Il generale Figliuolo nominato dal governo commissario per la ricostruzione. Scelta centralistica e d’emergenza minimizzando il ruolo del cambiamento climatico
Conselice, Romagna, 25 maggio - Giuditta Pellegrini
Con colpevole e ingiustificato ritardo il governo ha nominato il generale Figliuolo commissario per gestire la ricostruzione della Emilia Romagna, anzi di un’area ben più vasta ora che si sono aggiunte anche Marche e Toscana. Non voglio polemizzare né con chi è stato chiamato a ricoprire questo incarico gravoso, né con i presidenti delle tre regioni che lo affiancheranno. Ciò che non convince è il carattere centralistico della scelta e soprattutto il ricorso a una figura istituzionale tipica dell’intervento straordinario.
Da quanto si capisce per ora dispone di pochi soldi, poca conoscenza dei territori in cui dovrà operare e soprattutto non è chiaro come spenderà le limitate risorse di cui dispone.
Colpiscono negativamente due aspetti: il clima culturale in cui è maturata la decisione e l’evidente assenza di priorità. Per quanto riguarda l’impianto culturale è prevalso il tentativo di minimizzare il rapporto fra il cambiamento climatico in corso e ciò che è accaduto. Anzi la connessione fra le due cose è di fatto ignorata e si preferisce mettere le e gli ambientalisti al centro dell’attenzione, non per le loro idee e progetti, ma per essere proprio con i loro continui no la causa di tutti i disastri che stanno colpendo questo nostro paese, soprattutto quelli climatici. I no più gettonati sono quelli di aver impedito di scavare l’alveo dei fiumi, ostacolato la cementificazione dei loro argini e infine di essersi opposti allo sterminio delle nutrie che, con le loro innumerevoli tane, rendono gli argini fragili e facilmente aggredibili da una piena.
Si distinguono in questa opera di denuncia noti negazionisti del cambio climatico, spesso gli stessi che attaccarono l’obbligo di vaccinarsi contro il Covid. La rozzezza degli argomenti e di chi li scrive non merita una replica. Più meritevole di attenzione è Il Foglio di qualche giorno fa con l’intervista di Gianluca De Rosa allo scrittore Maurizio Maggiani. Andrebbe ricordato agli sprovveduti ecologisti, sostiene l’intervistato, che se si avverasse la loro invocazione di un salvifico ritorno alla natura non significherebbe più sicurezza per la popolazione, ma solo tornare alla vita grama di un tempo non lontano, con un delta del Po esteso da Venezia a Rimini, e con la sommersione con acqua paludosa e malsana delle tante terre che furono bonificate grazie al genio e alla fatica degli “scarriolanti” per renderle non solo coltivabili, ma soprattutto edificabili. La conclusione a cui arriva Maggiani è la stessa a cui giungono le e gli ambientalisti: non bisogna ricostruire la Romagna che c’era, ma inventarne una nuova. Il punto è proprio questo.
La recente alluvione mette di fronte a una scelta molto drastica: o la nuova Romagna, o più in generale un nuovo paese, viene disegnato e realizzato da noi umani, o lo farà il cambiamento climatico e allora non sarà molto diverso da quello descritto nel bel libro di Telmo Pievani e Mauro Varotto “Viaggio nell’Italia dell’Antropocene”. Nel libro, con dovizia di particolari, viene proposta la geografia del nostro futuro se si continuerà a non far nulla per fermare la corsa del cambiamento climatico.
Infine la questione delle priorità. Partire dalla Romagna è imposto da ciò che è successo, meno certo è il che fare. Ci si può limitare a risarcire il più possibile i danni enormi che l’alluvione ha provocato, cioè tentare di ripristinare ciò che c’era prima dell’alluvione o, viceversa, si può scegliere di mettere in sicurezza quei territori e dare priorità a tutti gli interventi in grado di garantire alle popolazioni che, se si ripetesse un evento simile a quello che è accaduto, questa volta i danni sarebbero gestibili. Per la prima strada affidarsi a un commissario è parzialmente giustificato.
