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COMMENTI. Si sono fatti passi indietro rispetto allo Statuto che, nella prima fase, prevede il dibattito su documenti politici e programmatici poi posti al voto in alternativa tra loro

 

Nonostante i fieri propositi (“le idee prima dei nomi”), il congresso del Pd, oggi riunito in assemblea, sembra avviato sui binari consueti: lo dicono le modalità della fase di apertura all’esterno. Del resto, se la fase di apertura all’esterno viene concepita come una sorta di mega-consultazione per dare indicazioni al comitato dei saggi che dovrebbe riscrivere il Manifesto dei valori, allora si finisce per dare ragione a coloro che spingono per “fare presto”: si vada ai gazebo, piantiamola con le chiacchiere filosofiche e torniamo subito nei bar….

Il gruppo dirigente del Pd dovrebbe spiegare perché si è scelta questa via, e non invece quella del tutto plausibile che partiva dalla stesura di un testo, preparato da una commissione nominata dal segretario o dalla Direzione, aperto e emendabile, su cui sollecitare un dibattito, fuori e dentro il partito. Si sono fatti passi indietro rispetto allo stesso testo vigente dello Statuto che, nella prima fase del percorso congressuale, prevederebbe la discussione di “documenti politici” e “contributi programmatici” poi “posti al voto in alternativa tra loro”.

Certo, nell’attuale versione dello Statuto, sarebbero stati solo gli iscritti a votare i documenti, mentre poi piombano sulla scena i candidati e tutto finisce nei gazebo, dove naturalmente va a votare chi nulla sa di quanto discusso e approvato in precedenza. Ma volendo fare un “congresso aperto”, nulla impediva di aprire anche agli aderenti esterni il voto sui documenti della prima fase. Non lo si è voluto fare, per una precisa ragione: c’era il rischio di non poter controllare gli esiti di questo confronto.

E così si affida ad un consesso di sapienti (espressione, vien detto, di diversi “mondi sociali”: ma anche di diverse culture politiche? Chi lo sa…) il compito di distillare gli orientamenti che emergono dalla discussione. E’ evidente che non può certo partire in questo modo una vera ricerca di una nuova possibile identità del Pd. Ma, in ogni caso, staremo a vedere se, in corso d’opera, qualcuno prova a rompere un cammino che sembra già segnato.

Le cosiddette primarie si confermano ancora una volta come una iattura. Perché mai il Pd è così inchiodato su questa concezione delle primarie? Perché non si è mai riusciti a ridiscuterne? Perché, se ogni tanto qualcuno solleva anche solo una timida riserva, le “primarie aperte” (che sono pur sempre solo un metodo per eleggere il segretario) divengono addirittura un “tratto identitario” del Pd?
Credo che, oramai, a distanza di anni, si sia compreso come questo attaccamento patologico ad un modello che nel tempo si è rivelato fallimentare, nasca dal fatto che oramai questo modo di selezionare i gruppi dirigenti è profondamente connaturato alle dinamiche del potere interno: semplicemente, è in questo modo che si controlla il partito.

I candidati-segretario contrattano il sostegno con i capo-corrente, questi attivano le loro filiere e, infine, i referenti locali lavorano per mobilitare la gente che va a votare ai gazebo. Da un parte si discetta sui “valori” e sui “nodi”, dall’altra poi il partito viene affidato a chi è maggiormente in grado di attivare le proprie reti di relazione. Il trionfo dell’ipocrisia: ed è una mistificazione bella e buona presentare queste primarie come l’apoteosi del cittadino-elettore.

D’altra parte, tutto lascia presagire come si sia giunti oramai ad un punto di non ritorno: tutta la querelle sulle possibili alleanze alle regionali nasce fondamentalmente dall’indeterminatezza dell’esserci del Pd (potremmo dire, civettando con il lessico filosofico), dall’assenza di un’identità condivisa e riconoscibile.

