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Elezioni europee. Il Pd di Nicola Zingaretti è disposto a fare proprie, a portare nelle piazze, le parole del manifesto elettorale del partito del socialismo europeo?

Questa volta, con le elezioni del Parlamento europeo, ciascuna elettrice, ciascun elettore si trova di fronte ad un bivio: se imboccare una strada che porta all’affermazione continentale del liberismo, travestito di austerità, che fomenta la guerra tra i più deboli, attraverso un’alleanza inedita tra popolari e razzisti, trasformando il continente in terreno di caccia tra Stati Uniti, Russia, Cina. O se percorrere quella di un’Europa, che può soltanto diventare più unita e più forte se rappresenta i molti deprivati di mezzi e di diritti. La sinistra italiana, nelle sue diverse sfumature, per corrispondere a questo bisogno diffuso, quali chiarimenti dovrebbe offrire, a meno di due mesi dalla scadenza?

Cominciamo dagli obiettivi. Il manifesto elettorale del partito del socialismo europeo, a cui il Pd appartiene, si apre con queste parole (la traduzione dall’inglese è mia perché – guarda caso – la versione completa in italiano è difficilissima da trovare):

«L’Unione Europea deve servire meglio il suo popolo. Le elezioni di maggio 2019 sono la nostra opportunità per cambiare l’Unione europea e costruire un’Europa più giusta. Le nostre società tuttora sopportano i costi della crisi economica del 2008. Abbiamo sfide urgenti cui fare fronte. L’Europa deve superare l’ineguaglianza, battersi per una giustizia fiscale, fare fronte alle minacce dei mutamenti climatici, contenere la rivoluzione digitale, assicurare un’equa trasformazione agricola, gestire meglio le migrazioni, e garantire la sicurezza di tutti gli Europei. L’Europa richiede un cambiamento di guida e indirizzo politico, relegando al passato i modelli conservatori e neoliberali dominanti, puntando su posti di lavoro di qualità per il suo popolo, un ambiente sano, sicurezza sociale e un modello economico che affronti l’ineguaglianza e i costi della vita attuali. Lo status quo non è un opzione. Un mutamento radicale è necessario per costruire un progetto per un futuro in cui tutti gli Europei possano credere».

Parole chiare, paradossalmente ispirate agli europeisti della sinistra britannica che hanno scelto come parola d’ordine: «Per un’altra Europa». Il Pd di Nicola Zingaretti è disposto a farle proprie, a portarle nelle piazze, a tradurle in opposizione a questo governo e a coloro che, puntando alle politiche, vogliono insediare un governo Salvini, o preferisce abbandonarle nei meandri di internet, continuando ad inseguire quelli che dovrebbero essere i suoi avversari politici? E i suoi candidati, Calenda compreso? La domanda non è retorica, perché l’ambiguità è reale.

Seconda domanda, rivolta alla c.d. sinistra radicale – altro paradosso – più in sintonia con il manifesto del Pse: è capace di produrre una proposta elettorale unitaria tra le sue componenti, che non rappresenti una mera contrapposizione al Pd – con cui dovrà allearsi a livello europeo – o, peggio, una dispersione di voti (la soglia, come noto, è al 4%; ben oltre quanto conseguito da LeU, il 4 marzo)? È capace di fondere in un’alleanza verdi e sinistra almeno a parole?

Poiché è alto il rischio che al silenzio politico e programmatico della sinistra italiana, nelle sue diverse articolazioni, seguano delle semplici liste di candidati, l’elettorato in attesa potrebbe formulare due semplici richieste.

1) Che ciascuno di essi renda pubblico qualsiasi finanziamento elettorale superiore ai 1000 euro. E, per favore, che nessuno accampi la c.d. privacy per sottrarsi ad una regola che i democratici statunitensi stanno già mettendo in pratica!

2) Che ciascun candidato dichiari le proprie appartenenze associative, quali che esse siano, come elemento di giudizio a disposizione dell’elettore.

Posso sbagliarmi, ma credo che molti di noi elettori, orfani di partito, sceglieremo sulla base delle risposte a questi o simili interrogativi e conseguenti richieste.

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Roma. Il trasferimento dei rom prevede la separazione dei nuclei familiari. Oggi e domani cortei dell'estrema destra, sabato in piazza anche gli antifascisti

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concerti, passeggiate, eventi e tanti progetti

Da ravennnawebtv guarda il video

Musica, teatro, cinema, letture, sport, benessere, laboratori, didattica, socialità e promozione del territorio, ma soprattutto una passeggiata guidata praticamente ogni domenica.

