di massa in stile berlusconiano, un elenco di slogan e falsi problemi per far parlare delle sue sparate e non affrontare i problemi del paese – come la bambina di Napoli per la quale da ministro degli Interni dice solo «prego per lei» – e della maggioranza in bilico per la poltrona di Siri.

La sparata del giorno è comunque quella sul grembiule: «Nelle scuole elementari e medie va reintrodotto il grembiule o la divisa». Una sparata che si basa su una falsa premessa e su motivazioni finte: «Abbiamo nuovamente previsto l’educazione civica a scuola e vorrei che tornasse il grembiule per evitare che vi sia il bambino con la felpa da 700 euro e quello che l’ha di terza mano perché non può permettersela», dice Salvini durante un breve comizio a San Giuliano Terme (Pisa). Il leader della Lega cita ad esempio la reintroduzione dell’educazione civica – votata all’unanimità alla camera in prima lettura – che in realtà più che il ritorno alla disciplina contiene la conoscenza della Costituzione, spesso disattesa e vilipesa dallo stesso vicepremier, fin dalla scuola dell’infanzia.

Sul ritorno del grembiule i presidi sono scettici e denunciano ben altre priorità per le scuole. «E’ possibile, non mi sembra ci siano problemi particolari nel farlo, certo abbiamo altre priorità, non mi sembra, insomma, una questione fondamentale», commenta il presidente dell’Associazione nazionale presidi (Anp), Antonello Giannelli. «L’emergenza più importante – prosegue il dirigente scolastico – è un’altra: abbiamo solai e controsoffitti delle scuole che andrebbero monitorati, ogni settimana c’è un crollo; a volte si tratta di fatti lievi, a volte cadono interi pezzi di soffitto: questa è una cosa molto urgente su cui intervenire, con un monitoraggio che andrebbe fatto subito e non costa quasi nulla. Invece – osserva ancora Giannelli – si pensa a prendere le impronte digitali ai presidi, una misura che costerà 100 milioni che potrebbero essere dedicati ad altro».

La campagna di conquista delle (ormai ex) regioni rosse va avanti con parecchi segnali contrastanti. I contro comizi di venerdì a Modena, con le pacifiche proteste sedate a manganellate dalla polizia, sono diventati, la stessa sera a Forlì, un coro – «Siamo tutti antifascisti» – che ha sovrastato la voce di Salvini dal balcone del municipio. Lo stesso balcone dal quale Mussolini aveva assistito all’uccisione dei partigiani – impiccati ai lampioni – e aveva tenuto diversi comizi.

«Usare il balcone del municipio su piazza Saffi per parlare a una (per la verità scarsa) platea di un comizio sembra scimmiottare le adunate anteguerra del regime», attacca il sindaco dem uscente, Davide Drei. «Usare la funzione di ministro dell’Interno per utilizzare ogni spazio al di fuori dei regolamenti comunali, confondendo il ruolo istituzionale con quello del segretario di un partito, è un dispetto ai valori costituzionali basilari su cui si fonda l’Italia», continua il sindaco romagnolo.

DI «SFREGIO» ALLA CITTÀ parla anche la Cgil locale: uno sfregio, scrive la segretaria cittadina Maria Giorgini, in particolare «alla piazza intitolata alla memoria di Aurelio Saffi che custodisce il sacrario ai caduti per la libertà a memoria dei 465 partigiani morti per restituire la democrazia e la libertà alla nostra città e al nostro paese».