C’è un noto modo di dire, «dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei», usato in genere quando si vuol mettere in guardia dalle cattive compagnie. In politica, vale l’inverso: «dimmi chi sei, e ti dirò con chi puoi andare». Chi scrive viene da una scuola politica per cui non è per nulla motivo di scandalo, di per sé, il fatto che una forza di sinistra possa fare alleanze elettorali e anche compromessi programmatici con forze centriste o moderate. Ma solo se sai chi sei, puoi reggere alleanze con il diverso da te. Se non sai chi sei, sono le alleanze che definiscono la tua identità. Solo quando le culture politiche erano forti e ben identificabili, si potevano concepire grandi compromessi (storici e costituzionali).

Perché il sostegno a Letizia Moratti in Lombardia (prima della candidatura ufficiale di Pierfrancesco Majorino) si rivelava una scelta suicida, nonostante le insistenze di tanti, da ultimo l’ingegner De Benedetti? Perché l’incerta identità del Pd in questo momento comporta che ogni alleanza – anche solo tattica, elettorale, limitata, ecc. – diventa l’unica occasione per definire un’identità: ma in modo subalterno. E non verrebbe accettata dall’elettorato, privo di un metro di giudizio se non le alleanze elettorali.

“E’ lo sfarinamento delle culture politiche che porta a far precipitare” tutto sulla questione delle alleanze: quante volte, anche durante la recente campagna elettorale abbiamo sentito risuonare la frase: “vai con quelli? E allora non ti voto!”. L’incertezza sul tuo essere porta alla paura della contaminazione.

La questione vale per il Pd ma vale anche per altri, in particolare il Movimento Cinque Stelle: è comprensibile che, in questa fase, punti a consolidare la sua autonomia, ma non può essere un gioco a tempo indeterminato. Il M5S deve considerare che, tra i motivi della credibilità acquisita e premiata dagli elettori, c’è stata anche la rivendicazione dei risultati (pur parziali) dell’azione di governo, proprio grazie ai compromessi con altre forze. Una qualsiasi idea di autosufficienza, per il M5S, così come per il Pd la velleità e la nostalgia di pensarsi ancora in nome della “vocazione maggioritaria”, sarebbe esiziale, per tutti. Speriamo che lo si comprenda.

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COMMENTI. C’è urgente bisogno che lo scossone parta dai luoghi di lavoro, dalle scuole, dalle piazze, quindi dell’apertura di un largo conflitto sociale. Fino a programmare uno sciopero generale

Il salario del nostro scontento 

È ufficiale. Abbiamo raggiunto un record di cui avremmo fatto volentieri a meno. L’inflazione a ottobre è all’11,8%, bisogna tornare al 1984 per trovare un simile livello. A settembre era all’8,9%, quindi è aumentata di tre punti in un mese, non succedeva dal 1954. Ma per il mondo del lavoro, delle pensioni e del non lavoro l’inflazione reale è ancora più alta poiché si abbatte su consumi essenziali incomprimibili. Il dato italiano è tra i peggiori in Europa. E il pensiero corre, o dovrebbe, a chi vive di reddito fisso e assiste alla sua riduzione senza strumenti di difesa. Già i salari italiani in trent’anni erano diminuiti del 2,9%. Ma ora la prospettiva è ancora peggiore. E’ chiaro che, sic stantibus rebus, già l’inflazione acquisita per l’anno in corso, non meno dell’8%, non potrà essere recuperata dalla contrattazione sindacale.

Come se non bastasse il governatore di Bankitalia ammonisce che non è possibile alzare i salari, timoroso dell’innescarsi della spirale con i prezzi. Ma il paragone con gli anni settanta non regge da nessun punto di vista, non ultimo il fatto che le cause della violenta spinta inflazionistica sono in grande parte legate alla guerra in corso in Europa e alle sue conseguenze sui prezzi, a cominciare dall’energia. In più la Bce nel suo rapporto di novembre stima probabile una recessione tra l’ultimo trimestre di quest’anno e il primo di quello prossimo. E non è detto che si fermi lì. La stagflazione – questa sì ci ricorda gli anni settanta – è tornata: ovvero la presenza congiunta di inflazione e di recessione. Quando se ne parlava su queste pagine, più d’uno sosteneva altrove che era una previsione fuori dal mondo. Purtroppo avevamo ragione.

