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Smontata la legge Calderoli in ben 7 punti. Torna la centralità del Parlamento: la strada costituzionale è quella del regionalismo solidale. Cgil: “Continuiamo a sostenere la richiesta di referendum”

IMAGOECONOMICA IMAGOECONOMICA

Bisognerà aspettare il dispositivo della sentenza ma le tre pagine di comunicato rese pubbliche dalla Corte costituzionale al termine della due giorni di camera di consiglio sono chiare. Così come è concepita la legge Calderoli non va bene, sono 7 i punti ritenuti incostituzionali dai supremi magistrati.

Una scelta giusta

È quella dunque compiuta dalla Cgil che da tempo contrasta questa idea di autonomia differenziata. Si rimarca infatti in una nota della Confederazione di Corso d’Italia: “A leggere il comunicato stampa con cui la Corte costituzionale ha anticipato i contenuti della sentenza che dichiara illegittime parti significative della Legge Calderoli, trovano ‘solenne’ conferma molte delle ragioni che ci hanno spinto a mobilitarci per contrastarla e a schierarci, fin dal 2017, contro un percorso di attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione che minava l’unità del Paese”.

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Spacca Italia bocciato

È proprio questo uno dei punti di bocciatura della norma: la devoluzione complessiva delle 23 materie previste da Calderoli è in contrasto con la Costituzione. Dice infatti la Corte che si possono devolvere solo funzioni legate alle singole materie e solo se esistono ragioni precise e specifiche per singola Regione per farlo. Altro che tutta l’istruzione, tutta la mobilità, tutta la politica energetica ecc: è la differenza che passa tra il regionalismo solidale voluto dai  costituenti e la competizione tra Regioni auspicata da Zaia, Fontana, Calderoli e Salvini.

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La nota della Cgil, parlando della bocciatura della Corte, aggiunge: “È la dimostrazione che si tratta di un disegno volto a disarticolare la Repubblica in venti piccole patrie e a compromettere irrimediabilmente i fondamentali principi di uguaglianza, di solidarietà e di coesione sociale.

I diritti rimangono diritti

Altro punto dirimente riguarda i Lep. Innanzitutto non può esserci differenza tra le materie Lep e quelle non Lep nella devoluzione di funzioni e un’affermazione contenuta nel comunicato fa ben capire quanto i diritti di cittadinanza siano da tutelare ovunque e per tutti. Scrive la Corte che l’autonomia differenziata “deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini”.

La centralità del Parlamento

Altro che intese tra Regioni e governo, altro che definizione dei livelli essenziali delle prestazioni stabiliti a Palazzo Chigi, l’alta magistratura afferma che tutto deve essere deciso da Camera e Senato, le intese devono essere discusse ed emendate dal Parlamento, così come la definizione dei Lep e tutta la parte fiscale. Un bel cambio di paradigma davvero, e un bel ritorno alla Carta del ’48. Speriamo valga non solo per l’autonomia differenziata, il riequilibrio tra potere esecutivo e potere legislativo sarebbe davvero auspicabile.

Ora il referendum

Rimane ovviamente in piedi il quesito referendario sottoscritto da oltre un milione di cittadine e cittadine che chiede l’abrogazione dell’intera norma. Nessuna correzione di quel testo a cura dello stesso autore, il ministro Calderoli, potrà farla tornare nel solco costituzionale. Conclude, infatti, la nota della Cgil: “Attendiamo, ovviamente, la pubblicazione della sentenza per valutazioni più approfondite. Riteniamo comunque che, per lo spirito egoista e separatista che ha ispirato fin dal principio questo progetto di autonomia differenziata, resti in piedi il rischio che si determinino danni pesantissimi al tessuto economico e sociale nazionale. Perciò continuiamo a sostenere la richiesta di referendum integralmente abrogativo sottoscritta da oltre 1,3 milioni di cittadine e cittadini affinché, nella prossima primavera, le elettrici e gli elettori possano cancellare definitivamente una legge pericolosa e antistorica, facendo tramontare ogni ipotesi di sua attuazione”.

