“Dopo 15 mesi di genocidio, bombardamenti e distruzione nella striscia di Gaza e nei Territori Occupati da parte di Israele, supportato da molti governi occidentali, è stata finalmente siglata la tregua con Hamas.
Questa non è una tregua come altre nella storia dei conflitti tra paesi, questa è la Tregua con la T maiuscola: lo stato di Israele, appoggiato militarmente, politicamente e finanziariamente dal mondo intero, aveva scommesso di poter cancellare per sempre il movimento di resistenza islamica di Hamas. Nonostante i 15 mesi di durissimo scontro tra uno degli eserciti più avanzati del mondo e i gruppi paramilitari palestinesi, la devastazione di Gaza, l’elevato numero di vittime e l’embargo totale che dura da decenni, Israele è dovuto scendere a compromessi e ha firmato la Tregua con Hamas.
Non sono bastati a Israele i continui massacri, le torture, la privazione di cibo, di medicinali e di aiuti umanitari. Non è bastata l’uccisione dei leader di Hamas Ismail Haniyeh e Yahya Al Sanwar. Netanyahu e il suo governo di estremisti sionisti erano convinti che la popolazione di Gaza e Hamas stesso avrebbero sventolato la bandiera bianca e si sarebbero arresi, riconoscendo la sconfitta. Ma in questi mesi nessuna bandiera bianca ha mai sventolato tra le macerie, tantomeno oggi. Oggi sotto il cielo di Gaza e della Cisgiordania sventolano solo bandiere della Palestina.
Il bilancio di questi 15 mesi è drammatico da diversi punti di vista: fonti non ufficiali parlano di oltre 75.000 morti, 120.000 feriti, 15.000 dispersi, oltre la distruzione quasi totale delle infrastrutture, edifici, scuole e ospedali.
La resistenza di questi quasi 500 giorni di assedio sarà studiata nei libri e nelle accademie militari: i suoi protagonisti, ovvero l’intero popolo palestinese, sono invincibili perché da troppe generazioni vivono per lottare contro l’oppressore, l’identità stessa del popolo palestinese è plasmata sul concetto di resistenza.
Da parte mia, questa tregua rappresenta senza dubbio una vittoria della resistenza palestinese, che ha dettato le regole e ha impedito al governo fascista israeliano e a tutti i suoi sostenitori di realizzare un successo militare e politico. L’unica vittoria, se può essere considerata tale, del primo ministro israeliano, è l’uccisione indiscriminata di bambini e civili: in realtà una infame sconfitta morale ed etica che finirà anch’essa nelle pagine più buie dei libri di storia.
La Tregua tra Hamas e Israele è un testo articolato molto complesso, elaborato, controverso, da analizzare con attenzione per evitare ogni forma di equivoci e di interpretazioni errate. La sua applicabilità dipende dai firmatari (Hamas e Israele) e dai suoi garanti (Egitto e Qatar ). In sintesi, il cessate il fuoco inizia domenica 19 gennaio 2025. L’accordo prevede 3 fasi di 6 settimane ciascuna. Nella prima fase si compirà il ritiro in modo graduale dell’esercito israeliano e saranno rilasciati 33 ostaggi israeliani in cambio di circa 1700 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Non si esclude che tra i prigionieri palestinesi ci sia anche il leader dell’intifada Marwan Barghouti. L’accordo prevede anche il ritorno della popolazione palestinese alle poche case ancora in piedi nella Striscia di Gaza.
L’esercito israeliano conserverà una forma di controllo marginale sui corridoi chiamati Saladino e Filadelfia e su una striscia di sicurezza di 700 metri lungo i confini di Gaza. Nella seconda e terza fase dell’accordo riprenderanno le trattative a partire dal sedicesimo giorno dell’entrata in vigore dell’accordo. Inoltre cessa il blocco dei rifornimenti che ha provocato la carestia e la morte per fame di migliaia di esseri umani: sarà ammesso l’ingresso degli aiuti umanitari con 600 camion al giorno e 50 camion di petrolio.
Sono più e meno gli stessi elementi dell’accordo proposto da Biden nel mese di maggio 2024 con l’aggiunta di dettagli supplementari elaborati dai mediatori egiziani. Da ricordare che la precedente proposta di cessate il fuoco fu respinta da Netanyahu, che preferì occupare il corridoio di confine tra Gaza e Egitto, facendo di fatto fallire la trattativa. Sette mesi di ritardo, di morti, di devastazione, che hanno permesso al primo ministro di conservare il consenso politico in patria, a Joe Biden di proteggere le lobbies israeliane in America e a Donald Trump di vincere le elezioni presidenziali dello scorso novembre. Tutto a spese del popolo palestinese.