Se invece ci si incammina sulla seconda la scelta «dell’uomo solo al comando» per quanto bravo ed onesto sia, è poco credibile. Per una nuova Romagna serve uno sforzo collettivo, culturale in primo luogo, una mobilitazione straordinaria di competenze con la ricostruzione dei servizi tecnici dello Stato, una nuova cultura del territorio, con la consapevolezza che si colpiranno interessi corposi e si imporranno scelte impopolari per decolonizzare intere aree a rischio.
La nomina del commissario produrrà la ricostruzione di sempre e certamente non si vedrà una nuova Romagna e tantomeno una Romagna meno fragile a questi eventi. Buon lavoro Generale
Commenta (0 Commenti)CRISI INTERNAZIONALE. Doveva scoppiare in Russia, poi è esplosa la crisi francese. Mentre resta strisciante in tante realtà del mondo. Dove emerge il fronte sociale interno, la lotta di classe inevasa
Chi vincerà il “palio” delle guerre civili nel mondo? Perché tutti aspettavano la guerra civile in Russia e invece ora tutti guardano tesi gli avvenimenti da guerra civile in Francia.
Con la rivolta delle banlieue per l’uccisione del giovane Nahel, con altre quattro vittime, una estensione della protesta in tutta la Francia e una repressione presidenziale – l’unica, violenta forma di sopravvivenza di Macron – che è arrivata a più 4mila arresti e all’istituzione di sbrigativi processi per direttissima. Mentre ora, scendono in piazza le ronde dichiaratamente fasciste contro «gli stranieri» e la società francese appare sempre più dilaniata – la colletta per la famiglia della vittima arriva a 200mila euro, quella per il poliziotto che ha ucciso Nahel supera il milione.
COMUNQUE FINIRÀ, il primo messaggio che arriva è che le guerre civili interrotte dalla repressione, poliziesca o militare che sia, sembrano appuntamenti solo rimandati. Vale anche per gli Stati uniti, che ora alle prese con i processi intentati a Trump, si trovano di fronte l’irrisolta immagine dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 quando sostenitori dell’ex presidente e milizie a lui ispirate irruppero manu militari nel sancta sanctorum della democrazia americana, dove una litania di uccisioni e mass shooting con decine di migliaia di morti l’anno testimoniano di un fronte interno sociale devastato.
VALE NATURALMENTE per la Russia di Putin che, per la guerra d’aggressione che ha provocato ha avuto bisogno di privatizzare la forza con un corpo mercenario che ha sostenuto le battaglie più importanti, fino alla ribellione della Wagner guidata dall’ex fido Prigozhin. Anche questo – i mercenari più impegnati in combattimento, con più vittime degli eserciti regolari – è nella tradizione delle guerre occidentali degli ultimi 30 anni, per la difficoltà di motivare fino in fondo le «ragioni» della guerra: con la Black Water e altre formazioni mercenarie in Iraq e Afghanistan, con lo sviluppo e ruolo di questa «necessaria» e ingombrante presenza.
E VALE ANCHE per la stessa Ucraina che, nell’ultima fase della guerra civile interna dal 2014 al 2022, ha incorporato formazioni militari irregolari (Battaglione Azov, Pravy Sector e altri) nelle forze armate – realtà che spesso hanno la stessa estrazione identitaria, neofascista e ipernazionalista, delle formazioni mercenaria del nemico russo; e vale per Israele dove Netanyahu per restare al potere, di fronte ad una società israeliana spaccata sulle sue scelte autoritarie e invece unita nell’occupazione militare dei Trritori palestinesi, ha concesso all’estremista suprematista Ben Gvir, diventato ministro della Sicurezza nazionale, la costituzione di un pericoloso corpo armato separato, la Guardia nazionale.
ECCO DUNQUE CHE la guerra civile, più o meno latente, torna con evidenza a proporsi come uno degli elementi della crisi contemporanea. Ed obbliga ad una riflessione di fondo. Quello che viene definito come il «dominio» mondiale dopo l’implosione dell’Urss, mostra una sua gigantesca fragilità nel campo sia alleato che nemico.