La Via Maestra Insieme per la Pace della provincia di Ravenna fa propria la Campagna promossa dalla Rete Pace e Giustizia in Medio Oriente per l’immediato  riconoscimento dello Stato di Palestina. Della Via Maestra della provincia di Ravenna fanno parte più di trenta associazioni, fra cui, ARCI, ANPI, CGIL, Casa delle donne, Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Donne in nero, Libera, Over All Faenza, UDI.

In tal senso, nel corso del tempo, si sono alzate tante autorevoli voci di organismi internazionali. Inoltre, i due terzi dei paesi che fanno parte delle Nazioni Unite riconosce lo Sato di Palestina e fra questi numerosi Stati Europei. L’Italia non può attendere oltre. Ci rivolgiamo quindi ai Sindaci della nostra Provincia con la richiesta di trasmettere ai Presidenti dei consigli Comunali, agli assessori competenti,  alle Consigliere e ai Consiglieri la lettera con la quale la Campagna è stata promossa  e una bozza di ordine del giorno che alcune importanti città, come Firenze e Milano, hanno già approvato.

Spediremo la lettera ai Sindaci e, contestualmente, in ogni città una nostra delegazione chiederà al Sindaco un incontro per illustrare le nostre ragioni  e verificare  un sollecito inserimento dell’ordine del giorno  nel calendario dei lavori del Consiglio Comunale. Una nostra delegazione seguirà il dibattito nei vari Consigli Comunali.

Avremo cura di informare di questa nostra azione anche sua Eccellenza il Prefetto di Ravenna.

La Via Maestra Insieme per la Pace della nostra provincia  ha inoltre predisposto  un proprio calendario di presidi permanenti per la fine del massacro del popolo palestinese, che molte autorevoli voci dicono possa definirsi genocidio.

Il primo presidio è previsto per il 26 ottobre, nel contesto della mobilitazione nazionale straordinaria contro la guerra promossa da moltissime associazioni, con il motto “Fermiamo le guerre. Il tempo della pace è ora!”.

Il presidio si terrà ogni sabato, fino alla fine di novembre, dalle 17 alle 18, in luoghi che variano a seconda della agibilità degli spazi.

Questo il calendario

26 ottobre, piazza Anita Garibaldi

2 novembre, Piazza del Popolo

9 novembre, Piazza del Popolo

16 novembre, piazza Andrea Costa

23 novembre, spazio da verificare

30 novembre, Piazza Andrea Costa

Valuteremo, a fine novembre, come continuare la mobilitazione.

La Via Maestra Insieme per la Pace della provincia di Ravenna

 

Tre anni fa ho partecipato, una notte, all’assemblea permanente all’ex GKN di Campi Bisenzio. Una notte di sorveglianza, a fine agosto, con dei giovani operai. Otto ore di racconti e riflessioni molto varie. Avevano perso il lavoro con un messaggino sul cellulare e non è che si facessero grandi illusioni sulla vittoria finale. Apparivano anzi molto consapevoli del realismo capitalista che dettava le regole del gioco del lavoro (sfruttato) e della vita (precaria) un po’ dappertutto. Immaginare gloriose vittorie era difficile. E tuttavia al presidio c’erano, con un grande legame affettivo, cioè con un legame politico. Si sentivano in questo intensamente fratelli – anche di noi, solo solidali, solo di passaggio. Mi sembravano un pezzo di classe che esisteva non solo in sé ma anche per sé, come soggetto politico, per quanto con la consapevolezza amara di tutto. Ma il tutto resta un problema. E non solo in Italia, dove le tragedie acquistano dal Governo sempre un po’ il tono della farsa crudele. Carcere per i neonati, telefoni vietati per i migranti, galera per qualunque dissenso, proclami di epica difesa dei sacri confini. E però è tutta l’Europa che va verso il baratro. E tutto l’Occidente, muto sulle stragi in Palestina. Sulla scena politica sembrano restare solo una specie di centrosinistra da establishment e una destra antiliberale e iperliberista, nazionalista e razzista. Come fosse sempre Hillary Clinton contro Donald Trump. E allora davvero non c’è partita.