La colonia di Castel Raniero torna a rivivere grazie alla neonata associazione e all’Asp che hanno dato il via ad una nuova collaborazione. La colonia vera e propria, l’edificio storico, rimarrà al momento inagibile.

Il parco tutt’attorno, la casa del custode e i terreni circostanti, tuttavia faranno da teatro ad un ricco calendario di eventi già iniziato in queste settimane e che vedrà i volontari impegnati fino a novembre inoltrato.

Il sogno nel cassetto è di trovare fondi o qualcuno che possa recuperare la colonia. Ma non è l’unico. La speranza è di realizzare un lungo sentiero agibile a tutti per collegare la colonia a Faenza e trasformare la casa del custode in un ostello.

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Non lasciamoci ingannare dalle coreografie di croci processioni ed esorcismi – che tuttavia ci sono e le abbiamo viste nelle campagne antiabortiste davanti agli ospedali -, il congresso delle famiglie di Verona c’entra pochissimo con la religione. Tanto è vero che il Vaticano, per bocca del Segretario di Stato, Pietro Parolin, ha preso distanza. È un congresso decisamente politico e lo dimostra l’imponente presenza di ministri e parlamentari del nostro governo: il ministro dell’interno Matteo Salvini, il ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, il senatore della Lega Simone Pillon e Giorgia Meloni (qui un’ampia esauriente descrizione di chi ha promosso il congresso).

Legate a questa parata pubblica ci sono proposte di legge – come il Ddl Pillon, la revisione della Legge 194, la riforma dello stato di famiglia, la reintroduzione delle case chiuse, la cancellazione delle unioni civili, dei matrimoni di gay e lesbiche – che hanno come scopo evidente quello di cancellare la libertà che le donne hanno faticosamente conquistato, e il rilievo che vanno assumendo a livello mondiale la cultura e le pratiche del femminismo, come lotta contro tutte le forme di dominio e di oppressione: dal sessismo al razzismo al classismo ai nazionalismi alla devastazione dell’ambiente.

Ciò nonostante, ancora una volta, l’attenzione dei media, pur registrando la deriva reazionaria e oscurantista, tace – e ha dell’incredibile vista la mobilitazione che si sta preparando pubblicamente da tempo – sui tre giorni di controconvegno (in coda il programma completo) e sulla manifestazione di sabato 30 marzo, promossi da una quantità incredibile di associazioni, gruppi, e in primis dalla rete Non una di meno. Ma si sa, il movimento delle donne, è, non da ora innominabile.

Basta risalire ai romantici adoratori delle madri dell’Ottocento, come Paolo Mantegazza e Jules Michelet, molto letti e amati dalle donne, per capire quanto il fanatismo misogino o l’ipocrisia

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Via della seta. Dal 2017 la frenata cinese per controllare meglio il processo degli scambi commerciali. L’Italia è al terzo posto dopo Gran Bretagna e Germania per le somme ricevute

È un discorso di Teng Tsiao Ping del 1978 a dare il via ad uno dei più grandi sommovimenti economici della storia. Ripercorriamone l’andamento e i cambiamenti.

Nell’ambito di una crescita impetuosa, il ruolo degli investimenti esteri delle imprese del paese è molto mutato nel tempo. Dal 1979 al 2010-2011, sono stati gli investimenti in entrata ad essere privilegiati dal governo e le imprese Usa, europee, asiatiche hanno fatto a gara per entrare nel paese. Poi, tra il 2012 e il 2016, consolidate ormai le basi dello sviluppo, le imprese cinesi hanno cominciato a investire fortemente all’estero. Accanto al settore delle materie prime, si è poi affermato quello verso l’acquisizione di tecnologie e lo sviluppo delle infrastrutture. Così, mentre nel 2010 in totale le aziende del paese avevano impegnato 2 miliardi nel nostro continente, nel 2016 la cifra era salita a 36 miliardi.

L’Italia figura oggi al terzo posto, dopo Gran Bretagna e Germania e prima della Francia, per le somme ricevute. Ma dal 2017 ad oggi stiamo assistendo ad una riduzione, una frenata imposta dalle autorità da collegare al fatto che lo sviluppo del periodo precedente era stato in molti casi disordinato e affannoso; il governo vuole ora controllare meglio l’intero processo.