Ed ha ancor più ragione da vendere Landini, quando afferma che i bonus sono pannicelli neppure troppo caldi e che i fringe benefit e la detassazione del salario di produttività sono armi spuntate in partenza, dal momento che la contrattazione aziendale riguarda solo il 20% dei lavoratori e tra i leitmotiv delle analisi economiche sulla crisi italiana compare sempre lo scarso aumento di produttività, che peraltro non andrebbe riferita al lavoro ma al sistema in generale. Fermo restando che anche il sindacato dovrebbe rivolgersi qualche domanda su come mai si sia lasciato sfuggire di mano quella potestà salariale che orgogliosamente rivendica quando invece si propone – come sarebbe giusto e necessario – l’introduzione per legge di un salario minimo indicizzato all’aumento dell’inflazione.

Il segretario della Cgil chiede ora giustamente, di fronte alla drammatica emergenza salariale e al crollo del potere d’acquisto dei pensionati e dei precari, di usare lo strumento fiscale. Ma a parte che questo non dovrebbe sostituire l’apertura di un fronte di lotta per gli aumenti retributivi, (in Germania l’IgMetall minaccia lo sciopero per ottenere l’aumento dell’8% dei salari) non può sfuggire ad alcuno che il governo si muove in tutt’altra direzione. Mentre il decreto “aiuti quater” si preoccupa di autorizzare le trivellazioni tra le 9 e le 12 miglia dalla costa o di aumentare il tetto del contante a 5mila euro, esponenti governativi corrono in soccorso della Confindustria, promettendo che il taglio del cuneo fiscale andrà almeno per un terzo a loro vantaggio, anziché interamente per alleviare la crisi dei salari reali. Mentre si prevede che la tassazione degli extraprofitti delle imprese energetiche si fermi al 33%, quando vista la natura di quei guadagni tassarli almeno al 90% sarebbe una misura di normale equità.

Ma il governo non sembra limitarsi a questo. La tassazione forfettaria del 15% si allargherebbe a circa due milioni di partite Iva, portando il limite da 65mila a 85mila euro, ampliando quindi quel tax gap, messo in rilievo da una corposa relazione di esperti, che porta ad un’ulteriore riduzione delle entrate fiscali. A ciò possiamo aggiungere l’intenzione di riaprire il condono per i capitali fuggiti illegalmente all’estero (la chiamano voluntary disclosure per confondere le acque). Se non bastasse il governo Meloni ha in testa di istituire un flat tax “incrementale” per gli autonomi, per cui i guadagni superiori al migliore degli ultimi tre anni, godrebbero di una tassa al 15%. Due ingiustizie (e violazione dei principi costituzionali) in una: chi guadagna di più pagherebbe meno tasse e tra due cittadini a pari reddito risparmierebbe chi lo ha maggiormente incrementato nell’ultimo anno.

Ci si augura che l’opposizione parlamentare faccia la sua lotta fino in fondo. Ma nelle condizioni in cui si trova il parlamento questa non basterebbe in ogni caso. C’è urgente bisogno che lo scossone parta dai luoghi di lavoro, dalle scuole, dalle piazze, quindi dell’apertura di un largo conflitto sociale. Fino a programmare uno sciopero generale.

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INTERVISTA. Il capodelegazione a Bruxelles: «Una discussione aspra sull’identità è inevitabile. Altrimenti saremo un partito-minestrina, insapore. Su lavoro e fisco le ricette devono cambiare radicalmente. Ora parli la diplomazia, basta armi a Kiev»

Brando Benifei: «Il nuovo Pd sarà di sinistra. Chi la pensa come Renzi andrà via» Brando Benifei - Ansa

Brando Benifei, capodelegazione del Pd al Parlamento europeo. Nel suo partito hanno deciso di anticipare il congresso. Le sembra una buona idea?