Le Nazioni Unite valutano in circa 80 anni il periodo necessario per la ricostruzione della Striscia di Gaza. Oltre il 70% delle costruzioni sono state distrutte e in alcune zone nel nord la percentuale raggiunge il 100%. Le macerie, le bombe, i missili non esplosi rappresentano non solo un pericolo per la popolazione oggi, ma un ostacolo per il ritorno alla normalità, se di normalità si potrà mai parlare.
Questa catastrofe dentro la catastrofe che dura dalla prima metà del Novecento, non ha impedito alla popolazione di Gaza di uscire e festeggiare con il segno della vittoria e con la bandiera palestinese. Nessuna potenza militare può soffocare la speranza del popolo palestinese di avere la sua dignità, il suo passaporto e il suo Stato secondo il diritto internazionale. Che sia da lezione per Israele e per tutto il mondo occidentale che l’ha sostenuto in questo genocidio.
Ora tutte le parti in causa devono cooperare per garantire il rispetto e l’applicazione di questo accordo: che entrino ora tutti gli aiuti umanitari di cui necessita urgentemente la popolazione, ma che si lavori per il riconoscimento dello Stato di Palestina entro confini sicuri e riconosciuti e si continui a lottare su scala globale per la fine dell’occupazione. Altrimenti arriveranno nuovi massacri, seguiti da nuove tregue. L’unica certezza è che non sventolerà mai una bandiera bianca, perché la resistenza finirà solo con la vittoria del popolo palestinese”.
Milad Jubran Basir, giornalista italo-palestinese e militante Sinistra Italiana Forlì-Cesena
Libertà condizionata L'Iran: «L'arresto della giornalista non è una ritorsione, ma ci auguriamo che il caso si risolva presto». L'Italia temporeggia per la questione dell'estradizione di Abedini negli Usa
«L’arresto di Cecilia Sala non è una ritorsione» per quello di Mohammed Abedini. La prima parte del discorso fatto ieri dalla portavoce del governo di Teheran Fatemeh Mohajerani ribadisce la linea della negazione inaugurata ieri dall’Iran. La frase dopo, però, nel suo contraddire le premesse, suona decisamente come un’apertura: «Ci auguriamo che la questione della giornalista venga risolta rapidamente». Mentre in Italia prosegue la linea del silenzio stampa – nessuna comunicazione ufficiale sul tema -, nella Repubblica islamica ormai non passa giorno senza che si dica qualcosa del caso Sala-Abedini. Il fatto che le dichiarazioni siano sempre almeno in parte discordanti – alla Farnesina l’ambasciatore Mohammad Reza Sabouri aveva confermato il legame tra le due vicende – conferma un’analisi molto diffusa tra gli osservatori delle cose iraniane: tra il governo e l’intelligence non c’è accordo totale sulla gestione del dossier e, con ogni probabilità, la decisione di arrestare Sala è stata presa senza che l’esecutivo ne sapesse nulla.
In Italia la questione è quasi speculare: l’arresto di Abedini è avvenuto il 16 dicembre all’insaputa degli apparati di intelligence: gli Usa – che vorrebbero l’estradizione dell’ingegnere perché sospettato di aver venduto componenti tecnlogiche belliche ai Pasdaran – si sono coordinati solo con la polizia, escludendo i servizi segreti, che così, fatalmente, non sono più stati in grado di garantire la sicurezza della reporter di Chora Media a Teheran, presa il 19 dicembre.
Cosa sia successo tra il primo e il secondo evento, comunque, resta complicatissimo da ricostruire, ma l’ipotesi più probabile (nonché peggiore) è che non sia successo proprio niente . Nessuno si è preoccupato di valutare con attenzione il peso che poteva avere l’arresto di un iraniano dietro richiesta Usa, nessuno ha pensato che forse sarebbe stato il caso di tutelare in qualche modo gli italiani a Teheran. Va detto che tutto è avvenuto con grande velocità: la richiesta di Washington all’Interpol è datata 13 dicembre, il blitz a Malpensa è scattato il 16 dicembre e la convalida dell’arresto è del giorno successivo.