Così la vera strategia geopolitica in campo resta quella di destabilizzare l’avversario, fin all’esplosione di una guerra interna all’«altro». Madeleine Albright, segretario di Stato Usa, minacciava l’ex Jugolsvia di Milosevic di «sfogliare ad una ad una le margherite», le contraddizoni etniche e storiche della Serbia, se non avesse accettato le imposizioni di Rambouillet, prima di scatenare la guerra di bombardamenti aerei «umanitari» della Nato nel marzo 1999. E così sembra riproporsi ora la partita, come se fosse possibile un paragone tra la piccola e marginale Serbia e la Russia potenza atomica.
Sempre, naturalmente, pronti alla missione «civilizzatrice» di una alleanza militare occidentale: come in Somalia nel 1993 che doveva “Restore hope”, ridare speranza, e che invece vive ancora nella condizione di una guerra civile strisciante – domenica scorsa per l’eccidio del Ceck Point Pasta del ’93 sono stati ricordate le nostre vittime militari, ma nemmeno una parola per le decine e decine di vittime civili da noi provocate.
CHE DIRE POI DEL DISASTRO libico dove l’intervento della Nato, in primis della Francia, insieme alla morte di Gheddafi ha provocato una frammentazione della Libia stessa contesa in una guerra civile da due eserciti e da centinaia di milizie armate, dietro cui si nascondono nuovi governi inventati, nuovi alleati e nemici potenti; per non tacere del disastro provocato in Siria, una destabilizzazione non riuscita ma che ha fatto terra bruciata di un Paese. Dunque la guerra civile è l’occasione per ogni intervento militare esterno. Ma emerge un’altra questione che sposta il discorso dalla inflazionata geopolitica alla dinamica sociale e politica. Ne sanno qualcosa milioni e milioni di spostati sociali, donne e uomini in fuga, da miseria, carestia, conflitti per procura, devastazioni ambientali e crisi climatiche, che chiamiamo «migranti».
LE DIFFERENTI FORME di guerra civile che ci troviamo di fronte propongono infatti l’attenzione sul fronte interno, sul conflitto sociale inevaso in ogni realtà nazionale. Vale per Putin che, per proseguire nella sua guerra suicida per il popolo russo, è costretto a mobilitare sempre più diseredati dalle periferie della Federazone russa; vale per l’Ucraina dove in otto anni di guerra civile che hanno preparato la tragedia che abbiamo sotto gli occhi, ben pochi si sono accorti del fatto che nelle trincee del Donbass c’erano, e ci sono ancora, lavoratori contro lavoratori, spesso gli ultimi, le facce nere dei minatori ridotti alla fame ma armati ed aizzati dai rispettivi oligarchi.
E VALE PER GLI STATI UNITI, dove una analisi ed un coinvolgimento alternativo tarda a venire di quella «pancia profonda» di settori popolari di emarginati e poveri, diventati massa di manovra del nuovo suprematismo americano e della destra repubblicana. Anche noi dovremmo spostare l’attenzione dalla sola geopolitica alla lotta di classe: la guerra è sempre più, come dimostra l’Italia meloniana e l’Ue che riarma, un esplosivo blocco sociale d’interessi.
Per dirla con Marx, dietro le guerre del capitale si muove un’altra guerra civile: quella di un movimento reale di individui al lavoro, in punti opposti del mercato mondiale che, in rapporto di tensione con il potere che li connette, determinano nuove condizioni di possibilità per l’emancipazione
Commenta (0 Commenti)TV. Rasa al suolo la Rai3 di Gugliemi, debole (almeno finora) la reazione delle forze progressiste
In arrivo i nuovi palinsesti della Rai - foto di Ap
L’«operazione speciale» della destra sulla Rai ha fatto ieri un salto di qualità. Si sono incrociate notizie diverse, ma unite da uno scuro filo conduttore: la presa del potere sulla e nella azienda pubblica da parte del nuovo establishment, guidato da Fratelli d’Italia con gli alleati della maggioranza e con i gruppi dell’universo comunicativo che sentono arrivati i propri quindici minuti di celebrità, dopo gli anni della presunta (molto presunta) egemonia culturale della sinistra.