E un colpo davvero basso Salvini l’ha sferrato venerdì pomeriggio a Reggio Emilia. Dove ha incontrato, fatto selfie e promesse a un gruppo di esodati beffati anche dal decreto Quota 100. Una delegazione dei seimila esclusi dalle 8 salvaguardie post Fornero e ancora senza lavoro e pensione perché sprovvisti dei tantissimi requisiti e paletti fissati dalla Ragioneria generale si sono fatti abbindolare dal vicepremier. E così se poche settimane fa il sottosegretario leghista Durigon dichiarava al manifesto che «secondo l’Inps i seimila esodati non esistono», Salvini ha promesso loro un fantomatico disegno di legge per farli rientrare nell’Ape sociale e andare in pensione a 63 anni. Peccato che nessun disegno di legge, nemmeno quello citato (della leghista Elena Murelli, del 30 aprile) sia agli atti e che gli stessi esodati siano stati ricevuti nei mesi precedenti la campagna elettorale per le politiche con le stesse promesse. La Lega li befferà per la seconda volta.

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GIULIO MARCON, portavoce della campagna Sbilanciamoci!, ha chiarito che anche solo decidendo di completare la fase 1 di acquisto dei primi 26 F35, si tratta di impegnare, stando solo ai prezzi base senza manutenzione e gestione, altri 3,7 miliardi di euro, circa 700 milioni l’anno.
Ma con uno stop totale del programma – come chiederà una nuova mozione parlamentare – si potrebbero risparmiare 10 miliardi.
Questa cifra potrebbe essere impiegata, salvaguardando i posti di lavoro nello stesso settore, per costruire 100 velivoli per l’elisoccorso o 30 Canadair o altri aerei antincendio, oppure mettere in sicurezza 5 mila scuole o realizzare mille asili.
 
 
 
 
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Venezuela. Abituati al più drammatico incipit sul «colonnello Aureliano Buendia...» di Cent’anni di solitudine, è sicuro che Guaidó passerà non alla storia latino-americana ma tout-court al costume: si potrà dire infatti d’ora in poi che una cosa annunciata come vera in realtà è «alla Guaidó», oppure «Gran Varietà Guaidó»

Non ci sono più, per Washington, quegli affidabili Pinochet di una volta. Il golpe tanto auspicato dalla Casa bianca e, di sottecchi, da molti governi europei, con in Italia Salvini plaudente e l’appoggio del confinante fascista Bolsonaro, annunciato poi dai media di mezzo mondo, si è alla fine rivelato una bolla di sapone.
Ora gira la voce che di una «farsa» si sarebbe trattato, con i «russi» che avrebbero giocato a Guaidó e agli americani un brutto tiro, facendo arrivare notizie false di un improbabile compatto schieramento dell’esercito con l’autoproclamato presidente ad interim, ma talmente convincente da fargli proclamare la «rivolta militare» per «l’Operazione libertà definitiva».

Abituati al più drammatico incipit sul «colonnello Aureliano Buendia…» di Cent’anni di solitudine, è sicuro che Guaidó passerà non alla storia latino-americana ma tout-court al costume: si potrà dire infatti d’ora in poi che una cosa annunciata come vera in realtà è «alla Guaidó», oppure «Gran Varietà Guaidó».
Non dimenticando che solo tre mesi fa Juan Guaidó, un signor nessuno formatosi alla scuola di rivolte sanguinose quanto fallite di Otpor (dalle molte primavere arabe alla Georgia, all’Ucraina) e diventato per caso presidente dell’Assemblea nazionale, si è autoproclamato presidente della repubblica ad interim, subito riconosciuto dagli Usa e dall’Unione europea.

Che ha consentito al sequestro di Londra di dieci miliardi della divisa di Stato venezuelana derivati dal commercio del petrolio, ma inviando «ben» 20 milioni in derrate alimentari alla frontiera di una paese, la Colombia, in crisi nera ma taciuta. Tutti questi ricatti e «aiuti» non hanno prodotto alcun risultato, se non impoverire ulteriormente i venezuelani e alimentare la propaganda. Tutti contro Maduro, inesorabilmente, «dittatore» nonostante che in quel Paese dall’avvento di Chavez nel 1998 a oggi, di elezioni – supervisionate spesso da osservatori internazionali – politiche, amministrative, presidenziali, ce ne siano state almeno 25, tutte vinte dal chavismo e due – tra cui le ultime politiche – invece perse. Sempre non spiegando come sia possibile che esista in una «dittatura» un parlamento eletto, una Costituzione – sulla quale ha giurato anche Guaidó – e una Assemblea costituente.