Il Pd deve ridefinire la sua identità. Siamo nati nel 2007 quando l’Italia era divisa in due dal fenomeno Berlusconi, non c’erano state tutte le crisi che abbiamo attraversato. La fase costituente richiede il tempo necessario: quello previsto, da qui a gennaio, è già piuttosto serrato. Serve una discussione vera sui nodi identitari, dal congresso non può uscire un partito-minestrina, insapore, dove tutti si vogliono bene perché non si discute davvero. Quello che ci univa nel 2007 non basta più. Di fronte a una destra ideologica al governo, la nostra gente ci chiede di saper fare la sinistra, alternativa sia al polo liberale che a quello grillino.

C’è una ipotesi di fare le primarie il 19 febbraio invece del 12 marzo.

Se si accorcia la fase finale del voto tra gli iscritti e delle primarie non è un problema. Quello che conta è fare bene il lavoro delle prossime settimane, aprire la fase costituente a chi sta fuori.

Nel 2007 si disse di voler unire i diversi riformismi. È una formula ancora valida?

In tutti i partiti socialisti europei c’è un pluralismo culturale. Il problema è fissare i cardini: per me sono il lavoro, l’emancipazione dal bisogno, i diritti e la democrazia.

Non sono gli stessi di 15 anni fa?

In questi anni abbiamo avuto pericolosi cedimenti sul tema del lavoro, penso al Jobs Act che non ha risolto il tema della precarietà e ci ha spinti ad inseguire idee degli anni 90, una sorta di flex-security senza sicurezza per i lavoratori; ma abbiamo anche sbagliato tagliando le province, il finanziamento pubblico ai partiti, il numero dei parlamentari. Abbiamo ceduto alla spinta antipolitica.

Pensa che oggi sia possibile trovare punti comuni?

Chi la pensa come Renzi su temi come il lavoro o il fisco, chi non vuole politiche vere di redistribuzione e ritiene che non si debba colpire la rendita a favore dei redditi da lavoro, forse dovrebbe chiedersi perché sta nel Pd. Lo stesso vale per chi ritiene che difendere i diritti dei migranti faccia perdere voti, come è si è visto col silenzio di Conte su Catania.

Vuole fare un repulisti?

Dico che bisogna fare chiarezza, distinguerci in modo chiaro dal terzo polo e dai 5 Stelle. Non c’è più spazio per elogiare acriticamente il Jobs Act, pensare di abolire tout court il reddito di cittadinanza o sostenere posizioni antipolitiche. Questo non significa voler cacciare qualcuno. Ma metto in conto che a qualcuno il nuovo Pd possa non piacere.

Crede davvero che nel suo partito abbiano voglia di fare una discussione così profonda? Non vede il rischio di una scissione?

Penso che possiamo essere ancora un partito largo, che sa fare sintesi. E tuttavia aggirare i problemi per garantire la pace interna sarebbe pericoloso: se ci limitiamo a cambiare il segretario lasciando tutto il resto così com’è, a partire dal gruppo dirigente, sarebbe un disastro, anche in termini di consensi. Non andremmo lontano. No, non è più il momento si stare nella comfort zone, bisogna prendersi il rischio di una discussione aspra.

Lei ha organizzato il 29 ottobre una iniziativa di giovani dem, «Coraggio Pd». In coro avete chiesto di azzerare tutto il gruppo dirigente. Vi hanno definiti i nuovi rottamatori.

Una formula in cui non mi ritrovo affatto. Quel termine fu usato da Renzi per cooptare i suoi amici e far fuori tutti gli altri. Noi diciamo che già ci sono forze nel Pd che si sono sperimentate sui territori e nelle battaglie per lavoro e ambiente. Il rinnovamento c’è già, non deve essere concesso dall’alto. Ma finora non ha fatto irruzione nel dibattito nazionale, dove parlano sempre gli stessi da 10 anni. Se vogliamo essere credibili non possiamo non sostituire i protagonisti, e anche le parole d’ordine.

Elly Schlein ha citato la vostra iniziativa nel discorso con cui si è iscritta al congresso Pd. La sosterrete in una eventuale corsa per la segreteria?

Ho molto apprezzato che abbia menzionato «Coraggio Pd», l’obiettivo di aprire all’esterno è comune. Sulle candidature ci esprimeremo al momento opportuno e ad oggi resta forte l’ipotesi di esprimere una nostra candidatura. Ma sono scelte che andranno fatte dopo aver sciolto i nodi di fondo.