LA NEPPURE TROPPO DELICATA moral suasion inversa, che ha facilitato l’uscita– con tutte le differenze del caso- di Fabio Fazio, Lucia Annunziata, Maurizio Mannoni, fino all’annuncio di Bianca Berlinguer e la situazione di precarietà di altre e di altri, rientra nel percorso annunciato più volte dall’ex direttore del Tg2 e ora ministro della cultura Gennaro Sangiuliano: il cambio di narrazione. Come se il palinsesto di un’emittente complessa come la Rai fosse assoggettabile ad una bacchetta magica.
Il servizio pubblico, pur con gli svariati difetti che ne hanno accompagnato la storia, ha -comunque- creato una forma di estetica e ha conquistato successi di ascolto non facilmente replicabili se l’ingranaggio venisse rotto con modalità di violenza simbolica. Ed è proprio un caso di scuola la volontà di chiudere l’esperienza della terza rete rinnovata da Angelo Guglielmi e Sandro Curzi, le cui vestigia creative sono state uno dei pochi baluardi della programmazione.
SE IL CAMBIO DI narrazione assomigliasse a quello sperimentato giorni fa al museo Maxxi di Roma dalla conclamata direzione conservatrice del neopresidente Giuli con Sgarbi e Morgan, allora ci sarebbe poco da sperare. Ci si aspetta una reazione forte da parte delle anime progressiste, politiche e sindacali, più di quanto sia avvenuto nelle ore passate, malgrado le prese di posizione coraggiose, a partire dalle dichiarazioni della federazione della stampa, del sindacato interno e del consigliere di amministrazione rappresentante dei lavoratori Riccardo Laganà.
A PROPOSITO DEL CONSIGLIO, va ricordato che ieri la sua maggioranza (con i voti contrari del citato Laganà e l’astensione della esponente del PD Francesca Bria) ha varato il testo del contratto di servizio 2023-2028, che ora viaggerà per l’approvazione definitiva nelle stanze del ministero delle Imprese e del Made in Italy, nonché nell’aula della commissione parlamentare di vigilanza. Stupisce il favore attribuito all’articolato dalla presidente Marinella Soldi, che non pare proprio attenta a perseguire il ruolo di garanzia per cui fu eletta. Infatti, si era espressa con forti preoccupazioni su di un dispositivo assai lacunoso, inzeppato di spunti di cattiva ideologia sulla natalità e la famiglia, oltre ad aprire il vulnus sul giornalismo di inchiesta relegato alle varie ed eventuali. Pure il consigliere espresso dal M5S Alessandro di Majo aveva manifestato un dissenso, a quanto pare poi rientrato.
IL CONTRATTO DI SERVIZIO è un affare complesso, che dovrebbe sfuggire alle sciabolate buone per le campagne elettorali. Andrà esaminato bene, appena il testo sarà disponibile. Tuttavia, è utile ricordare che il documento (ora all’ottava puntata, dopo il primo siglato nel 1994) costituisce l’attuazione operativa della Convenzione che regola i rapporti tra lo Stato e la Rai. Sulla base degli assunti contenuti si inverano senso e missione del servizio pubblico, essenziali per giustificare la legittimità del canone di abbonamento. Non sarà sfuggito che proprio su tale imposta da mesi è in corso un balletto, essendo passata (fin qui) l’ipotesi di svincolarne la riscossione sulla bolletta elettrica.