Ma per passare dal faceto al serio, non possiamo dimenticare che quest’ultimo alzamiento è una tragedia e prelude al peggio. Anche se resta vero che le vittime del tentato colpo di Stato alla fine sono due e decine i feriti, e se ci guardiamo attorno la guerra tra gang a Londra nelle ultime 24 ore e l’ultimo, ordinario mass shooting in un campus universitario Usa, ne hanno fatte molte di più.

È una tragedia perché insiste su una situazione di indubbia crisi aperta, per un paese nevralgico del mondo globalizzato: è la riserva petrolifera del pianeta, ed ha avviato da venti anni una trasformazione socialista della società che chiama «bolivariana» che aveva sollevato dalla miseria milioni di persone. I due termini però sono entrati in conflitto fra loro: l’estrattivismo, il petrolio come fondamento dei processi redistributivi e centralità organizzativo-burocratica, si è rivelato una maledizione quando il costo del barile è precipitato, e insieme uno strumento non sufficiente per sviluppare i grandi progetti sociali avviati; e, invece, si è appalesato come un meccanismo riproduttivo di una vasta corruzione.

La morte di Chavez nel 2013 ha fatto il resto. Chavez, che all’inizio del suo avvento sulla scena, sembrava nient’altro che un caudillo, un militare al potere ma di sinistra, si è in realtà rivelato come l’artefice di una svolta che prevedeva forme di democrazia progressiva, con tanto di nuova Costituzione bolivariana, dentro un processo che ha avviato una modifica dei rapporti di produzione e di proprietà; oltre che essere diventato un leader molto popolare, riportato a palazzo Miraflores da una folla di 200mila persone dopo il tentato golpe del 2002, anche quello subito appoggiato dagli Usa e pure quello fallito. Il lascito nelle mani di Maduro del Venezuela mostra ora alcune evidenze pesanti e critiche: Maduro non ha proprio il carisma di Chavez; le ultime elezioni politiche hanno visto la sconfitta dei socialisti bolivariani; da 5 anni il Paese è soggetto a pesanti sanzioni economiche che ora arrivano a bloccare le esportazioni di petrolio; proprio per questo il Venezuela si è rivolto alla Russia e in modo più masssiccio alla Cina, mentre continua a sostenere l’economia di Cuba socialista, anch’essa tornata a subire le sanzioni di Trump dopo la svolta di Obama.

Non c’è più la crisi venezuelana: c’è una crisi mondiale, internazionalizzata dalla spregiudicatezza, violenza e incapacità che contrassegnano la presidenza Trump e l’Amministrazione Usa dei Pompeo, dei Bolton, degli Elliot Abrams – l’inviato statunitense per il Venezuela che, se esistesse il diritto internazionale, dovrebbe stare in galera all’Aja per aver ispirato gli squadroni della morte in Salvador e Guatemala negli anni Ottanta. Un incapacità confermata dagli avvenimenti di questi giorni. Perché le informazioni alla Casa bianca arrivano solo da una opposizione inaffidabile.

Certo la crisi economica profonda nel Paese c’è, ma come spiegare il sostegno a Maduro, dopo l’auoproclamazione del 23 gennaio, dopo il boicottaggio dei blackout, dopo 5 anni di sanzioni? Senza dimenticare la tempistica del «golpe», proclamato il giorno prima del Primo Maggio, quando presidenza, governo e Forze armate avrebbero partecipato a manifestazioni preparate proprio per la festa dei lavoratori e belle e pronte come risposta di massa al tentativo golpista. Ora la provocazione resta in campo. Perché – visto che in ogni paese al mondo se un leader politico chiama alla rivolta militare perlomeno viene interrogato – tutti aspettano un mandato d’arresto per Leopoldo Lopez e Juan Guaidó, probabilmente mandato scientemente allo sbaraglio dai padrini statunitensi perché si «martirizzasse».

