Un 2023 di scontro
Si preannuncia un anno difficile per la nostra Costituzione: da un lato, l’esplicita volontà dell’attuale maggioranza di sfigurarne il volto, dall’altro, l’incapacità di organizzare una valida controffensiva. Le intenzioni degli aggressori sono note: eleggere direttamente il Capo dello Stato e trasferire vaste competenze in tema di diritti fondamentali dallo Stato centrale alle Regioni. Riforme profonde che ci consegnerebbero ad una nuova Repubblica.
Di fronte a questo scenario si poteva sperare in un’opposizione compatta. Non è così. Non solo per la prevedibile distanza da chi esprime la medesima cultura della destra. La richiesta di eleggere il «sindaco d’Italia» dimostra da che parte sta il terzo polo. Divisioni, incertezze, a volte ipocrisie si riscontrano anche tra coloro che hanno affermato di volersi «opporre in tutti i modi» alle riforme annunciate.
Le ragioni di tale imbarazzo sono scritte nel loro passato. Tralasciando i precedenti craxiani e le vicende
degli enti locali, l’apertura al semipresidenzialismo in Parlamento fu fatta nel 1997 durante i lavori della commissione bicamerale D’Alema. Fu una scelta del tutto estemporanea, frutto di un voto a sorpresa in commissione che ribaltò l’ipotesi sino ad allora sostenuta di razionalizzazione del parlamentarismo. In tale frangente, pur di dare seguito alle auspicate riforme costituzionali, l’allora PDS non si fece eccessivi scrupoli nell’abbandonare repentinamente le sue convinzioni per abbracciare quelle degli altri. La bicamerale fallì, ma da allora le proposte favorevoli all’elezione diretta del “Capo” si sono andate moltiplicando, coinvolgendo diversi esponenti delle forze che oggi si oppongono al progetto della destra; solo ora finalmente, ma tardivamente, riconosciuto come distruttivo degli equilibri costituzionali.
Peggiore è il passato se si fa riferimento ai rapporti tra Stato centrale e regioni. La riforma del Titolo V e l’introduzione del famigerato articolo 116, III co, è tutto da ascriversi a demerito della miopia del centrosinistra, quando nel 2001, pressata dalla Lega in ascesa, pensò bene di farsi lei portatrice delle istanze di autonomia, anche in questo caso abbracciando le ragioni degli altri. Per non dire delle intese sul trasferimento delle materie siglate, a termine di legislatura, dal governo Gentiloni, compresa quella definita con l’attuale potenziale leader del PD.
Ora i nodi vengono al pettine. La destra al potere dà seguito alla sua storia e l’accoppiata elezione diretta del Presidente della Repubblica (obiettivo perseguito sin dal tempo del MSI) e autonomia differenziata (versione temperata delle tendenze secessioniste della originaria Lega bossiana) rappresenta il naturale e decisivo traguardo.
Qualcuno adesso comincia a capire in che situazione si è andata a cacciare la sinistra, a vedere l’angolo in cui siamo stati sospinti tutti noi che da sempre abbiamo avversato il “lungo regresso”.
Io credo che ci sia un solo modo per provare a cambiare il finale annunciato. Ricercare una rottura di continuità, ritornare ai fondamentali, criticare senza imbarazzi gli errori del passato, rilanciare le ragioni della forma di governo parlamentare e del regionalismo solidale e non competitivo, sostenere l’attuazione della Costituzione, anziché il suo stravolgimento. Insomma, si tratta di riuscire ad imparare dalla storia e dai suoi fallimenti, riappropriandosi delle parole d’ordine e delle prospettive di una sinistra politica e culturale che non ha mai governato. E che sarebbe ora cominciasse a farsi sentire. Potremmo ben dire, se non ora, quando?
Forse è già troppo tardi, non lo so. Ma se ci limitassimo a provare ad attenuare i danni, puntando al meno peggio, perderemmo non solo ogni residuo di credibilità, ma anche l’ultima occasione per far valere le nostre buone ragioni. Non sono le idee che ci mancano, è che non abbiamo le forze, perché abbiamo perduto l’egemonia. Non ci resta allora che riprendere la battaglia delle idee, rilanciando una controffensiva sui nostri temi. Anziché continuare ad inseguire un’irraggiungibile governabilità dall’alto, occupiamoci della sovranità del Parlamento, rilanciamo con coraggio la parola d’ordine del monocameralismo e della rappresentanza proporzionale, battaglia dimenticata della sinistra. Smettiamo di spenderci per mitigare gli effetti perversi dell’autonomia differenziata, essa non è recuperabile. Riconosciamo l’errore del 2001, cancelliamo l’autonomia differenziata e ripensiamo il modello di regionalismo solidale che non è mai stato realizzato. Vogliamo o no cambiare lo stato di cose presenti?
Qualcuno potrebbe obiettare che in tal modo alzeremmo troppo il tiro, faremmo solo accademia, non ci opporremmo con la dovuta forza alla politica annunciata, non ci porremmo sul terreno che i nostri avversari hanno prescelto, lasciando loro campo libero. Ma sbaglierebbe, perché confonderebbe il piano tattico dove, in Parlamento, appare sacrosanta l’opposizione senza se e senza ma ai progetti di volta in volta presentati, e quello strategico, che è il solo che può permettere di ricostruire un futuro diverso dall’attuale. Non distinguere i due piani ci farebbe ricadere inevitabilmente nel vizio perverso che ha condannato alla disfatta la sinistra, quando ha smesso di credere nelle proprie idee, per inseguire quelle proposte da altri. Ci si dovrebbe ricordare più spesso del monito di J.M. Keynes: “sono sicuro che si esagera molto sul potere degli interessi costituiti, in confronto alla affermazione progressiva delle idee (…) Presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”. Forse non subito, ma se non iniziamo ad abbandonare le cattive idee e a rivendicare le nostre non usciremmo più dalla storia scritta dagli altri. Non convinceremo nessuno che valga la pena guardare dalla nostra parte, non potremmo ricostruire dalle fondamenta, abbandonandoci alla lenta notte della sinistra