NON SOLO. QUALE FUTURO prossimo venturo si disegna, per un apparato sballottato ai margini dell’infosfera, e di cui sfuggono le coordinate per rifondarsi come Digital Media Company di servizio pubblico, secondo le parole spese (invano?) dall’attuale ad Roberto Sergio audito dalla sede parlamentare? Non basta la parola. Il prossimo 7 luglio a Napoli verranno presentati i nuovi palinsesti: se ne leggono di cotte e di crude. Pier Silvio Berlusconi pare aver colto la falla che si è aperta nella vecchia blasonata ammiraglia del sistema e -forse- intende scompaginare l’antica dialettica del duopolio. La campagna acquisti è in corso. Una bizzarria: l’indagine Qualitel appena varata dalla apposita direzione con il consorzio specializzato in materia ha attribuito un 8 a quasi tutte le realtà produttive. Già, il merito
Commenta (0 Commenti)DEFINIZIONI. L'Odg nazionale e quello del Lazio adottano la definizione di antisemitismo dell'Ihra, che colpisce anche chi critica le politiche dello stato israeliano
Una manifestante israeliana durante una protesta contro il governo Netanyahu - Michele Giorgio
Una guerra di parole contro lo stato di Israele? Fiamma Nierenstein (Il Giornale, 27 giugno) lancia un’accusa assai veemente contro chiunque oggi metta in dubbio la definizione di antisemitismo proposta dall’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). Definizione recentemente sottoscritta dall’Ordine nazionale dei Giornalisti, e da quello del Lazio in particolare.
Un fatto grave, che ci riguarda tutti come cittadini: una sorta di autocensura preventiva che viola il nostro diritto all’informazione. L’Ihra, fondato nel 1998, è un’organizzazione intergovernativa cui aderiscono 35 stati (quasi tutti quelli europei più Israele, Stati uniti, Canada, Australia e Argentina).
La «definizione operativa» di antisemitismo fu adottata in seduta plenaria a Bucarest nel 2016; secondo il sito dell’Ihra, 38 paesi l’hanno adottata, tra questi anche l’Italia. Sotto la lente dei suoi critici, sempre più numerosi, non sono tanto le pur vaghe due frasi che ne costituiscono il corpo («L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può esprimersi come odio verso gli ebrei. Le manifestazioni di antisemitismo sono dirette contro individui ebrei o non e/o contro la loro proprietà, contro le istituzioni e i beni religiosi della comunità ebraica»), ma alcuni degli 11 esempi che sostanziano la definizione, sette dei quali si riferiscono a Israele, e in particolare quelli che equiparano all’antisemitismo la critica del sionismo politico, inteso come ideologia che giustifica il carattere etnico dello stato «ebraico» di Israele e ispira la politica dei suoi governi.
Già dire «Palestina libera», a questa stregua, è antisemita, perché mette in questione l’esistenza di Israele. A parte il fatto che con le nuove centinaia di migliaia di coloni che l’attuale governo promette di insediare nel poco che resta di Cisgiordania, se c’è qualcuno che sta vanificando la soluzione a due Stati non sono certo i palestinesi, a cui non è rimasta letteralmente la terra per averne uno.
Ne ha preso atto anche una delle riviste internazionali più prestigiose, Foreign Affairs, che nel numero di maggio/giugno pubblica un saggio a firma di Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami, Israel’s One-State Reality: «Una soluzione a uno stato…esiste già, comunque la si pensi. Tra il Mediterraneo e il Giordano, un solo stato controlla l’entrata e l’uscita delle persone e dei beni, presiede alla sicurezza, e ha il potere di imporre le sue decisioni…a milioni di persone senza il loro consenso».
Ma poi, perché mai auspicare la liberazione di un popolo sarebbe auspicare la distruzione di un altro? Per dirla, ancora una volta, con gli autori di Foreign Affairs, «una realtà a uno stato potrebbe, in linea di principio, basarsi sul principio democratico e uguali diritti di cittadinanza», anche se non è questo lo stato presente.
«Tra l’identità ebraica di Israele e la democrazia liberale, Israele ha scelto la prima. Ha blindato un sistema di supremazia ebraica, dove i non-ebrei sono strutturalmente discriminati o esclusi in uno schema a strati: alcuni non ebrei hanno la maggior parte, ma non tutti, i diritti che hanno gli ebrei, mente la maggioranza dei non ebrei vive in condizioni di grave segregazione, separazione, e soggezione».
Appunto. Se l’Onu e le altre agenzie internazionali hanno prodotto la montagna di risoluzioni che i governi di Israele hanno violato, primo tra tutti il diritto al ritorno dei palestinesi cacciati dalle loro terre, una ragione ci sarà. Una norma universale che valga un po’ sì e un po’ no è ancora una norma? Ma la norma dell’eguaglianza in dignità e diritti, purtroppo, è irrimediabilmente lesa.
