REPUBBLICHINO DI STATO. Si avvicina il 25 aprile, la festa della Liberazione, la primavera della nostra democrazia rinata dopo vent’anni di feroce dittatura mussoliniana, dopo una guerra scatenata dal nazifascismo. Una festa nazionale, […]
Si avvicina il 25 aprile, la festa della Liberazione, la primavera della nostra democrazia rinata dopo vent’anni di feroce dittatura mussoliniana, dopo una guerra scatenata dal nazifascismo. Una festa nazionale, popolare, fondativa che già nel primo decennio degli anni Duemila gli improbabili liberali berlusconiani volevano candeggiare dalle macchie comuniste ribattezzandola, non più festa non della Liberazione ma della Libertà. Poi bastò che il Cavaliere si arrotolasse attorno al collo il fazzoletto partigiano perché tutti apprezzassero il geniale spot e tirassero un sospiro di sollievo. Il maldestro tentativo revisionista non riuscì ma era solo rinviato.
La peggior destra europea, oggi al governo del paese, torna a battere quella strada. Meloni e i suoi sodali ci riprovano procedendo sul doppio binario di Patria e Famiglia. Vogliono tagliare le radici antifasciste della Repubblica, sfigurando la cultura costituzionale del paese. Vogliono ripulire dalle infiltrazioni moderniste i rapporti tra le persone cancellando i diritti civili, negando l’emancipazione sessuale di uomini e donne.
Questa destra, dobbiamo saperlo, procede con metodo, lucida intelligenza, tracotante sicumera. Come se la vittoria elettorale, il consenso popolare (piuttosto
limitato dalla marea astensionista) potessero sciogliere il governo e le istituzioni dal patto antifascista per sostituirlo con un nuovo regime anti-antifascista.
Le parole del presidente del senato su via Rasella (“Pagina ingloriosa, i partigiani non uccisero i nazisti ma una banda musicale di pensionati”), giungono infatti a pochi giorni da quelle pronunciate dalla presidente del consiglio sulle fosse ardeatine (“335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”). Due preclari esempi di membrana revisionista funzionale a racchiudere il nocciolo duro del negazionismo. Se i martiri di via Rasella erano solo italiani (revisionismo), allora antifascisti e ebrei non furono vittime designate, dunque non esistono (negazionismo). Se a via Rasella non c’erano gli aguzzini nazi-fascisti ma una banda musicale, allora non c’erano gli antifascisti ma i comunisti terroristi.
Del resto, lasciando stare i politici di seconda fila che usano le parole di Mussolini sul delitto Matteotti per lucidare gli elmetti, abbiamo avuto di recente l’esempio negazionista di un ministro della pubblica istruzione capace di esprimere al meglio il nuovo Minculpop. Senza problemi, di fronte all’attacco squadrista contro gli studenti di un liceo, ha pubblicamente redarguito una preside, rea di aver invitato i ragazzi a vigilare sulla democrazia nella scuola, a reagire contro la violenza fascista, per di più osando rivolgersi a loro con le parole di Gramsci (“odio gli indifferenti”).
Una involuzione culturale (la scuola, la storia, i simboli repubblicani, i rapporti familiari) propedeutica a un disegno di revisione istituzionale per eleggere direttamente una madre o un padre della patria, tanto più forte quando più debole sarà l’unità nazionale infragilita dalle piccole patrie regionali.
Questo gruppo di potere non vuole scacciare l’ombra del passato, non cerca di far dimenticare da dove viene, ma sparge il diserbante sulla storia perché ne sta già coltivando un’altra