Insomma, nonostante l’evidente fallimento è tutt’altro che finita. Ed è grave perché la vera debolezza del Venezuela a questo punto non è militare, è la sua crisi economica, la mancanza di una opposizione non golpista e la necessità solo annunciata di nuove elezioni politiche. E, come ripete l’autorevole sociologo Raul Zibechi, pur critico di Maduro «se i tentativi di golpe non vengono fermati, salta tutto» e non ci sarà alcuna possibilità di «via negoziata» né di revisione critica dei gravi errori del «socialismo bolivariano» che rischia di sopravvivere ed offrire il fianco a nuovi, scellerati tentativi golpisti; né tantomeno ci sarà un nuovo, necessario, protagonismo popolare.

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Elezioni Europee. L'agricoltura industriale che riscalda il pianeta si regge alla fin fine su uno sfruttamento bestiale del lavoro umano

Una manifestazione dei Friday for future

Molto opportunamente Guido Viale è intervenuto ( il manifesto 23/4) sul movimento generato da Greta Thunberg per orientarlo verso una visione più ampia e connessa dei problemi(conversione ecologica) ed entro un percorso politico concreto. Su quest’ultimo punto vorrei aggiungere delle ulteriori indicazioni, per evitare che il generoso sforzo di questa ragazza e di tanti giovani entrati sulla scena mondiale, si esaurisca in un movimentismo senza esiti.

E’ necessario che il Friday for future trovi immediatamente obiettivi determinati, su cui incanalare pressioni rivendicative incalzanti, e sappia anche mostrare concrete iniziative, a scala locale, in grado di invertire la tendenza al riscaldamento climatico, e al tempo stesso alimentando la volontà di lotta quotidiana dei militanti e dei cittadini.

Forse una prima cosa da sapere è che in Europa – terza per produzione di C02 dopo Cina e Usa – a dispetto degli accordi di Parigi e dell’ultima conferenza di Katowice, continua a sostenere con agevolazioni l’uso del carbone quale fonte di energia in gran parte dei paesi dell’Est: Romania, Repubblica Ceca, Estonia, Polonia, che addirittura ne dipende per l’80%. Ma persino la Germania, pur virtuosa su altri piani, trae energia da questo fossile per un buon 40% del suo fabbisogno. (Luca Manes, Inquinamento: la sfida più urgente, Micromega, 2019/2) Ebbene, qui il movimento deve innescare fronti nazionali di lotta su un terreno rilevante per la diminuzione dell’effetto serra, oltre a chiedere a Bruxelles di cambiare le sue politiche.

Ma c’è un ambito di produzione di gas serra, meno noto, su cui le politiche dell’Unione svolgono un ruolo di prim’ordine: è la politica agricola comunitaria (Pac). E’ vero che negli ultimi anni anche l’agricoltura biologica e integrata hanno cominciato a godere di aiuti comunitari, ma la Pac tiene ancora in piedi il modello agricolo della rivoluzione verde, quello esportato dagli Usa nel mondo e che contribuisce con cifre oscillanti tra il 20 e il 30% al riscaldamento climatico.

Il successo produttivo di questo modello, che ben presto ha generato in Europa fenomeni di sovrapproduzione , solo oggi mostra tutta la sua insostenibilità, non solo ambientale, ma anche energetica. Come ha mostrato, D.A.Pfeiffer nel saggio del 2006, Eating fossil fuels («Mangiare carburante fossile»), tra il 1950 e il 1985 la produzione agricola mondiale, calcolata in cereali, è cresciuta del 250%. Un risultato indubbiamente rilevante, che ha permesso una più ampia distribuzione di cibo su scala mondiale, anche se con gli squilibri che conosciamo.

Ma l’energia impiegata per ottenere tale risultato è nel frattempo cresciuta del 5000%. Per produrre tanto e in eccesso – oggi nel mondo, quello ricco, finiscono nei rifiuti 1,3 miliardi di tonnellate di cibo – si è sfruttato, in maniera distruttiva, non solo il suolo, ma anche il sottosuolo.