La guerra sarà un tema decisivo per il nuovo Pd? Servono altri invii di armi a Kiev?

Nei mesi scorsi il sostegno militare si è rivelato necessario. Oggi non si può continuare ad inviare armi se non è chiaro cosa stiamo facendo. Questo è il momento in cui l’Europa deve fare fino in fondo il suo ruolo sul fronte diplomatico, senza farsi scavalcar dalla Turchia. Grandi potenze come Cina e India si stanno muovendo, non possiamo restare schiacciati sulle posizioni americane. E il Pd deve superare una postura troppo militare.

 

 

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Perché mi dimetto dopo l’accordo tra l’università Bicocca e l’Eni

Lo scorso 15 febbraio, l’Università di Milano-Bicocca e Eni hanno firmato un Joint Research Agreement (accordo di ricerca congiunta) della durata di cinque anni, in cui si sono impegnate a collaborare su «progetti di ricerca di interesse comune» relativi alla transizione energetica (batterie, geotermia, geo-bio-idro-chimica di reservoir fratturati, e fusione magnetica, tra le altre cose).

Dopo diversi tentativi infruttuosi di ottenere chiarimenti su questa partnership, ho deciso di dimettermi dall’incarico di direttore dell’unità di ricerca Antropocene del Centro di Studi Interdisciplinari in Economia, Psicologia e Scienze Sociali (Ciseps) dell’Università Bicocca.
L’unità Antropocene si occupa, tra l’altro, di questioni legate alla transizione energetica, che è appunto al centro dell’accordo fra l’università e Eni. Con le dimissioni da questo incarico intendo prendere le distanze ufficialmente dall’accordo che non condivido fra la mia università e il gigante italiano dei combustibili fossili.

I motivi di questa non condivisione sono diversi e non derivano da pregiudizi ideologici, quanto piuttosto dalla mia conoscenza della questione che deriva da anni di ricerca e di pubblicazioni scientifiche sul ruolo e le responsabilità dell’industria petrolifera nei cambiamenti climatici.

In generale, sono preoccupato da tale collaborazione in un ambito di ricerca – la transizione energetica – che aspira a risolvere i problemi che Eni, e il resto dell’industria petrolifera mondiale, causa e continua a esacerbare. Ritengo che questo rapporto sia antitetico ai valori accademici e sociali fondamentali delle università, che ne possa addirittura compromettere la capacità di affrontare l’emergenza climatica.
A mio parere questo tipo di collaborazioni contravvengono agli impegni dichiarati dalle università – e anche dalla mia università – per la sostenibilità. Le compagnie dei combustibili fossili hanno nascosto, banalizzato e distorto la scienza dei cambiamenti climatici per decenni. Oggi, nonostante la scienza ci dica incontrovertibilmente che nessun investimento in nuovi progetti fossili sia possibile se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, le maggiori compagnie di combustibili fossili – e anche Eni – continuano a pianificare nuovi progetti di estrazione incompatibili con gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi.

Sebbene le compagnie fossili si presentino come leader della sostenibilità, i loro investimenti fossili continuano a essere enormemente maggiori di quelli in energie rinnovabili, che rappresentano solo una piccola percentuale del totale delle loro spese in conto capitale. Perciò ritengo che la pretesa dell’industria fossile di essere leader della transizione energetica non dovrebbe essere presa sul serio: collaborare con questa industria è contrario agli impegni delle istituzioni accademiche per il clima.

I partenariati di ricerca delle università con le compagnie dei combustibili fossili giocano un ruolo chiave nel greenwashing della reputazione di queste compagnie. Essi forniscono loro la tanto necessaria legittimità scientifica e culturale. Legittimità preziosa, poiché permette a queste compagnie di presentarsi all’opinione pubblica, alla politica, ai media e ai loro azionisti come agenti che collaborano con istituzioni accademiche pubbliche autorevoli su soluzioni per la transizione, rendendo più verde la loro reputazione e offuscando il loro coinvolgimento nell’ostruzionismo climatico, nonché avvallando le false soluzioni che sostengono.