Ieri, intanto, l’avvocato Alfredo De Francesco è tornato nel carcere di Opera per fare visita ad Abedini. Il colloquio è servito sia a discutere degli ultimi avvenimenti di carattere giudiziario (la procura generale della Corte d’appello di Milano ha confermato il suo parere negativo alla scarcerazione) e a elaborare un minimo di strategia in vista dell’udienza del 15 gennaio, quando i giudici dovranno decidere sull’eventuale concessione degli arresti domiciliari. È possibile che l’iraniano farà una dichiarazione per respingere ogni accusa. Quasi una formalità, perché tutto è appeso alla vera trattativa in corso, che per Roma non è tanto quella con Teheran quanto quella con Washington. Èdall’altra parte dell’Atlantico, infatti, che dovranno in qualche modo accettare il fatto che Abedini non verrà estradato (può deciderlo in qualsiasi momento il ministro della Giustizia in autonomia in virtù del codice di procedura penale) e che, di conseguenza, verrà scambiato per la liberazione di Sala. Gli apparati di sicurezza Usa sono contrari a ogni ipotesi di questo genere – ritengono l’ingegnere in possesso di molte informazioni interessanti -, mentre, con la sua breve visita dnella residenza di Mar-a-Lago, nella notte tra sabato e domenica, la premier Meloni avrebbe ottenuto qualche apertura in più da Donald Trump in persona. A patto che tutto si risolva prima del suo insediamento, il 20 gennaio.
I tagli agli italiani Mentre il governo Meloni racconta un paese immaginario siamo arrivati al ventunesimo mese consecutivo di crollo della produzione industriale. Lo ha attestato l'Istat. La scelta di un'economia di guerra: l'esecutivo ha tagliato 4,6 miliardi all’automotive e li ha destinati alle armi. Beko: confermati 1.935 esuberi. Scioperi a Varese e a Siena. Fiom: «Urso chiarisca»
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso
Siamo arrivati al 21esimo mese consecutivo di crollo della produzione industriale. Lo ha attestato ieri l’Istat. Una situazione di cui è politicamente responsabile il governo Meloni che è in carica da 25 mesi. La «lunghissima fase di contrazione», così è stata definita dall’Istat, è stata alimentata in particolare dal crollo di due settori: la produzione delle auto e quella del tessile. Solo nell’ultimo anno la produzione delle auto è crollata di oltre il 40% del suo valore, quella più generale dei mezzi di trasporto del 16,4%.
LA CRISI È GENERALE. Oltre a Stellantis, c’è Versalis o Glencore, e molte altre. Beko Europe ieri ha confermato «integralmente» il piano industriale con 1.935 esuberi, la chiusura degli stabilimenti e i ridimensionamento degli impiegati. Al tavolo di crisi Adolfo Urso, «ministro al made in Italy», ieri ha confermato che il «Golden power» è uno dei misteri gloriosi del governo Meloni. Urso ha fatto un excursus storico sulla crisi dell’elettrodomestico in Italia e ha concesso all’azienda un «secondo tempo supplementare». «Inaccettabile» hanno concluso i sindacati Fiom e Fim. Oggi è sciopero a Varese, venerdì a Siena.
IL TESSILE. Nel rapporto «flash» dell’Istat si è letto che ci sono state perdite da oltre il 20% nell’ultimo anno nei comparti della valigeria e degli articoli da viaggio e in quelli della concia e della preparazione del cuoio. I lavoratori di questo settore sono 110 mila, In Toscana 16 mila. Ordinativi in stallo, consumi fermi per i bassi salari, aumento della cassa integrazione. La situazione è drammatica. A Firenze c’è stato uno sciopero regionale.
CRESCONO INVECE I SETTORI dell’alimentare e della farmaceutica, oltre che dei servizi energetici, ha scritto l’Istat. In generale sappiamo che crescono i servizi «poveri»: turismo, ristorazione e affini. Ci puntano gli enti locali che aumentano le tasse di soggiorno al fine di compensare i tagli del governo (8 miliardi fino al 2037 ha sostenuto il presidente dell’Anci Manfredi). E ci punta il governo che blatera di «miracolo italiano». A tale proposito andrà conservato il tragicomico tweet del 3 agosto dall’account di Fratelli d’Italia: «Le buone politiche del governo Meloni – si legge – avrebbero garantito «un’economia sempre in crescita mentre in Europa il settore manifatturiero ha subito una battuta d’arresto». La castroneria è stata contestata online. I motivi della crisi sono: fiacca domanda e crisi degli investimenti; tassi di interesse ancora troppo alti, così come lo sono i prezzi energetici; crisi sistemica dell’auto e i bassi salari. Si producono modelli costosi, sempre di meno sono i compratori.
