ISRAELE. Intervista all'analista Meir Margalit: «Viviamo in un’etnocrazia, una democrazia per un solo gruppo etnico. Questa è una protesta conservatrice, in un contesto in cui la società ha ormai assorbito la violenza di Stato»
Manifestanti anti-apartheid ieri a Gerusalemme - Michele Giorgio
«Netanyahu deve fare scelte difficili. Se il governo dovesse cadere, non ha molte opzioni: o si torna alle urne o nasce un esecutivo di unità nazionale». La giornata di ieri per Meir Margalit è stata quella di tanti israeliani: attaccato a radio e tv per capire cosa avrebbe tirato fuori dal cilindro l’immortale Benyamin Netanyahu.
Ebreo israeliano nato in Argentina, dal 1998 al 2014 Margalit è stato membro del consiglio comunale di Gerusalemme per il partito della sinistra sionista Meretz. È tra i fondatori di Icahd, il comitato contro la demolizione delle case palestinesi da parte delle autorità israeliane.
Che effetti avrà il congelamento temporaneo della riforma della giustizia?
Secondo quanto detto finora, Netanyahu avrebbe l’intenzione di sospendere la riforma per un tempo limitato. Ma ha paura, molta paura che l’ala di ultradestra del governo possa far cadere la coalizione. Ben Gvir e Smotrich in particolare, i membri del partito fascista, hanno minacciato di abbandonarla se la riforma sarà fermata. Il governo cadrebbe. Dall’altra parte il sindacato nazionale Histadrut parla di sciopero generale se la riforma dovesse essere portata avanti. Uno sciopero molto pericoloso per Netanyahu, guardate cosa succede all’aeroporto Ben Gurion: i dipendenti minacciano di non far decollare e atterrare nessun aereo, un colpo serio per l’economia israeliana. Netanyahu è chiamato a prendere una decisione molto complessa: o il paese soccombe a un caos sociale e economico mai visto nella sua storia o lui perde il controllo dell’attuale governo. Se dovesse cadere, il premier potrebbe aprire ad alcuni partiti di opposizione per creare una maggioranza nuova, un governo di unità nazionale. Anche questa una scelta difficile, condividere l’esecutivo con chi lo sta criticando da anni. Ma non ha molte altre opzioni: unità nazionale o elezioni.
Nella scelta di sospendere la riforma che ruolo hanno avuto l’esercito e i moderati del Likud, il partito del premier?
Un ruolo fondamentale. Pur essendo una società molto militarizzata, l’immagine pubblica dell’esercito è decaduta, non è più quella del passato, i super eroi capaci di miracoli militari. Ma nel momento in cui le forze armate dicono di non voler obbedire agli ordini o i riservisti rifiutano di presentarsi in caserma, agli occhi dei manifestanti sono portatori di legittimità sociale contro un primo ministro concepito come un «anarchico» nel senso negativo del termine. E poi c’è il Likud. La base del partito di Netanyahu è divisa in due: i veterani e i nuovi attivisti. I primi sono molto più moderati della nuova generazione. Tanti politici e sostenitori del partito, la cosiddetta «sinistra del Likud», hanno guardato con favore o preso parte alle manifestazioni. Sono coloro che hanno come modello Begin, considerato un liberale che rispettava il sistema di poteri interni.
La stessa mobilitazione è un movimento conservatore: non mette in dubbio lo status quo né lo stato d’eccezione dovuto alla questione palestinese. La magistratura, oggi difesa in piazza, ha da sempre avuto un ruolo centrale nel «legalizzare» sia l’occupazione dei Territori sia la discriminazione dei palestinesi in Israele.
Molte persone dicono che questa crisi è nata dalla necessità di salvare la democrazia israeliana. Io penso che qui non esiste un sistema democratico. Abbiamo un sistema di potere che io chiamo etnocrazia: una democrazia per un solo gruppo etnico, quello ebreo, mentre i palestinesi in Israele e nei Territori occupati non ne godono affatto. È dunque una mobilitazione liberale ma secondo il concetto di liberismo proprio di Israele, che è di tipo conservatore. È vero che ci sono dei piccoli gruppi progressisti nelle piazze, ma la maggioranza è composta di persone che vogliono mantenere lo status quo, quello che abbiamo vissuto finora: una situazione di apartheid, di violenza interna, in cui il militarismo è parte del dna della società israeliana. Io partecipo alla mobilitazione perché credo che quello che il governo propone sia molto peggio di quanto visto finora ma a differenza della maggioranza dei manifestanti non idealizzo il passato. Temo soltanto che arriverà di peggio.
A novembre 2022 Israele ha eletto il governo più a destra della sua storia, oggi lo contesta. Una contraddizione?
Alle ultime elezioni si sono confrontati due blocchi politici, una destra estrema e una destra moderata. La società israeliana è di destra, la sola distinzione è nel suo grado: c’è una destra religiosa, fascista, fondamentalista e c’è una destra più o meno moderata. La sinistra non esiste più, Meretz è sparito dal parlamento. Israele si posiziona sul lato destro della mappa politica globale, Netanyahu è vicino a Bolsonaro, Trump, Orbán. È questo il dramma vero di Israele: l’utopia socialista sionista delle origini non esiste più. In tale contesto, non sarà il caos attuale a produrre il collasso della società israeliana. Al contrario, questa crisi si produce perché la società ha già collassato da tempo: la sua base è deteriorata da anni, ha perso ogni etica. La violenza che Israele usa nei Territori occupati ha superato qualsiasi linea rossa, si è infiltrata nella società israeliana. Siamo diventati una società violenta che permette a partiti fascisti di entrare al governo