Infine, temo che le università che mantengono stretti legami con l’industria dei combustibili fossili possano incorrere in un sostanziale rischio reputazionale. Collaborando con l’industria fossile, oltre a violare le loro stesse politiche e i loro principi, minano la loro missione sociale e accademica. Sempre più spesso, la partnership con l’industria dei combustibili fossili sta erodendo la fiducia negli impegni delle istituzioni scientifiche per l’azione sul clima, portando un certo numero di esse – tra cui, per esempio, le Università di Oxford nel Regno Unito e di Princeton negli Stati Uniti – a tagliare ogni legame con l’industria, e moltissime altre in giro per il mondo a disinvestire dai fossili.

In sintesi, ritengo che le università siano vitali per pensare una transizione ecologica rapida e giusta. Tuttavia, i nostri sforzi a me sembrano minati dalla prossimità al mondo dei combustibili fossili. L’accademia e la scienza non dovrebbero aiutare, neanche involontariamente, il greenwashing fossile; piuttosto dovrebbero impegnarsi, almeno per quanto riguarda le questioni climatiche, per cambiare radicalmente una situazione che non è più accettabile, che è diventata, come dice il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, una «pazzia morale ed economica», che potrebbe portarci al «suicidio collettivo».

* professore ordinario di geografia economica e politica all’Università di Milano-Bicocca, si occupa di politiche ambientali e di governance del clima. Ha lavorato presso Birbeck, University of London ed è stato Visiting Scholar in università e centri di ricerca in Europa, Stati Uniti e Australia

 

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EFFETTI COLLATERALI. Ogni volta che durante questo conflitto sanguinoso è apparso un timido, oppure un forte spiraglio di mediazione, come in questi giorni, capace di aprire una trattativa per porre fine alla guerra cominciando da un cessate il fuoco, ecco che proprio in questi rari ma preziosi momenti è sempre accaduto qualcosa che ha rimesso in discussione ogni tentativo

 Il cratere di un missile a Przewodow, in Polonia. Al confine con l'Ucraina - Immagine presa da twitter

A questo punto non dovremo forse aspettare i Pentagon ucrainans papers per conoscere quanto è accaduto con il missile (o frammenti di missile) caduto sul villaggio di Przewodow in territorio polacco. Perché un fatto è certo, non si è trattato di un deliberato attacco della Russia a un paese della Nato per una estensione ancora più criminale dell’aggressione russa all’Ucraina. Visto tra l’altro che tra le prime notizie c’era quella che la Nato indagava, come se non controllasse anche per via satellitare le traiettorie di tutti i missili che attraversano la martoriata Ucraina, e visto che la Polonia non ha attivato né l’articolo 4 dell’Alleanza atlantica che allerta alla reazione congiunta, né l’articolo 5 che chiama alla reazione militare di tutta la Nato se un solo paese è aggredito.

Ma soprattutto visto

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Il dibattito precongressuale del Pd, complice l’accavallarsi della tornata di elezioni regionali, è incentrato sulla questione delle alleanze. Come se il gruppo dirigente, incapace di recuperare una bussola che ne orienti l’azione politica, esternalizzasse il problema....

Partecipa! - Partito Democratico

E, più o meno consapevolmente, delegasse il compito di recuperare una propria identità ed una propria funzione: diciamoci con chi andiamo e scopriremo chi siamo.
Che in questo giochi un ruolo il particolare calendario elettorale del Paese - complice l’instabilità che contraddistingue, per paradossale che possa sembrare, il sistema ultra-maggioritario applicato ai nostri enti locali, ogni anno si vota per qualcosa di importante - lo si è già detto.

Se però ci si distacca dalla contingenza, ci si trova di fronte a due ulteriori fattori, di ben più vasta portata, che acuiscono le fibrillazioni nel campo democratico; entrambi portati a galla dall’esito delle elezioni del 25 settembre.
Il primo è la nascita, sui due fianchi destro e sinistro del partito tradizionalmente baricentro del centro-sinistra, di opzioni politiche altrettanto credibili, elettoralmente robuste e potenzialmente in grado di aggredirne la base di voti, ed oltretutto reciprocamente inconciliabili: il renzismo-calendismo ed il contismo.