L’immigrazione genera dappertutto la paura che detta l’agenda, che l’estrema destra sia al potere o no. Vedi Germania e Francia, ora Austria. In Germania, oltre all’AFD avanza il partito di “sinistra conservatrice” di Sarah Wagenknecht. Una specie di socialismo sovranista e patriottico, ma antiliberista e attento ai bisogni dei ceti svantaggiati. E quei bisogni includono una drastica riduzione delle aperture alle frontiere. Perché sarà vero che in termini assoluti l’immigrazione non è un’invasione, ma in certi quartieri popolari, lontani dalla ztl, quell’invasione c’è o è percepita come esserci. Minacciosa e competitiva. La classica vicenda dei penultimi contro gli ultimi, o degli ultimi contro i nuovi ultimissimi. Il suo partito personale (BSW) in questo forse assomiglia un po’ ai Cinque Stelle prima maniera, quella di Di Maio e delle Ong taxi del mare. In una intervista spiegò che il popolo sentiva la presenza dei migranti come una minaccia da allontanare. E loro erano il popolo, dunque riflettevano quella paura e quel bisogno. Lo assumevano. Contano solo i bisogni così come si presentano sulla scena – scena data per definizione, quella della penuria di risorse e dell’impossibilità di redistribuirle. Tutto il resto è sovrastruttura, moralismo dei ricchi, etica ridotta a lusso per le élite. E la classe che libera se stessa non libera più tutto il mondo, anzi si libera se si chiude al mondo. È possibile, come sostiene anche Stefano Fassina, che così si riconquisti il popolo alla sinistra – e però si paga mi pare un prezzo molto alto, quello di chiudersi in una politica dei bisogni che si nega ai desideri, che legge tutto a partire da una condizione di abbandono e solitudine. E non vede le altre tante periferie del mondo, né quanto l’ostilità verso l’immigrazione sia non un dato meccanico, prodotto necessariamente dalla condizione economica, piuttosto il risultato di quella condizione dentro un isolamento, nella desertificazione di relazioni politiche, di vicinato e prossimità, indotta dal neoliberismo che poi si sposa serenamente con i mitici legami del sangue e del suolo.

Credo che agisca in questa sinistra anche l’idea un po’ bizzarra che rivendicando il concetto di patria e di nazione magicamente le masse popolari si riavvicineranno, ritrovando la nobile tradizione di risorgimento e resistenza – si chiama “Patria indipendente” la rivista dell’Anpi. E tuttavia a me la verità sembra molto più banale. Senza un “privilegio nazionale” associato alla patria, della nazione non credo che importi molto a nessun nazionalista, di sinistra o di destra. Se la definizione non serve a escludere, la patria torna ad essere puro sterile mito. Il contenuto di liberazione che possedeva, oggi mi pare del tutto scomparso – salvo in certi paesi del sud del mondo o in America Latina, dove appunto conserva un contenuto di emancipazione. Da noi funziona solo come autorizzazione a liberarsi dallo sguardo degli altri: di quelli che fuggono, soffrono, o desiderano vivere la propria vita, altrove. Forse alla base c’è di nuovo l’accettazione del realismo capitalista che rende il grande capitale, globalizzato e finanziarizzato, inarrivabile, assurto a dato di natura. Sottratto al discorso pubblico.