L’interesse verso il nostro paese riguarda alcune imprese grandi e medio-grandi, ma anche aziende di piccole e medie dimensioni, che presentavano però un qualche interesse nel campo delle tecnologie. Tra i casi più rilevanti ricordiamo, nel 2015, l’acquisizione da parte della ChemChina della quota di maggioranza della Pirelli, costata più di 7 miliardi di dollari. Nel 2014 è stato acquistato il 40% dell’Ansaldo elettrica. China State Grid ha rilevato il 35% di Cdp Reti per quasi 3 miliardi di euro. Ricordiamo ancora l’acquisizione dei cantieri Ferretti, i più importanti d’Europa nel loro settore. E l’acquisto della Esaote Biomedica alla fine del 2017; infine qualche acquisizione nell’agroalimentare (marchio Berio), nella moda (Krizia), negli elettrodomestici (Candy), nello sport (l’Inter).

Al di là di qualche situazione problematica, gli investimenti cinesi in Italia hanno dato sino ad oggi risultati più positivi della media per quanto riguarda l’andamento post-acquisizione dei ricavi, degli investimenti, degli utili, dell’occupazione. In ogni caso, anche la Cina ha potuto così partecipare alla magnifica vendita all’asta, in corso da diversi anni, dei pezzi più pregiati del nostro sistema economico.

Forse altrettanto importante è l’elenco delle imprese nelle quali la Cina è entrata è quello delle società che non è riuscita ad acquisire. Qualche anno fa la Haier avrebbe voluto conquistare la Ariston (elettrodomestici), ma la sua offerta fu respinta a favore degli statunitensi della Whirlpool, anche se quella asiatica era migliore. Anche nel caso della cessione dell’Ansaldo ferroviaria, all’offerta cinese fu preferita quella di un’impresa giapponese.
Immaginiamo anche l’interesse presente da tempo dei cinesi per il gruppo Fiat-Chrysler, ma in questo caso c’è l’ostilità di Trump; forse l’investimento si potrebbe limitare alla parte Fiat, ma in questo momento sembrano prevalere le azioni della francese Psa (a partecipazione anche cinese). Nell’ambito automobilistico va segnalato un forte interesse per l’acquisizione del Comau, ma la questione appare delicata.

Ricordiamo infine la storia eterna dell’Alitalia, a cui nessun vettore sembra oggi veramente interessato. Anche in questo caso pensiamo che un’impresa cinese potrebbe essere la scelta migliore.

Con la venuta del presidente cinese in Italia si parla di una trentina di accordi che dovrebbero essere firmati in questi giorni e che riguardano diversi settori.

Ricordiamo intanto che la marea delle merci cinesi che arriva in Europa e quella meno rilevante, ma sempre importante, che parte per il continente asiatico, passa per la gran parte per i porti del Nord Europa. Questo nonostante che l’imbarco-sbarco in quelli italiani porterebbe a minori costi e a tempi più rapidi. Il fatto è che sino a oggi il nostro paese ha colpevolmente evitato di occuparsi della vicenda.

Ora la Cina manifesta un forte interesse in particolare verso Trieste e Genova e questa via dovrebbe essere imboccata con più decisione per le grandi ricadute che essa potrebbe avere. L’accanimento dell’Unione Europea verso il nostro accordo con la Cina ha molto a che vedere con l’obbedienza a Trump, con la paura della perdita di quote di mercato per i porti tedeschi ed olandesi.

L’altra grande questione riguarda l’emissione da parte della Cdp dei “panda” bond, attraverso i quali i cinesi contribuirebbero a finanziare in renmimbi un rilevante programma di infrastrutture nell’ambito della Belt and Road Initiative.

Mancano informazioni invece sul settore turistico, ma ricordiamo che quest’anno i turisti cinesi all’estero dovrebbero essere intorno ai 150 milioni e che ancora oggi pochi fra di essi scelgono i nostri lidi. Di nuovo soprattutto per il nostro disinteresse.