Non dal sionismo in generale, dato che tante versioni ce ne sono state, ma certo da quello cui si ispira la Legge dello Stato-nazione, approvata nel 2018 («emblema stesso del sionismo» la definì il portavoce della Knesset), con la sua distinzione tra due categorie di cittadini – quelli che godono, e quelli che non godono, dei diritti «nazionali». Riferendosi alla quale Netanyahu poté affermare che «lo stato di Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini ma del popolo ebraico esclusivamente».
Ecco: ma deve forse esserlo, è nella sua natura discriminare all’interno categorie di cittadini e all’esterno espandere sempre di più l’occupazione illegale di terre non sue? Uno si aspetterebbe che la risposta non antisemita sia: no, certo! Tanto più adesso, quando i coloni compiono pogrom nei villaggi palestinesi e leader al governo si esprimono con linguaggio genocidario e molti israeliani esprimono il loro dissenso dall’attuale governo.
Ma la perversa logica della definizione accusa di antisemitismo proprio la posizione critica, secondo cui la postura identitaria etnica non è l’essenza di Israele, ma riguarda solo le pessime politiche dei suoi governi, e di questo in particolare. E come può un’agenzia di verità come dovrebbe essere la stampa far proprio un simile decreto, fatto per zittire tutte le posizioni critiche, e ledere il nostro diritto all’informazione?
Commenta (0 Commenti)I giochi per il riassetto degli equilibri europei, che saranno sanciti dalle elezioni del 2004, sono ormai aperti nei singoli paesi e a livello continentale. E in Italia si incrociano le spade soprattutto tra gli alleati del governo di destra. Una competizione che può avere conseguenze non solo sui decibel della propaganda, ma anche sulle scelte concrete. E se Matteo Salvini fa squadra con l’estrema destra di Le Pen e dell’Afd, Giorgia Meloni non ha certo abbandonato al loro destino gli “amici” sovranisti.
La settimana scorsa a Bruxelles la premier, che non aveva esitato a definire «memorabile» l’intesa sui migranti contenuta nella bozza di conclusioni del Consiglio europeo, si è ritrovata subito nei guai. Il capitolo sui migranti è stato espunto dalle conclusioni perché il polacco Morawiecki e l’ungherese Orbán hanno contestato i contenuti e la modalità con cui era stato approvato il Patto sulle migrazioni che prevede il pagamento di 20 mila euro per ogni migrante non ricollocato dai singoli Paesi. E il tentativo di mediazione di Meloni è stato un buco nell’acqua. «Siamo d’accordo nel non essere d’accordo», aveva commentato Morawiecki, augurando buona fortuna alla leader di Fd’I. Il che è suonato come uno sberleffo a suggello della spaccatura del fronte sovranista.
Eppure la stessa Meloni, ieri sul Corriere della Sera, ha ripetuto proprio quella frase per minimizzare l’accaduto nella prospettiva di una alleanza in Europa tra il gruppo dei conservatori europei (Ecr) di cui è presidente e che comprende il Pis di Morawiecki, e il Ppe.
«Nel consiglio ognuno rappresenta gli interessi della propria nazione e ognuno fa bene a difendere i suoi. La posizione di Polonia e Ungheria non cambia nulla nei nostri rapporti» e appunto «siamo d’accordo nel non essere d’accordo su questa questione marginale. Tradotto significa ’è normale che ciascuno faccia il proprio interesse’». In sostanza la presidente del consiglio italiano difende il preminente «interesse nazionale» altrui anche quando questo va contro l’interesse della propria «nazione». Contraddizione apparente, perché il ragionamento corrisponde precisamente all’idea di Europa della leader di Fd’I: l’Europa delle nazioni, cioè dei nazionalismi. Anche a costo di entrare in conflitto con il nazionalismo dei più stretti alleati, ammesso che quello di Bruxelles sia stato il caso o che lo sia stato fino in fondo.