Quando nel paese in cui sono nato arrivarono negli anni Sessanta i migranti dal sud d’Italia – che chiamavamo tutti “siciliani” di qualunque regione fossero – anche per loro c’era una sorta di segregazione sociale e culturale. Avevano i loro bar, le loro piazze, nelle scuole i loro quadernini neri del patronato scolastico. Uno stigma. Credo che siano stati salvati dal 68-69 operaio: da un progetto di liberazione collettiva che li faceva alleati nella lotta contro il capitale. Ma oggi, se non c’è quell’orizzonte politico di emancipazione, che almeno ci si liberi dalla concorrenza verso le risorse sempre più esigue dello stato ex sociale delle famiglie numerose degli ultimi arrivati. All’epoca il vecchio PCI teneva insieme tutte le dimensioni: quella economica con quella culturale ed etica. A me non piaceva quella lettura universale che disegnava una specie di chiesa capace di offrire tutte le risposte, però mi rendo conto adesso che funzionava. Dava appartenenza e apertura alla complessità – insieme a un filo rosso per attraversarla. Oggi è un casino. E c’è una separazione triste fra l’etica dell’accoglienza, l’apertura a chi soffre, il rispetto della natura e dei diritti di chi è diverso e i bisogni quotidiani di strati popolari abbandonati, senza speranza, che la sinistra ha perduto.

Questo tuttavia mette in evidenza un aspetto sacrosanto. Senza spostamento di risorse verso uno Stato sociale che sia protettivo per tutte e tutti; senza conversione ecologica e una radicale redistribuzione del reddito, di fronte alla penuria, le guerre fra poveri saranno inevitabili. E dunque il conflitto per le questioni sociali e ambientali, quello per i diritti civili e la libertà delle migrazioni, sono da tenere insieme. In Francia, in Place de la République, si poteva leggere in uno striscione: La nation est un tissu de migrationEcco: il popolo tanto invocato dai sovranisti è un tessuto di migrazioni. Lo è già di fatto. Basta guardare nelle nostre scuole, o le squadre alle olimpiadi. È in un certo senso tutto già accaduto. Ma è una realtà difficile a farsi discorso politico. Se non torna pensabile cambiare tutto. Se non si torna a parlare del capitalismo e dei suoi disastri. Così poco naturali.

 

Giappone Il premio di Oslo per la pace assegnato a Nihon Hidanky, l’organizzazione giapponese dei sopravvissuti alla bomba nucleare. Che ricorda: Gaza come allora Hiroshima

Un Nobel contro l’atomica I resti di un edificio a Hiroshima a seguito dell’impatto della bomba atomica – foto Ap

Il premio Nobel per la pace 2024 è stato assegnato all’organizzazione giapponese Nihon Hidankyo, un gruppo fondato nel 1956 da sopravvissuti delle due bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Il riconoscimento è stato assegnato per il forte e fermo impegno dell’organizzazione, che era già stata candidata in tre passate occasioni (1985, 1994 e 2015), nel costruire una società dove non esistano più le armi nucleari. Si tratta del secondo Nobel per la pace giapponese dopo quello vinto cinquant’anni fa dal primo ministro Eisaku Sato per l’adesione del Giappone al Trattato di non proliferazione nucleare.

NEL SUO DISCORSO, il presidente del comitato norvegese per il Nobel, Joergen Watne Frydnes, ha dichiarato che gli sforzi del gruppo e di altri rappresentanti degli hibakusha, i sopravvissuti ai due ordigni atomici, hanno contribuito in maniera importante alla formazione di un sentimento anti-nucleare nella società contemporanea. È quindi enormemente allarmante, ha continuato Frydnes, che oggi questo tabù contro l’uso delle armi nucleari sia messo sotto pressione e in discussione da paesi che stanno modernizzando e potenziando i loro arsenali. Inoltre nuovi stati sembrano prepararsi ad acquisire armi nucleari ed esiste la minaccia di usare queste testate nei conflitti attualmente in corso. Frydnes ha concluso il suo discorso sottolineando il fatto che, in questo momento della storia umana vale la pena ricordare a noi stessi cosa siano le armi nucleari, le armi più distruttive che il mondo abbia mai visto.