IL 6 DICEMBRE l’Istat ha dimezzato la crescita 2024 dall’1% allo 0,5% e ha reso evidente come la legge di bilancio sia basata su previsioni superate. Eppure la crescita, pur stentata, c’è ed è trainata dai settori a più basso valore aggiunto, senza innovazione, bassi salari e alta precarietà. Questo è il motore dell’occupazione. Nelle prospettive per il 2025 l’Istat ha sostenuto che ci sarà un rallentamento. La «bolla» di posti di lavoro in più («mai così dai tempi di Garibaldi» ha detto il 25 ottobre Meloni in uno dei suoi involontari eccessi comici) si sta sgonfiando. Crescita e occupazione si stanno riallineando. Sempre di lavoro povero si tratta. Meloni & Co. «raccontano un paese immaginario, ma il paese reale affonda – ha sostenuto Pino Gesmundo ( Cgil) – E il ministro Urso si limita ad assecondare passivamente le richieste delle imprese e dei fondi di investimento, senza visione delle politiche industriali».
FACCIAMO UN’IPOTESI. Quella del governo è solo un’incapacità di governare un’economia industriale in dismissione? Oppure, facendosi trasportare da correnti ben più significative, l’esecutivo si è convertito a un’economia di guerra? Nella legge di bilancio c’è una prima risposta: il taglio di 4,6 miliardi di euro al fondo «green» dell’automotive, cioè il settore devastato dal crollo della produzione industriale. Questi soldi saranno trasferiti all’industria italiana che produce armi. Secondo il rapporto Mil€x nel 2025 la spesa militare esploderà: 32 miliardi, 13 in più per le armi.
IL COMMISSARIO UE alla «difesa» Andrius Kubilius ha ricordato ieri alla Reuters che è in preparazione un fondo comune europeo per le armi «da 500 miliardi di euro». Da un lato si decide di non finanziare il futuro dell’auto; dall’altro lato, si riversano soldi sui fabbricanti di cannoni. «Leonardo – ha sottolineato Kubilius – è tra le industrie della difesa più forti in Europa e nel mondo». Il messaggio, in fondo, è chiaro: le guerre reali, e quelle della propaganda, sono usate per trainare ciò che resta dell’industria verso il cosiddetto Warfare.
Si è conclusa alle ore 15:00 di oggi 24 novembre 2024 la consultazione in rete degli iscritti del Movimento 5 Stelle sulle proposte oggetto di consultazione in rete nell’ambito dell’Assemblea Costituente, con i seguenti risultati:
Aventi diritto al voto 88.933
Per i quesiti relativi alle modiche dello Statuto hanno votato in 54.452 (61,23 % degli aventi diritto);
Per i quesiti relativi alle modiche del Codice etico hanno votato in 48.112 (54,10% degli aventi diritto);
Per i quesiti relativi alle proposte tematiche hanno votato in 46.402 (52,18 % degli aventi diritto);
Per i quesiti relativi organizzazione territoriale e proposte varie hanno votato in 45.825 (51,53% degli aventi diritto).
Qui puoi scaricare le slides mostrate durante l’evento NOVA.
Chris Wright è ormai da qualche giorno il segretario in pectore all’Energia designato dal presidente americano eletto Donald Trump.
Wright è amministratore delegato di Liberty Energy, società di servizi petroliferi specializzata nel fracking, la fratturazione idraulica della crosta terrestre che ha avviato la rivoluzione del petrolio di scisto, o “shale oil”, e che ha permesso agli Usa di diventare il maggiore esportatore mondiale di greggio.
Il segretario designato all’Energia Usa è sostanzialmente un negazionista climatico. Ritiene cioè che la crisi del clima non sia affatto una crisi ma solo una “sfida globale” e che sia “ben lontana dall’essere la più grande minaccia alla vita umana”, come sostiene anche il rapporto Bettering Human Lives, pubblicato quest’anno da Liberty Energy.
Non crede inoltre sia in corso alcuna transizione energetica e ritiene che una fonte di energia valga l’altra, “purché sia sicura, affidabile, conveniente e migliori le vite umane”.
Se sarà confermato (sempre che il Senato Usa non vada in recesso e i ministri voluti da Trump siano ufficializzati senza l’approvazione della Camera alta) che cosa ci si può attendere dalla sua nomina?
La risposta, a grandi linee, l’abbiamo già fornita in precedenti articoli considerando le affermazioni di Trump, di cui Wright seguirà ovviamente la linea. Cerchiamo di fare qui qualche considerazione, con una sorta di pagella scolastica di previsione degli effetti che il duo Trump-Wright avrà sul trittico energia-clima-ambiente.
I giudizi non esprimono un valore assoluto, ma una tendenza relativa all’avanzamento o al regresso realisticamente attendibile delle singole voci considerate, soprattutto nel breve-medio termine.
La nomina di Wright conferma lo spostamento delle priorità energetiche dell’Amministrazione Usa verso i combustibili fossili e una presa di distanza dalle rinnovabili, con potenziali benefici per l’energia nucleare, ma possibili e significative battute d’arresto per l’eolico, con FV e EV a passo un po’ ridotto, quanto a effetto netto delle nuove politiche Usa rispetto alle dinamiche normative e di mercato già in atto.