In tale ambito la lotta dei giovani del Friday acquisterebbe un rilievo politico del tutto particolare. L’agricoltura industriale che riscalda il pianeta si regge alla fin fine su uno sfruttamento bestiale del lavoro umano. Alla base della redditività agricola attuale non c’è solo il petrolio, ma anche la schiavitù del lavoro. Come è stato messo in luce da una ricerca recente, gran parte delle operazioni di raccolta nelle agricolture dei paesi ricchi si regge sul lavoro semischiavile dei migranti. E’ quanto accade in Usa coi latinos, ma anche nel Regno Unito, in Spagna, nella Francia Meridionale, in Grecia, persino in Israele e nella Nuova Zelanda.

E naturalmente in Italia.(G.Avallone, Sfruttamento e resistenza.Migrazioni e agricoltura in Europa, Ombre corte, 2017) E’ grazie ai salari di fame che la grande distribuzione commerciale fa profitti vendendoci frutta, verdura e prodotti trasformati, confezionati in plastica e altri materiali e destinati a creare rifiuti e ulteriore inquinamento.

Il movimento può dunque rivendicare il sostegno esclusivo dell’Unione alle agricolture biologiche, e di prossimità, al piccolo allevamento, al lavoro contadino, che rigenera il suolo, protegge il paesaggio, limita l’effetto serra.

All’interno di questa visione, che critica alla radice anche il modello alimentare dominante, fondato sul consumo di carne e sul cibo industriale, c’è spazio per una politica attiva, in grado di rendere i giovani protagonisti di una rivoluzione culturale in parte già in atto.

Si dovrebbe pensare ai centri urbani come ecosistemi energivori che possono essere tuttavia modificati con una vasta campagna di rigenerazione urbana, in cui in tutti gli spazi liberi, nei luoghi degradati, nelle periferie, si piantano alberi, si impiantano orti, si raccoglie acqua, si fa della città un luogo in cui la natura ritrova nuova vita e funzioni di mitigazione del clima. Al tempo stesso finalmente nascerebbe un movimento di massa contro la cementificazione: un altro fenomeno del capitalismo attuale generatore di riscaldamento climatico.

* Candidato alle elezioni europee nella lista La Sinistra

 

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La memoria al presente. Prima o poi questa assurda alleanza di governo dovrà fare i conti con i valori antifascisti che fondano la Costituzione e la convivenza civile. Il 25 Aprile è la giornata di Liberazione del popolo italiano dal giogo del fascismo e del razzismo, ed è il giorno in cui l’unità dei partigiani e della Resistenza vinse su dittatura, ferocia e razzismo

Anche quest’anno, siamo pronti a celebrare degnamente, con impegno e passione, il 25 aprile, Festa della Liberazione. Il corteo che sfilerà per le strade di Milano, in occasione della Manifestazione Nazionale è, simbolicamente, la conclusione dei cortei che in questa giornata sfileranno in tantissime città e paesi italiani. Ma quelle di oggi non sono le uniche iniziative svolte in Italia, anzi sono ormai mesi e mesi che le cittadine e i cittadini scendono in piazza per difendere la Costituzione, la libertà e la democrazia. Mai come quest’anno si è verificata, nelle manifestazioni, una partecipazione così ampia. C’è un popolo in cammino.

È il popolo delle magliette rosse con le partigiane e i partigiani. Il popolo degli operai che, in occasione di questo straordinario 25 aprile, hanno moltiplicato, nelle fabbriche, le celebrazioni in ricordo della lotta di tanti lavoratori che li hanno preceduti e che hanno difeso, spesso sacrificando anche la propria vita, le fabbriche che i nazifascisti volevano distruggere, nella loro risalita verso la ritirata.