Una preoccupazione confermata dalla stessa associazione nipponica. «A Gaza vediamo bambini insanguinati, è come in Giappone 80 anni fa», ha affermato Toshiyuki Mimaki, direttore dell’organizzazione esposto alle radiazioni nella sua casa di Hiroshima all’età di 3 anni, commentando l’assegnazione del premio.

IL RICONOSCIMENTO arriva un anno prima dell’ottantesimo anniversario delle due bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945 e premia l’attività dell’organizzazione giapponese in un annata in cui fra i candidati c’erano anche l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres e la Corte penale internazionale, tra gli altri.

AL MOMENTO sono circa centocinquantamila gli hibakusha e la loro età media sarebbe, secondo i dati del governo giapponese, di 85 anni, il che significa che sarà sempre più difficile, in futuro, portare le loro testimonianze dirette alle nuove generazioni. Si tratta di una testimonianza che è inscritta, con dolore, nei corpi e nella memoria di questi sopravvissuti e delle loro famiglie, vittime che furono doppiamente colpite dalla tragedia. Non solo le bombe sganciate sulle due città con gli orrori che ne conseguirono infatti, ma il fatto che in seguito, e in parte ancora oggi, siano stati oggetto di discriminazione continua, senza dimenticare poi che lo stato Giapponese rifiutò la responsabilità di aver scatenato la guerra e quindi il conseguente risarcimento agli hibakusha, sia giapponesi sia i migliaia di coerani che furono portati in Giappone come manodopera e che si trovavano nelle due città al momento delle esplosioni.

LA TESTIMONIANZA dell’orrore senza fine causato dai due ordigni atomici e la colpa e responsabilità dello stato sono due dei pilastri su cui si fonda il Nihon Hidankyo, il cui nome completo è Confederazione Giapponese delle Organizzazioni delle Vittime delle Bombe Atomiche e a Idrogeno. Bomba a idrogeno perché in principio, fu fondato il dieci agosto 1956, si trattava di un gruppo di protesta anche contro i test americani effettuati nei pressi dell’atollo di Bikini a partire dal 1954, quando circa un migliaio di pescherecci giapponesi furono contaminati dalle radiazioni. È una coincidenza affascinante che proprio fra qualche settimana, esattamente il 3 novembre, si celebri il settantesimo anniversario dell’uscita del primo Godzilla diretto da Ishiro Honda, il 3 novembre 1954, lungometraggio che fu ispirato ai fatti dell’atollo di Bikini.

SECONDO LO STATUTO dell’organizzazione, i tre obiettivi principali delle attività del gruppo sono la prevenzione della guerra nucleare e l’eliminazione delle armi nucleari, da ottenere attraverso la firma di un accordo internazionale per la messa al bando e la totale eliminazione di queste. Il risarcimento da parte dello stato dei danni causati dalle due bombe, vale a dire, la responsabilità dello stato giapponese per aver scatenato la guerra, come si scriveva più sopra, dovrebbe essere pienamente riconosciuta con i conseguenti risarcimenti. Non ultimo, l’organizzazione si adopera e lotta per il miglioramento delle attuali politiche e misure di protezione e assistenza nei confronti degli hibakusha. Come ha fatto attentamente notare la studiosa Akiko Naono, una caratteristica poco discussa del Nihon Hidankyo, ma importante se si vuole comprendere come l’organizzazione abbia saputo evolversi, è stata la sua ferma opposizione verso il governo giapponese, una politica di fatta di lunghi contrasti e lotte

 

L'80° anniversario dell'eccidio Dopo il forfait in agosto a Stazzema il governo invia i ministri forzisti Tajani e Bernini

Sergio Mattarella incontra Frank-Walter Steinmeier foto LaPresse Sergio Mattarella incontra Frank-Walter Steinmeier – foto LaPresse