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Inchiesta sul servizio idrico, da Torino a Roma, a partire dai conti dei gestori del SII, dai piani d’Ambito e dalle tariffe applicate negli ultimi anni in Italia (e pagate dai cittadini). Con l’attore pubblico che continua a indossare gli abiti (e i comportamenti) del privato

Tratto da Altreconomia 213 — Marzo 2019
Roma, 5 maggio 2012. Manifestazione a favore dell’acqua pubblica promossa da associazioni, movimenti, comitati, partiti politici e sindacati / © Stefano Montesi, BuenaVistaPhoto
 

Al referendum del 12 e 13 giugno 2011, 26 milioni di cittadini italiani sancirono che sull’acqua non si sarebbe potuto più fare profitto. E con quel “Sì” tracciato sulla scheda -si trattava del secondo di quattro quesiti su servizio idrico, nucleare e legittimo impedimento- decisero di abrogare (parzialmente) una norma relativa alla tariffa dell’acqua che prevedeva l’“adeguata remunerazione del capitale investito”. Togliere quel passaggio comportava niente più margini, finanza speculativa o business, semmai un servizio efficiente a fronte di investimenti sulla rete tangibili, ad esempio per ridurre le perdite. In forza del fatto che “il diritto all’acqua potabile e sicura ed ai servizi igienici” -come sancito dalla risoluzione delle Nazioni Unite del 26 luglio 2010- è “un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani”.

A otto anni di distanza da quella marea blu è tempo di fare un bilancio. Perché la promessa “nessun profitto” non solo non sarebbe stata mantenuta, ma secondo chi ha studiato i conti economici dei gestori del servizio, i piani d’Ambito, le tariffe applicate negli ultimi anni in Italia e pagate dai cittadini per utilizzare l’acqua del rubinetto, sarebbe stata addirittura tradita. In un quadro dove l’attore pubblico -in veste di ente locale, azionista delle società o ente regolatore- continua a indossare gli abiti (e i comportamenti) del privato.

Ne è convinto Paolo Carsetti, anima del Forum italiano dei movimenti per l’acqua (acquabenecomune.org), che per dimostrare la contraddizione referendaria cita alcune “prove”: “Negli ultimi dieci anni le tariffe del servizio idrico sono aumentate di oltre il 90% a fronte di un incremento del costo della vita del 15%, dati della CGIA di Mestre alla mano”. E ancora: “Se analizziamo i bilanci delle quattro grandi multiutility quotate in Borsa che gestiscono anche l’acqua -A2a, Acea, Hera e Iren- rileviamo come tra il 2010 e il 2016 si è passati dal 58% dell’impatto degli investimenti sul margine operativo lordo al 40%. Evidentemente l’aumento degli investimenti assicurato non c’è stato. E di tutti gli utili prodotti da queste quattro società, oltre il 91% sono stati distribuiti come dividendi”.

A questa prima valutazione, si aggiunge la fotografia scattata dall’Istat sullo stato delle perdite idriche delle reti comunali di distribuzione dell’acqua potabile. “Il rapporto percentuale tra il volume totale disperso e il volume complessivamente immesso nella rete -ha ricordato l’Istituto a fine 2018- è l’indicatore più frequentemente utilizzato per la misura delle perdite di una rete di distribuzione”. Risultato: “Nel 2015 questo valore è pari al 41,4% (ovvero 3,4 miliardi di metri cubi, ndr), in aumento di quattro punti percentuali rispetto al 2012, anno in cui le perdite totali erano al 37,4%, confermando lo stato di inadeguatezza in cui versa l’infrastruttura idrica e gli scarsi investimenti in termini di manutenzione e sviluppo”.

Il quadro potrebbe essere ribaltato da una proposta di legge nata su iniziativa popolare ormai 12 anni fa e oggi finalmente in discussione in Parlamento. L’obiettivo principale del testo è la “ripubblicizzazione” del servizio, un fenomeno che negli ultimi 15 anni ha fatto segnare oltre 235 esperienze in 37 Paesi del mondo, in buona parte europei, come dimostrano i casi censiti da Emanuele Lobina, ricercatore presso il Public Service International Research Unit dell’Università di Greewich (Psiru, psiru.org). Un’autentica rivoluzione che interessa da vicino anche il nostro Paese.

© Andrea Ronchini/Pacific Press

Per comprendere il “bilancio idrico” italiano a otto anni dal referendum è necessario aver chiaro il quadro precedente al giugno 2011. A partire dal metodo tariffario. “Prima della consultazione -come ricorda il Dipartimento Ambiente del Servizio Studi della Camera dei Deputati- la norma stabiliva che la tariffa fosse calcolata prevedendo la remunerazione per il capitale investito dal gestore”. Si trattava del cosiddetto “metodo normalizzato”, disciplinato dal 1996, in base al quale sul capitale investito si applicava un “tasso di remunerazione” fissato al 7%. Era puro profitto. Con il voto referendario cambia tutto. La “nuova” tariffa -ovvero il corrispettivo del servizio idrico integrato- si sarebbe dovuta determinare tenendo conto della “qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari” e “dell’entità dei costi”, in modo che venisse assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e del “chi inquina paga”. Nessuna “remunerazione”, dunque, ma solo la “copertura integrale dei costi” (o principio del “Full cost recovery”).