E poi ci sono i giovani. Una fitta e bella «brigata» di ragazzi e ragazze, che, a cominciare dalle scuole, hanno voluto conoscere per capire. E con loro abbiamo lavorato assieme a insegnanti consapevoli, per studiare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, e la storia della Resistenza stessa. E le biografie di tanti giovani come loro, caduti a vent’anni, per dare a tutti noi un tempo di pace e libertà.
Ho ancora negli occhi lo striscione appeso al balcone di una scuola di Prato, in cui gli studenti hanno scritto semplicemente, in risposta ad una manifestazione filofascista, a cui si è ribellata tutta la città: «Abbiamo studiato. Sappiamo cos’è il fascismo». Magnifica semplicità!

È un popolo in cammino quello che abbiamo incontrato e s’illude chi spera di poterlo fermare.

La presidente dell’Anpi Carla Nespolo

Non ci nascondiamo, però, che, in questo inizio secolo, non poche speranze nate nella Resistenza italiana ed europea, sono state deluse. Tanti sogni di libertà, democrazia e giustizia sociale, sono stati disattesi. La Costituzione Italiana, in tante sue parti importanti, non è stata attuata. Pensiamo, per esempio, all’Art. 3 che vieta ogni forma di discriminazione. In Europa, le logiche e gli interessi finanziari sono spesso prevalsi su quelli dei popoli e sotto questa spinta di errori e tensioni «affaristiche», rischia di soccombere l’intero continente.

Occorre fare in modo che, anche da questo nostro 25 aprile, si alzi forte la voce delle cittadine e dei cittadini, la voce dei popoli, per tornare realmente e concretamente all’idea di Europa che animò il Manifesto di Ventotene. Occorre combattere con decisione il razzismo diffuso a piene mani dal Ministro dell’Interno e difendere la Costituzione pretendendo la sua piena attuazione, non lo stravolgimento. Le modifiche istituzionali proposte da questo Governo sono da respingere perché tendono a contrapporre democrazia diretta a democrazia rappresentativa, col risultato di cancellare l’una e l’altra. Il Parlamento, poi, viene continuamente mortificato: ci si impegni, tutti insieme, in ogni luogo e occasione, a ribadire che la democrazia si realizza e sviluppa nelle aule parlamentari non in televisione, sui social o in riunioni private.

Sotto sotto, ma neppure troppo, si cerca anche di cancellare il 25 aprile come festa nazionale. Ci aveva già provato Berlusconi e dobbiamo, dunque, tenere alta la vigilanza.

Il 25 Aprile è la giornata di Liberazione del popolo italiano dal giogo del fascismo e del razzismo, ed è il giorno in cui l’unità dei partigiani e della Resistenza vinse su dittatura, ferocia e razzismo. Non fu, secondo una misera vulgata, la lotta tra fascismo e comunismo. Non ci faremo trascinare in una inutile e strumentale polemica, ma diciamo a tutti i democratici che per sconfiggere davvero ogni passo indietro, ogni più o meno esplicita tentazione prevaricatrice ed autoritaria, bisogna essere fortemente uniti. C’è una grande differenza tra «predicare» l’unità e praticarla ogni giorno.

Io sono tra coloro che guardano con attenzione e rispetto le dichiarazioni antifasciste del Presidente della Camera Fico, del vice premier Di Maio e di tanti altri. Prima o poi questa assurda alleanza di Governo dovrà fare concretamente i conti con i valori antifascisti che fondano la Costituzione e la convivenza civile. Spetterà sicuramente ad altri trovare soluzioni di Governo dignitose per il nostro Paese nel segno di una effettiva realizzazione degli ideali che mossero i combattenti per la libertà.

L’ANPI non è un partito e mai lo diventerà. Nostro compito è trasmettere memoria e pretendere l’attuazione della Costituzione. E, in ultimo, ma non per ultimo, difendere i diritti dei più deboli. Lo diremo in ogni piazza, via o contrada. Diremo con voce unica: viva il 25 Aprile, viva la Resistenza, viva l’Italia.

* Presidente dell’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia)

 

 

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