Oggi a Monte Sole e Marzabotto si celebra l’80 esimo anniversario dell’eccidio che Ss e fascisti perpetrarono tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 sulle colline a pochi chilometri da Bologna. Ci sarà Sergio Mattarella con il collega tedesco Frank-Walter Steinmeier: nel 2002 furono Carlo Azeglio Ciampi e Johannes Rau ad abbracciarsi sotto le querce di Monte Sole, un gesto di memoria e di riconciliazione per la più grave strage di civili della seconda guerra mondiale su territorio italiano. Incontreranno i parenti di alcune delle 770 vittime di quella violenza cieca contro civili inermi, alcuni trucidati dentro la chiesetta di Casaglia di cui ora restano solo le rovine. Poi visiteranno il sacrario, infine i discorsi ufficiali nella piazza di Marzabotto. La giornata si aprirà con jna messa officiata dal presidente della Cei Matteo Zuppi. Mattarella e Steinmeier, entrambi al secondo mandato, sono ormai amici, e hanno passato tre giorni sempre insieme durante la visita del capo dello Stato in Germania. E insieme partiranno domani da Colonia per raggiungere Bologna e poi Marzabotto. Steinmeier si è detto «grato» per l’invito e si appresta a venire in Italia con «profonda umiltà».

Il governo, last minute, fa sapere che ci sarà. Non si ripeterà quanto accaduto a Stazzema a inizio agosto, tra mille polemiche, quando l’esecutivo di Giergia Meloni non inviò neppure un sottosegretario all’80 esimo anniversario di quell’eccidio. Ci sarà il ministro degli Esteri e leader di Fi Antonio Tajani, che volerà dalla Germania a Bologna insieme al Cepo dello Stato che ha accompagnato durante la visita di Stato. E ci sarà anche la ministra dell’Università Anna Maria Bernini, sempre di Fi, bolognese. Presenze che fino a ieri pomeriggio non erano state comunicate, lasciando il dubbio che il governo Meloni volesse ignorare anche questo importante anniversario. E invece, complice la moral suasion del Quirinale, questo sgarbo è stato evitato. Non è un caso che il governo sia rappresentato da due esponenti di Forza Italia, mentre quelli di Fdi e Lega si siano tenuti a distanza, a partire dai sottosegretari bolognesi Galeazzo Bignami e la salviniana Lucia Borgonzoni .

Il ruolo del Colle è stato determinante per superare rancori, ferite e pregiudizi, per poter parlare da qualche anno di compiuta riconciliazione italo-tedesca. Nel 2013 i presidenti Giorgio Napolitano e Joachim Gauck resero omaggio a Sant’Anna di Stazzema, commemorando le 560 vittime della strage nazista del 12 agosto 1944. Per Mattarella la memoria è un pilastro fondamentale: il giorno stesso dell’elezione al Quirinale il suo primo atto ufficiale fu una visita alle Fosse Ardeatine a Roma. Ci tornò poi con Steinmeier nel maggio del 2017. In agosto, nel suo messaggio al sindaco di Stazzema, il presidente ricordò che in quei luoghi «la repubblica ha le sue radici» e che Stazzema, come Marzabotto, compongono un «sacrario europeo del dolore» da cui nasce la democrazia

Germania. La direzione del Gruppo ha prevalentemente ignorato importanti tendenze del mercato e non ha effettuato investimenti. Ora si è aperto il dibattito, cui partecipano politici e sindacati, su come salvare la casa d’auto. Anche con aiuti pubblici

Volkswagen, i problemi di mobilità sono problemi di classe Modellini giocattolo del Maggiolino Volkswagen, in basso una protesta nello stabilimento di Wolfsburg - Ap

La Volkswagen (VW) è in profonda crisi. Si annuncia la chiusura di alcuni impianti. Nel 2023, la multinazionale aveva ancora enormi riserve accumulate e registrava un utile netto di 16 miliardi. Di questi, 4,5 miliardi sono stati distribuiti nel 2024. Sebbene fattori come l’aumento dei costi dell’energia abbiano giocato un ruolo nella crisi, la direzione del Gruppo ha prevalentemente ignorato importanti tendenze del mercato e non ha effettuato investimenti che sarebbero stati importanti.