Le decisioni degli Stati Uniti si concentreranno sull’accessibilità e la sicurezza energetica a scapito della riduzione delle emissioni e della tutela dell’ambiente. Tuttavia, le dinamiche del settore privato, le iniziative a livello statale e le dinamiche del mercato globale controbilanceranno in modo importante le tendenze Usa nei comparti energetici, mentre la frenata di Washington su clima e ambiente avrà un impatto negativo maggiore sul ritmo di decarbonizzazione, che risultava già troppo lento rispetto agli obiettivi anche prima dell’entrata in scena del duo Trump-Wright.
Cerchiamo di motivare più nel dettaglio le previsioni appena fatte.
“Il mondo funziona con petrolio e gas, e ne abbiamo bisogno”, dichiarava Wright alla CNBC nel 2023, affermando che la richiesta di abbandonare i combustibili fossili in un decennio è una “tempistica assurda“.
Wright, come Trump, è un evangelista degli idrocarburi e della deregolamentazione. La conseguenza più immediata di questi due orientamenti è che negli Usa le società petrolifere e del gas fossile otterranno molto più facilmente i permessi di esplorazione e trivellazione nelle terre e acque federali.
Le semplificazioni non si tradurranno in un nuovo boom della produzione petrolifera nel breve-medio termine.
La maggior parte della produzione Usa avviene infatti su proprietà statali, non federali. Ciò significa che, nonostante la deregolamentazione prossima-futura, né il presidente Usa né il suo segretario all’Energia possono aumentare unilateralmente la produzione di greggio, nonostante la retorica politica. Se gli Stati vogliono offrire più permessi, non devono aspettare la nuova amministrazione Usa.
La verità è che la produzione di petrolio, come quella di qualunque altra commodity, risponde soprattutto all’andamento dei prezzi. Se le estrazioni di shale oil Usa aumenteranno sarà sulla scia di prezzi sostenuti, non di altro, e potrebbero volerci anni per sviluppare nuovi giacimenti.
“Non ci aspettiamo che le prospettive di produzione degli Stati Uniti, almeno nel 2025, siano realmente influenzate dalle elezioni di Trump”, ha dichiarato Payam Hashempour, analista di S&P Global Commodity Insights.
Attualmente, i prezzi petroliferi internazionali sono relativamente alti, a causa del contenimento delle quote di produzione dell’OPEC+. Ma stanno aumentando le pressioni da parte degli Stati membri per aumentare le quote di produzione.
Dall’altra parte, nuove e maggiori eventuali sanzioni contro Paesi produttori, come Iran e Venezuela, potrebbero portare a una riduzione delle forniture e a un aumento dei prezzi.
Ma è improbabile che questo possibile calo delle forniture di due soli Paesi sovrasti l’atteso aumento dell’offerta dell’OPEC+. S&P Global Commodity Insights prevede dunque un eccesso di offerta di circa un milione di barili al giorno nel primo trimestre del 2025. Ciò potrebbe comportare un calo dei prezzi, con conseguente riduzione della produzione petrolifera Usa, a prescindere da Trump e Wright.
È dallo scorso gennaio che gli Usa hanno messo in pausa le autorizzazioni per gli accordi di gas naturale liquefatto (Gnl) con i Paesi non aderenti agli accordi di libero scambio.
La produzione di gas fossile con Trump e Wright potrebbe fare leva sulle stesse politiche permissive citate per il petrolio. L’andamento del mercato del gas però è di più difficile vaticinio, perché dipenderà in misura maggiore da vari fattori incrociati di politica internazionale e commerciale.
Il settore attende, infatti, di capire come si muoverà Trump rispetto alla guerra tra Russia e Ucraina e circa nuovi potenziali dazi contro la Cina.
Un’eventuale spinta americana verso un cessate il fuoco o un accordo di pace fra Russia e Ucraina potrebbe liberare nuovi flussi di gas via tubo verso l’Europa, che però nel frattempo ha ridotto molto la sua dipendenza dal gas russo.
Al contrario, i flussi di Gnl americano potrebbero ridursi in caso di guerra commerciale con la Cina, la cui domanda di gas continua a rimanere forte e che cercherà di aumentare la produzione interna, oltre a incrementare altre importazioni.
Nel breve-medio termine, insomma, potrebbe esserci una maggiore disponibilità di gas russo via tubo in Europa e una domanda cinese che dovrebbe riuscire a essere soddisfatta da un maggior numero di flussi regionali via tubo da fornitori asiatici e di carichi di Gnl provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, secondo S&P Global Commodity Insights.