Ad applicare e riscuotere la tariffa è il gestore del servizio, tenuto per legge (“Codice dell’ambiente” 152/2006) a farlo nel rispetto della convenzione che ne regola il rapporto con l’Ente di governo dell’Ambito territoriale ottimale (EGATO). Gli “Ambiti” (ATO) sono l’“organizzazione territoriale” del servizio idrico e vengono disegnati dalle Regioni, in alcuni casi intorno a specifici bacini idrografici. Spetta quindi agli enti locali -e in primo luogo ai Comuni- occuparsi delle risorse idriche, a partire dalla programmazione delle infrastrutture.

90% l’incremento delle tariffe del servizio idrico in 10 anni

Accanto agli ATO e ai gestori -a partire proprio dal 2011- si è aggiunto un altro soggetto (pubblico), responsabile sia della regolazione e controllo dei servizi idrici sia della predisposizione del metodo tariffario. Si tratta dell’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (ARERA, un tempo Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico). Chi la presiede è Stefano Besseghini, nominato con decreto del presidente della Repubblica nell’agosto 2018 così come il resto dell’attuale Collegio, e in carica per 7 anni (gli altri componenti sono Gianni Castelli, Andrea Guerrini, Clara Poletti e Stefano Saglia).

ATO, gestori e Autorità fanno parte di un’orchestra. I primi (attraverso gli enti di governo) predispongono il Piano economico finanziario (Pef) per tutta la durata residua della concessione dei secondi (i gestori), a partire proprio dallo schema tariffario di ARERA. Quello in vigore si chiama “MTI 2” e vale per il periodo 2016-2019. I bilanci dei gestori, quindi, dovrebbero “rispecchiare” le previsioni del piano economico finanziario e, in caso contrario, procedere con i conguagli. Ma non è sempre così.

Giovanni Valotti, presidente di A2a Spa © Enrico Scaringi / Varese Press / Fotogramma

Paola Ceretto e Remo Valsecchi, rispettivamente parte del Comitato Acqua pubblica di Torino, di Lecco e del Forum nazionale, revisore dei conti e commercialista, sono abituati ad avere a che fare con numeri, formule e conti economici. Ed è questa “passione” che li ha spinti a fare un lavoro di ricerca approfondito sui bilanci di alcuni dei principali gestori dell’acqua in Italia, confrontandoli anno per anno con le “previsioni” dei “Pef” messi a punto dagli Ambiti.

Dalle loro analisi sarebbero emerse “paradossali incongruenze”. Valsecchi sintetizza il risultato: “Nella quasi generalità dei casi abbiamo rilevato ricavi più bassi e costi più alti nei piani d’Ambito rispetto ai bilanci dei gestori, con conseguenti utili più elevati a favore di questi ultimi e tariffe inutilmente più ‘care’ per gli utenti”.

MTI-2: Il metodo tariffario predisposto da Arera attualmente in vigore è il “MTI-2”, giunto dopo il “transitorio” 2012-2013 e quello relativo al cosiddetto “primo periodo regolatorio” 2012-2015. Si articola in 74 (complicatissime) pagine.

Non solo. In quei “costi” che la “nuova” tariffa avrebbe dovuto coprire “integralmente” ce ne sarebbero alcuni addebitati “impropriamente”. Ceretto e Valsecchi li hanno messi fila e si sono posti un obiettivo: verificare se, eliminate quelle voci “irreali”, fosse possibile coprire tutti i costi di gestione e di investimento, misurandone poi gli effetti sulle tariffe. “Ci siamo resi conto che togliendo costi inesistenti ‘creati’ dal metodo tariffario di ARERA, è possibile ridurre la tariffa del 25-30% e coprire tutti i costi e tutti gli investimenti -spiega Valsecchi-. Perché quel margine del 25-30% non è altro che gli utili e i profitti che hanno una destinazione e finalità diverse dalla gestione del servizio”.

Ma il referendum non aveva “cancellato” la remunerazione del capitale? “Esatto -sottolinea Ceretto-. Il punto però è che ARERA ha sostituito la ‘remunerazione del capitale investito’ con gli ‘oneri finanziari del gestore’. Che sono finiti nella tariffa”.