Non solo, ma soprattutto per il mercato centrale di VW, la Cina, manca nella gamma un’auto elettrica economica. Chi si lascia sfuggire tali sviluppi non deve sorprendersi se risulta poi fortemente penalizzato dal punto di vista economico. Le leggi della concorrenza sono implacabili. Alla luce della situazione attuale, tuttavia, sono le enormi distribuzioni di profitti a far scuotere la testa.

VW ha ora annunciato riduzioni dei costi e un duro programma di austerità. Per i dipendenti, in particolare, non è un buon segno il fatto che il Gruppo abbia annullato diversi accordi salariali aziendali che prevedevano, tra l’altro, la garanzia del posto di lavoro fino al 2029. La direzione vuole ora rinegoziare le retribuzioni di operai e dirigenti. L’azienda potrebbe procedere a licenziamenti per ragioni aziendali già a partire dal 2025.

Oltre ai dipendenti, tutto questo sta spingendo anche i politici e i sindacati a intervenire, con le loro idee, nel dibattito su come salvare la VW. Per il Bündnis Sahra Wagenknecht (BSW), gruppo conservatore di sinistra, scissionista del Partito della Sinistra tedesca, fondato da Sahra Wagenknecht qualche mese fa, l’intera situazione è piuttosto imbarazzante, poiché negli ultimi mesi i suoi politici si sono ripetutamente espressi a favore di un ritorno ai motori a combustione, invece di sostenere la necessaria svolta verso la mobilità elettrica. I sindacati e il consiglio di fabbrica stanno cercando di trovare soluzioni socialmente accettabili. Si discuterà anche di aiuti pubblici.

Nulla di tutto ciò è sbagliato in linea di principio. Ma il partito Die Linke, il partito socialista democratico nel sistema partitico tedesco, dovrebbe andare oltre e riconoscere, ad esempio, che un’azienda guidata dai dipendenti avrebbe gestito i profitti del passato in modo più responsabile e investito in modo più sostenibile nel proprio futuro.

Oltretutto la cogestione e le quote rilevanti di VW detenute dallo Stato federale della Bassa Sassonia conferiscono al Gruppo una posizione speciale nel panorama industriale tedesco. Ad esempio, l’elevato livello di partecipazione statale in Bassa Sassonia consente di esercitare un’influenza significativa sulla politica aziendale di VW. Qui si dovrebbero porre ulteriori questioni, ad esempio la proposta di una socializzazione di ampio respiro che andrebbe finalmente portata avanti nel dibattito con fiducia e sicurezza di sé.

Sarebbe anche opportuno per una sinistra politica collegare strettamente la crisi del VW con l’imminente transizione della mobilità sociale. Non si tratta solo di mobilità elettrica, soprattutto se deve essere sociale. Perché i problemi di mobilità sono problemi di classe. Le persone più povere nelle aree urbane e rurali dipendono da una rete di trasporti pubblici strutturata e funzionale. Nelle aree rurali è molto più difficile garantirla, a causa delle diverse densità di popolazione. Deve essere ben finanziata sia nelle aree urbane che in quelle rurali. E sono necessarie anche ricerca, sviluppo e produzione che creino la tecnologia, i veicoli e le infrastrutture che servono non solo per il trasporto privato, ma anche per il trasporto pubblico.

In definitiva la crisi del Gruppo potrebbe essere una leva per portare avanti un “cambio di corsia” socio-ecologico. Per raggiungere questo obiettivo, VW dovrebbe essere ritenuta responsabile e i politici dovrebbero creare le condizioni quadro necessarie per il cambiamento.

*L’autore è consulente per la formazione politica presso la Rosa-Luxemburg-Stiftung di Berlino. Ha gentilmente accettato di scrivere una versione per i lettori italiani del suo articolo pubblicato dal quotidiano della sinistra tedesca Nd