In caso di rinnovate tensioni commerciali, il settore gas americano ridurrebbe o interromperebbe i carichi di Gnl verso la Cina. Tale gas potrebbe rimanere in parte in patria, continuando a dirigersi come Gnl soprattutto verso l’Ue, dove gli stoccaggi sono comunque pieni, o il Giappone.
Se l’inverno 2024/25 si rivelasse particolarmente rigido, potrebbe esserci una domanda maggiore, ma la combinazione di queste possibili dinamiche sembra indicare più un’abbondanza che una carenza di offerta di gas a livello internazionale e nelle varie regioni del mondo nel breve-medio termine.
In questo scenario, i prezzi del gas non salirebbero e, come per il petrolio, la sola presenza di Trump alla Casa Bianca e di un industriale del fracking al dipartimento dell’Energia non sarebbero sufficienti a innescare una nuova corsa agli idrocarburi. Tutto ciò al netto del fatto che l’elettrificazione degli Usa e del resto del mondo continua, sostituendo gradualmente il fabbisogno di gas e greggio.
Il presidente uscente Joe Biden è stato molto favorevole allo sviluppo dell’eolico marino e, per una sorta di reazione uguale e contraria, è prevedibile che Trump e il suo segretario all’Energia siano fortemente avversi a questa tecnologia.
Nonostante il 70% dell’energia eolica Usa sia generata negli Stati a maggioranza repubblicana, durante la campagna elettorale Trump ha detto che una delle prime cose che avrebbe fatto da presidente è annullare i diritti di superficie concessi per l’eolico offshore e di non offrirne di nuovi. Sembra improbabile che si arrivi a un annullamento delle concessioni in essere, visti i contenziosi che ciò innescherebbe e i tempi lunghi di una loro risoluzione.
È più probabile una stretta sui nuovi permessi, oppure che l’Amministrazione entrante si affianchi agli oppositori locali dell’eolico nei contenziosi civili nei casi di Nimby, aumentando le possibilità di frenare l’espansione del comparto. Su questo fronte la Casa Bianca potrebbe poi intervenire tramite una riforma dell’Inflation reduction Act (IRA), eliminando o riducendo i crediti d’imposta riguardanti l’eolico.
A differenza dell’eolico, il fotovoltaico è stato preso molto meno di mira da Trump durante la campagna elettorale. Data la crescente competitività dei costi dell’energia FV, questa dovrebbe continuare a espandersi anche senza il sostegno federale, pur se un po’ più lentamente.
I settori commerciale, industriale e delle utility stanno investendo infatti sempre più nel FV per ridurre i costi energetici e raggiungere gli obiettivi di sostenibilità, creando una domanda che prescinde dalle politiche federali.
A differenza dell’eolico, che è principalmente di grande taglia, il fotovoltaico può contare negli States su una miriade di piccoli impianti sui tetti delle case, che combaciano molto di più con l’idea di indipendenza, autonomia e resilienza individuale tanto cara alla mitologia della frontiera americana.
Anche sul fronte dei grandi impianti, comunque, il Texas, uno degli Stati repubblicani per eccellenza e teatro di tanta parte della mitologia americana della frontiera, ha sviluppato più energia FV (e anche eolica) di scala utility di qualsiasi altro Stato, ed entro la fine dell’anno supererà la California per il maggior numero di batterie collegate alla rete.
È abbastanza impensabile, visti i costi minori di queste soluzioni, che il Texas rinunci tanto facilmente alle rinnovabili con batterie, visto il ruolo svolto nell’evitare le emergenze di rete quest’estate.
Data poi la dichiarata volontà della prossima Amministrazione Trump di inasprire ulteriormente i dazi contro la Cina, anche nel segmento FV, difficile pensare a una contemporanea esclusione del fotovoltaico dai crediti d’imposta dell’IRA a casa propria, o un loro ridotto accesso, in un momento in cui si vuole consolidare il rimpatrio di almeno alcuni anelli della catena di fornitura.
Gli incentivi federali esistenti per il fotovoltaico e i veicoli elettrici godono poi di un sostegno bipartisan e potrebbero essere molto difficili da eliminare o ridurre, visto che il grosso dei sussidi è andato agli Stati repubblicani.
Il potenziamento previsto della rete elettrica, che tecnicamente non fa distinzione sulle fonti di generazione, rappresenta di per sé un fattore abilitante anche per le rinnovabili, oltre che per la generazione a gas, allentando uno dei maggiori colli di bottiglia dell’elettrificazione dei consumi.