“Onere finanziario”, quindi, e non più “remunerazione”. “In teoria dovrebbe trattarsi del costo del denaro che il gestore mette a disposizione per la società -chiarisce Remo Valsecchi-. Ma tale non è perché nel conto economico delle società non appare. Lo ritroviamo semmai nel risultato finale, che poi è l’utile d’esercizio. Quindi siamo di fronte a una ristabilita remunerazione tout court”. Stiamo parlando di cifre rilevantissime, come dimostrano i bilanci di tre grandi società che svolgono la sola attività di gestione del servizio idrico e per un solo ambito. Valsecchi ha esaminato i casi di Acea Ato 2 (controllata dalla holding Acea, quotata in Borsa, nel bacino di Roma), A2a ciclo idrico Spa (controllata da A2a e operante a Brescia) e Smat Spa (con il Comune di Torino socio di maggioranza per oltre il 65% pur rappresentando il 39% dei cittadini serviti). Prendiamo il caso di Acea Ato 2, operante in un bacino di 2,9 milioni di abitanti dove rientra anche il Comune di Roma. Analizzando i bilanci di “Ato 2”, un gigante da 590,5 milioni di euro di fatturato nel solo 2017 (2,1 miliardi tra 2014 e 2017), Valsecchi ha quantificato l’ammontare degli “oneri finanziari” previsti nelle tariffe nei quattro anni 2014-2017. Risultato: 602,2 milioni di euro. L’ha fatto anche per l’ambito di Brescia (A2a ciclo irico, 307,1 milioni di euro di ricavi tra 2014-2017): 105 milioni di euro. E pure per Smat (Torino, 1,4 miliardi di ricavi circa nel 2014-2017): 301,5 milioni di euro. Il tutto mentre le tre società considerate hanno distribuito ai propri azionisti dividendi nei quattro esercizi esaminati: Acea Ato 2 per 301 milioni di euro, A2a ciclo idrico per 35 milioni, Smat per 38 milioni. “Sono risorse con una destinazione diversa dalla gestione del servizio idrico ma che gli utenti pagano, come costo del servizio, attraverso una tariffa che dovrebbe solo coprire i costi della gestione e degli investimenti”, fa notare Valsecchi.

I dati relativi al “valore della produzione” di A2a ciclo idrico Spa nell’anno 2016 si riferiscono alla voce “Ricavi delle vendite e delle prestazioni” e non comprendono quella “Altri ricavi e proventi” (pari a 52,5 milioni di euro)

Ma c’è di più. “Dal metodo 2014-2015, la tariffa dell’acqua copre anche i cosiddetti ‘costi di morosità’”, spiega Ceretto. Di che si tratta? “Ipotizziamo di dare vita a un’impresa che vende software. C’è il rischio che qualche cliente fallisca o non ci paghi, giusto? Questo è il rischio di non incassare crediti, ovvero il rischio di morosità. ARERA però ha stabilito che il gestore del servizio idrico, in condizione di monopolio naturale, debba essere coperto comunque da eventuali ‘rischi’ di perdere quel tipo di credito e lo fa pagare in tariffa, applicando determinate percentuali al fatturato annuo del gestore che variano a seconda dell’area del Paese: più bassa al Nord e più alta al Sud”. Valsecchi la definisce come “l’evidente distorsione di un sistema finalizzato unicamente a garantire il gestore creando costi inesistenti”. Perché? “La morosità non è propriamente un ‘costo’ -spiega- ma un ritardo nel pagamento. L’unico costo, se vogliamo, potrebbe essere quello degli interessi passivi che il gestore deve sostenere per la necessità di finanziare la mancata riscossione. Ma il gestore non ha costi perché addebita gli interessi di mora all’utente in ritardo”. Valsecchi ha confrontato il “costo della morosità” previsto dal gestore e pagato in tariffa con la “perdita su crediti” reale emersa dai bilanci delle tre società. Lo scostamento è impressionante. Tra 2014 e 2017, la tariffa di Smat di Torino ha riportato tra i costi ben 29,9 milioni di euro alla voce “morosità”. Che sono andati al gestore (legittimamente, perché è il metodo a funzionare così) nonostante le perdite reali siano state molto più contenute: 10,2 milioni. Stesso discorso per A2a ciclo idrico: 6,3 milioni di costi in tariffa per morosità a fronte di 1,3 milioni di perdite “effettive”. O il caso di Acea Ato 2: 78,6 milioni di euro contro i 13,3 reali. Queste (enormi) differenze le hanno “pagate” i cittadini in tariffa.