In questo panorama lo schema ulivista non è riproponibile; anche a causa del venir meno del collante anti-berlusconiano, sono inevitabili non solo una scelta tra due tipi di alleanza antitetici; ma anche, a scelta fatta, massicce concessioni all’alleato. Anzi, visti i rapporti di forza ed il trend elettorale, nel caso di alleanza con Conte sarebbero i Cinque Stelle nelle condizioni di fare alcune concessioni ai democratici, anche se nel loro caso pesa la storica debolezza in elezioni dove la posta in gioco non sia il governo nazionale.
C’è poi un elemento di ancor più lungo periodo, che il 25 settembre ha solo contribuito ad evidenziare con maggior forza, e cioè la perdita della propria funzione nello schema politico italiano, per cui è del tutto comprensibile il tentativo di ritrovarla schiacciandosi sul momento elettorale ed affidando al dibattito sulle alleanze la propria ragion d’essere.

Il Pd è stato il vero partito della globalizzazione reale, post-ideologico e post-conflittuale, che ha ravvisato nell’apertura dei mercati globali un fattore di progresso per l’intera società, e soprattutto per una classe media, espressione dei settori creativi della finanza e della cultura, cui si guardava come al perno della vita nazionale. Non solo. Essendosi il partito fatto portatore di una visione del paese (aliena alla storia del movimento operaio) che lasciato a se stesso non avrebbe potuto far altro che abbandonarsi a derive corporative se non anti-democratiche, i suoi dirigenti hanno sposato con foga da neofiti l’ideologia del vincolo esterno: non c’è possibilità, in base a questa ideologia, che il paese accetti la “cura” necessaria ad aprirsi ai mercati, se non ingabbiato in istituzioni sovranazionali che ne determinino il corso con disciplina di ferro.

Un primo grosso vulnus a questa impostazione è stato inferto già dalla crisi del 2008, che ha aperto la stagione, nella quale ci troviamo tutt’ora immersi, della crisi della globalizzazione capitalistica. Ma è stata la guerra russo-ucraina a dare il colpo di grazia. Perché fino a quando il vincolo esterno da interpretare è stato quello dell’Europa (qualsiasi cosa si intendesse con questo riferimento) il Pd aveva buone carte da giocare nel presentarsi come l’unico garante degli intricati nessi politico-sociali che ne favorissero l’implementazione in Italia. Ma la guerra ha cambiato tutto. Se il vincolo esterno da garantire è quello militare della fedeltà alla Nato, la destra ha tutte le carte in regola per farsene portatrice. In perfetta continuità col draghismo cui pure si erano formalmente opposti, i Fratelli d’Italia su questo non hanno lasciato spazio all’ambiguità.

Nel corso del dibattito sulla fiducia al governo di larghe intese, l’intervento di La Russa lo ha messo bene in chiaro. Mentre Meloni ha più volte evocato per il futuro del Paese il modello polacco: stretta reazionaria sui diritti e l’ordine pubblico accompagnati da una fedeltà a Washington ben oltre ciò che la prudenza consigliasse ad altre cancellerie europee. Risalta il parallelo tra la perdita della funzione autonoma dell’Europa sullo scacchiere geopolitico e la perdita di funzione del Pd - che dell’europeismo reale è stato il principale araldo.

La tentazione, tanto da parte dei 5Stelle quanto da parte della sinistra diffusa, sarebbe quella di crogiolarsi assistendo agli ultimi sussulti di un Pd salutarmente destinato alla dissoluzione (auspicata perfino da suoi autorevoli dirigenti). Tentazione legittima. Tuttavia la questione che rimane aperta è quella dell’elettorato democratico: ceti medi intellettuali, tecnici, quella che un tempo avremmo chiamato “aristocrazia operaia”. Una congerie sociale che ha sempre fatto parte di partiti o coalizioni di sinistra, e nei confronti della quale è necessaria un’azione politica, se si vuole costruire un’alternativa popolare alla destra.

 

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