Anche il mercato dei veicoli elettrici ha raggiunto un punto di svolta. Aziende americane come GM, Ford e Tesla (il cui capo Musk e notoriamente braccio destro di Trump) hanno effettuato ingenti investimenti nella produzione di veicoli elettrici, rendendo improbabile un’inversione di rotta del settore a causa di possibili cambiamenti nelle politiche federali.
L’industria automobilistica Usa, inoltre, non può fare a meno di allineare la propria produzione ai mercati internazionali, dove l’elettrificazione dei trasporti rimane una priorità, con i costi delle batterie che continuano a calare grazie a progressi tecnologici ed economie di scala, rendendo gli EV più accessibili.
La tendenza di lungo termine all’aumento della domanda da parte dei consumatori, grazie alla crescente consapevolezza dei problemi climatici, alla riduzione dei prezzi dei veicoli elettrici e al miglioramento delle infrastrutture di ricarica, sostiene insomma un’ascesa continua del settore, anche se forse più lenta.
Wright siede nel Consiglio di amministrazione di Okloha, una società impegnata nello sviluppo di reattori nucleari modulari, e come Trump ha espresso molto interesse per le fonti ad alta densità energetica come il nucleare, nelle vesti di complemento affidabile e scalabile agli idrocarburi, ponendolo come una delle opzioni preferite per la decarbonizzazione, a scapito delle rinnovabili.
Tale scenario, però, ha poche probabilità di realizzarsi nel breve-medio termine o anche entro la fine del mandato di Trump, cosa che rende il nucleare un’opzione molto più teorica che pratica, visti i ritardi sui tempi e gli sforamenti dei costi che da anni caratterizzano le diverse varianti di questa tecnologia.
Ciò nonostante, l’attenzione e le risorse dedicate al nucleare, che gode di grande appoggio anche da parte del Partito Democratico, aumenteranno. È prevedibile quindi che durante il suo mandato, Wright presiederà a un aumento dei finanziamenti federali e del sostegno alle tecnologie nucleari, come appunto i piccoli reattori modulari.
È scontato anche che la nuova Casa Bianca snellirà le autorizzazioni per i nuovi progetti nucleari, anche tradizionali, facendo vivere a questa tecnologia una rinnovata fase di fermento.
Segnata dalla probabile uscita degli Usa dall’Accordi di Parigi del 2015 e forse anche dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la nuova politica climatiche americana darà priorità alla crescita economica e all’accessibilità energetica rispetto agli obiettivi di decarbonizzazione, riflettendo lo scetticismo o il negazionismo circa la portata dei mutamenti climatici rispetto ad altre sfide globali.
Le norme ambientali per l’estrazione e l’uso dei combustibili fossili saranno ridotte per stimolare la produzione di idrocarburi, aumentando le emissioni di gas serra. Anche gli sforzi di contenere le emissioni fuggitive di metano, cioè di gas fossile, che ha una capacità climalterante oltre 80 volte maggiore di quella della CO2, saranno probabilmente ridotti o interrotti.
Gli Usa cercheranno quindi di concentrarsi maggiormente sull’adattamento ai mutamenti climatici piuttosto che sulla loro mitigazione, cioè sulla riduzione delle emissioni.
Le modifiche delle regole sotto Trump e Wright potrebbero portare a 4 miliardi di tonnellate di emissioni statunitensi in più entro il 2030 rispetto ai piani democratici, secondo un’analisi di Carbon Brief.
Questi 4 miliardi di tonnellate di CO2 in più entro il 2030 annullerebbero, moltiplicati per due, tutti i risparmi di CO2 ottenuti negli ultimi cinque anni grazie a eolico, fotovoltaico e altre tecnologie pulite in tutto il mondo. Inoltre, causerebbero danni climatici globali per oltre 900 miliardi di dollari, secondo le valutazioni dell’Environmental Protection Agency (Epa) Usa.
In base alle politiche attuali, ci dovrebbero essere circa 7.700 miliardi di dollari di investimenti per il settore energetico statunitense nel periodo 2023-2050, secondo la società di analisi Wood Mackenzie. L’elezione di Trump potrebbe far scendere tale cifra di 1.000 miliardi di dollari (1 trilione di dollari), se i repubblicani annulleranno le politiche che sostengono l’energia a basse emissioni con le relative infrastrutture.
Sebbene un’Amministrazione Trump con Chris Wright come Segretario all’Energia potrebbero ridurre il sostegno federale a eolico, fotovoltaico e veicoli elettrici, tendenze strutturali come la competitività del mercato, le politiche statali, le iniziative aziendali, le dinamiche globali e il sostegno di una grossa fetta dell’opinione pubblica sosterrebbero comunque la crescita delle rinnovabili.