Oltre agli “oneri finanziari” e alla “morosità” c’è poi il “conguaglio”. “La tariffa -continua Ceretto- comprende la ‘componente conguaglio’, che può essere positiva o negativa per l’utente, calcolata sui bilanci consuntivi del gestore dei due anni precedenti l’anno di riferimento della tariffa. Il punto però è che riguarda solo alcune componenti dei costi sostenuti dal gestore, quali ad esempio i costi per acquisto di energia elettrica, i costi per acquisto di acqua all’ingrosso, i costi ‘ambientali’, i tributi locali, i contributi alle comunità montane, alle autorità d’Ambito, ad Arera e così via. E comprende pure la variazione dei volumi d’acqua fatturata. Attenzione: quest’ultima non è un costo ma la differenza tra quanto preventivato dal piano economico finanziario predisposto dall’Ato e quanto fatturato a consuntivo dal gestore. Cioè quanto consumato. Questa differenza la ritrovo in tariffa. Vi sembra normale?”. A Torino -“dove negli ultimi sei anni la tariffa è cresciuta del 28,5% e gli utili di Smat del 160%”, dice Ceretto- il Comitato ha fatto i calcoli sugli anni 2014-2017 e ricavato un “costo improprio” eccedente al principio del “Full cost recovery” in tariffa pari a 108,8 milioni di euro. Solo per la componente “conguaglio”.

“Dal quando è entrata in Borsa (2008) al 2017, A2a ha perso un terzo del patrimonio netto (da 3,6 miliardi a 2,4). Perché li ha distribuiti in dividendi” – Remo Valsecchi

Valsecchi ha fatto un passo ulteriore. Incrociando tariffa e bilanci ha calcolato l’ammontare di tutte le voci di costi “eccedenti” rispetto al principio di “full cost recovery”. Ha sommato cioè la “morosità”, i “conguagli”, i margini operativi e le voci di “gestione finanziaria”. Nel caso di quest’ultima categoria “si va da una svalutazione delle partecipazioni per 23 milioni di euro di Smat agli oneri finanziari che Acea Ato 2 corrisponde alla sua capogruppo, Acea Spa (Comune di Roma socio di maggioranza al 51%), per 132 milioni di euro dopo che la stessa capogruppo ha prelevato, attraverso i dividendi, quasi tutti gli utili e ha utilizzato gli stessi per finanziare la Ato 2”. Risultato finale? “Solo per le tre società su Torino, Brescia e Roma stiamo parlando di 1,2 miliardi di euro di ‘costi eccedenti’ finiti in tariffa tra 2014 e 2017”. E pagati dai cittadini.

Con un “dettaglio” in più che ha a che fare con l’equità. Valsecchi ha preso infatti le tariffe 2017 applicate nei tre Ato di Brescia, Torino e Roma e ipotizzato il consumo medio per singola persona a partire dai dati Istat. “Per non essere discriminatorio -spiega- il costo del servizio, a parità di consumo per persona, dovrebbe essere lo stesso, indipendentemente dalla condizione personale o familiare”. Ma quel che esce dall’elaborazione è diverso rispetto alla teoria. “Prendendo a base un nucleo medio di 3 persone (corrispondente alla media nazionale di 2,41 persone per nucleo arrotondato all’unità superiore), si rileva che i nuclei con meno componenti di 3 hanno un costo pro-capite inferiore, mentre quelli superiori a 3, hanno un costo pro-capite superiore. Queste differenze determinano una differenza ‘discriminatoria’ a danno delle famiglie più numerose, generalmente le più bisognose”. Possibile che ARERA non abbia riscontrato questa disparità? “Nel settembre 2018 -continua Valsecchi- l’Autorità ha provveduto a ‘sistemare’, a suo dire, questa situazione stabilendo un periodo transitorio sino al 31 dicembre 2021, necessario per la raccolta dei dati relativi alla composizione dei nuclei familiari con una articolazione pro-capite basata su un ‘pro-capite standard’ di tre componenti. È una magia: il significato universale di pro-capite, da singola persona, è diventato di tre”.