La nuova Casa Bianca non riuscirà insomma a invertire la transizione energetica e la decarbonizzazione, ma sicuramente le freneranno, a scapito di clima e ambiente, con emissioni nette che tarderanno ancora di più a raggiungere il picco storico, prima di iniziare a scendere.
È una conseguenza grave, visto che secondo il consenso scientifico il tempo per rallentare il surriscaldamento dell’atmosfera è poco e che questo decennio sarà cruciale nell’indirizzare la crisi del clima in peggio o in meglio.
I prossimi quattro anni avranno insomma un impatto decisivo sulle sorti del pianeta e dell’umanità e il risultato che il duo Trump-Wright avrà sul trittico energia-clima-ambiente sarà negativo. Rimane da vedere in che misura esattamente, se in maniera poco percettibile rispetto alla status quo o se con una forza molto maggiore.
Smontata la legge Calderoli in ben 7 punti. Torna la centralità del Parlamento: la strada costituzionale è quella del regionalismo solidale. Cgil: “Continuiamo a sostenere la richiesta di referendum”
Bisognerà aspettare il dispositivo della sentenza ma le tre pagine di comunicato rese pubbliche dalla Corte costituzionale al termine della due giorni di camera di consiglio sono chiare. Così come è concepita la legge Calderoli non va bene, sono 7 i punti ritenuti incostituzionali dai supremi magistrati.
È quella dunque compiuta dalla Cgil che da tempo contrasta questa idea di autonomia differenziata. Si rimarca infatti in una nota della Confederazione di Corso d’Italia: “A leggere il comunicato stampa con cui la Corte costituzionale ha anticipato i contenuti della sentenza che dichiara illegittime parti significative della Legge Calderoli, trovano ‘solenne’ conferma molte delle ragioni che ci hanno spinto a mobilitarci per contrastarla e a schierarci, fin dal 2017, contro un percorso di attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione che minava l’unità del Paese”.
È proprio questo uno dei punti di bocciatura della norma: la devoluzione complessiva delle 23 materie previste da Calderoli è in contrasto con la Costituzione. Dice infatti la Corte che si possono devolvere solo funzioni legate alle singole materie e solo se esistono ragioni precise e specifiche per singola Regione per farlo. Altro che tutta l’istruzione, tutta la mobilità, tutta la politica energetica ecc: è la differenza che passa tra il regionalismo solidale voluto dai costituenti e la competizione tra Regioni auspicata da Zaia, Fontana, Calderoli e Salvini.
La nota della Cgil, parlando della bocciatura della Corte, aggiunge: “È la dimostrazione che si tratta di un disegno volto a disarticolare la Repubblica in venti piccole patrie e a compromettere irrimediabilmente i fondamentali principi di uguaglianza, di solidarietà e di coesione sociale.
Altro punto dirimente riguarda i Lep. Innanzitutto non può esserci differenza tra le materie Lep e quelle non Lep nella devoluzione di funzioni e un’affermazione contenuta nel comunicato fa ben capire quanto i diritti di cittadinanza siano da tutelare ovunque e per tutti. Scrive la Corte che l’autonomia differenziata “deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini”.
Altro che intese tra Regioni e governo, altro che definizione dei livelli essenziali delle prestazioni stabiliti a Palazzo Chigi, l’alta magistratura afferma che tutto deve essere deciso da Camera e Senato, le intese devono essere discusse ed emendate dal Parlamento, così come la definizione dei Lep e tutta la parte fiscale. Un bel cambio di paradigma davvero, e un bel ritorno alla Carta del ’48. Speriamo valga non solo per l’autonomia differenziata, il riequilibrio tra potere esecutivo e potere legislativo sarebbe davvero auspicabile.
Rimane ovviamente in piedi il quesito referendario sottoscritto da oltre un milione di cittadine e cittadine che chiede l’abrogazione dell’intera norma. Nessuna correzione di quel testo a cura dello stesso autore, il ministro Calderoli, potrà farla tornare nel solco costituzionale. Conclude, infatti, la nota della Cgil: “Attendiamo, ovviamente, la pubblicazione della sentenza per valutazioni più approfondite. Riteniamo comunque che, per lo spirito egoista e separatista che ha ispirato fin dal principio questo progetto di autonomia differenziata, resti in piedi il rischio che si determinino danni pesantissimi al tessuto economico e sociale nazionale. Perciò continuiamo a sostenere la richiesta di referendum integralmente abrogativo sottoscritta da oltre 1,3 milioni di cittadine e cittadini affinché, nella prossima primavera, le elettrici e gli elettori possano cancellare definitivamente una legge pericolosa e antistorica, facendo tramontare ogni ipotesi di sua attuazione”.