Stefano Besseghini, presidente dell’Autorità ARERA – © ARERA

“Di chi è la responsabilità di questa situazione?”, si chiede Valsecchi, che all’inizio del 2019 è stato audito -insieme al Forum dei movimenti per l’acqua- dalla commissione Ambiente della Camera al lavoro sulla proposta di legge “AC 52 (“Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque”, prima firmataria l’on. Daga). “È responsabilità degli Uffici d’Ambito, impreparati o condizionati dalla politica o dai gestori? O del metodo tariffario di Arera? O della rilevanza economica che si è voluto attribuire al servizio idrico, contraria alla sua stessa natura? Il metodo di ARERA potrebbe essere considerato tecnicamente corretto se applicato a un sistema industriale privato dove la ‘concorrenza e il mercato’ intervengono a modificare l’effetto finale, costringendo alla riduzione dei prezzi di vendita e senza possibilità di conguagli successivi. Ma così com’è congegnato, nella gestione del servizio idrico, cioè in regime di monopolio naturale, l’unico ad essere garantito è il gestore”, conclude Valsecchi. Qualche speranza, forse, c’è. Che i Comuni si occupino della questione (nel Consiglio comunale di Torino la consigliera Eleonora Artesio insiste con interpellanze in merito) e che la Camera dei Deputati concluda presto la discussione della “Legge Daga”, erede della proposta di iniziativa popolare (oltre 400.000 firme) presentata a più riprese dal 2007. Il 30 gennaio 2019 la commissione Ambiente l’ha adottata come testo base. Una scelta che il Forum ha salutato con favore: “Auspichiamo che questo voto costituisca un’assunzione di responsabilità, a partire dalla maggioranza di governo, rispetto all’urgenza di dotare il nostro Paese di un quadro legislativo unitario rispetto all’acqua come bene comune, introducendo modelli di gestione pubblica e partecipativa del servizio idrico, procedendo da subito alla ripubblicizzazione, oltre a sottrarre le relative competenze ad ARERA, che in questi anni ha dimostrato di tutelare gli interessi delle aziende e non degli utenti”. Perché come recita il motto della giornata mondiale dell’acqua fissata dalle Nazioni Unite il 22 marzo 2019, “Chiunque tu sia, ovunque tu sia, l’acqua è un tuo diritto umano”. Un diritto umano, non un dividendo.


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AUTORITÀ DI REGOLAZIONE, PER IL FORUM VA SOPPRESSA

Il Forum dei movimenti per l’acqua ha curato un dossier sull’Autorità di regolazione energia reti e ambiente (ARERA) a partire dai suoi bilanci. I “paradossi” non mancano. Al 31 dicembre 2017, infatti, ARERA aveva un “deposito bancario” di 80,7 milioni di euro, che per il Forum rappresenta uno “schiaffo morale nei confronti dei cittadini che vivono in stato indigenza”. Sarebbero stati addirittura 120 milioni se non fossero stati acquistati nel 2015 nuovi immobili da destinare a uffici. Non solo. Ciascun componente del collegio -nel 2017- ha percepito all’anno un compenso di 240mila euro (rimborsi spese esclusi) e ciascun lavoratore dell’Autorità (220 in pianta organica a fine 2017) “costerebbe” oltre 154mila euro. Anche per questa sua “struttura”, il Forum ne chiede la soppressione con trasferimento delle funzioni al ministero dell’Ambiente.


Quanto “costa” la ripubblicizzazione del servizio? Secondo Utilitalia (l’associazione dei gestori) almeno 15 miliardi di euro, derivanti dalla riacquisizione delle quote oggi detenute da soggetti privati e per ripagare lo stock di debito, contratto con banche e cittadini. Il Forum ha smentito questa tesi. “Il costo una tantum è solo quello relativo alla riacquisizione delle quote societarie detenute da soggetti privati. Il rimborso dell’attuale stock di debito e la rinegoziazione dei finanziamenti già contratti non hanno alcuna ragione di essere per una semplice modifica delle forme di gestione”. Stesso discorso per il presunto “indennizzo” ai gestori: “Si passerebbe per la riacquisizione ai prezzi di mercato delle quote di proprietà in mano ai privati”. Secondo il Forum l’esborso sarebbe intorno ai 2 miliardi. “Aggredibile”, anche tramite il ruolo attivo di Cassa depositi e prestiti.


GLI AZIONISTI DI A2A, ACEA E SMAT

A2a ciclo idrico Spa è controllata da A2a Spa, dove i principali azionisti sono i Comuni di Milano e Brescia. Acea ATO 2 fa riferimento ad ACEA (anch’essa quotata), della quale il Comune di Roma detiene il 51% del capitale. Smat Spa (Torino) è un caso particolare. Il Comune di Torino partecipa a dividendi e incrementi del patrimonio per oltre il 69% ma rappresenta solo il 39% dei cittadini utenti. il 53% circa della popolazione servita detiene il 9,39%.

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