Perché la premier chiarisce anche che secondo lei il Patto migrazione e asilo che pure l’Italia ha votato non è una «soluzione efficace». Per Meloni la «priorità è fermare i flussi illegali prima che partano» e non «gestire gli arrivi». Non a caso parlando di «intesa memorabile» la premier italiana non si riferiva ai ricollocamenti da lei sempre considerati non prioritari, ma alla cosiddetta «dimensione esterna». Quella politica sulle migrazioni che appunto si preoccupa non di accogliere chi arriva in Europa, ma di impedire con ogni mezzo gli arrivi. Una linea ormai prevalente nella Ue e ancor più condivisa in tutto e per tutto dall’attuale governo italiano, la Polonia e l’Ungheria: la «fortezza Europa».
Se davvero spaccatura è stata, venerdì a Bruxelles Meloni troverà il modo di ricucire soprattutto con Morawiecki (con il quale l’alleanza è saldissima anche sul fonte della difesa dell’Ucraina): i due si incontreranno nei prossimi giorni a Varsavia per il seminario dell’Ecr e l’italiana saprà spendersi a sostegno delle rivendicazioni della Polonia (e dell’Ungheria) anche sul fronte dei contributi europei per l’accoglienza dei profughi ucraini e delle procedure d’infrazione aperte dalla Ue. A Varsavia non mancherà l’occasione di duettare su questioni come la “famiglia” (rigorosamente eterosessuale) o i tumulti francesi (tutta colpa dell’immigrazione irregolare…).
Nonostante l’inciampo di Bruxelles l’asse ideologico sovranista resta insomma solido. Malgrado le apparenze non è mai cambiato e mai cambierà. La Giorgia Meloni «mediatrice» prudente dai toni pastello risulta molto poco credibile: tanto più ora che in casa Matteo Salvini ha dato il fischio d’inizio della partita per le Europee 2024 e la sfida apertamente
INTERVISTA. Parla Yurii Sheliazenko, leader del Movimento nonviolento a Kiev «Rischio la vita, ma non mi faccio intimidire dai guerrafondai. Putin e Zelensky restano supremi negazionisti della pace e cercano la vittoria sul campo. Manca l’immaginazione nel costruire ponti, quindi li fanno letteralmente saltare»
Lavora come consulente legale freelance, giornalista e scrittore, è stato ricercatore e docente di Diritto alla Krok Univesity, vive a Kiev. Barba e capelli lunghi, sempre un po’ trafelato, è il punto di riferimento in Ucraina del movimento pacifista internazionale. La sua organizzazione nonviolenta fa parte di EBCO/BEOC, l’Ufficio Europeo per l’obiezione di coscienza e della War Resisters International. Tra i suoi progetti, tradurre e diffondere in Ucraina i testi sulla nonviolenza di Gandhi e Capitini.
Yurii, come va? Che vita stai facendo da quando è iniziata la guerra?
Mi chiamano traditore, mi vengono rivolte minacce, rischio la vita, viene fatto pubblicamente il mio nome come nemico. Non mi lascio intimidire da tutto questo. Io mi esprimo contro i guerrafondai, contro tutti coloro che vogliono fare la guerra. La mia casa a Kiev è stata scossa dalle esplosioni di missili russi nelle vicinanze e le sirene dell’allarme aereo mi ricordano, giorno e notte, che la morte vola sopra la testa. Tuttavia, con il nostro movimento aiutiamo i civili a sopravvivere, continuiamo a sostenere l’abolizione del servizio militare obbligatorio, portiamo avanti studi sulla pace e cooperiamo con il movimento internazionale per la pace.
Che succede dopo lo scontro di potere tra Putin e Prigozhin?
Prigozhin non si è indebolito, ha salvato le sue sanguinose fortune, ha consolidato il suo esercito di mercenari e gli è stato permesso di trasferirsi in un luogo considerato sicuro. L’accordo ha aumentato anche il potere di Putin. Egli ha bisogno di eserciti di mercenari per le guerre ombra russe in tutto il mondo, e anche i suoi alleati cinesi potrebbero averne bisogno. Però questa vicenda ha dimostrato che anche due criminali di guerra rivali sono riusciti a negoziare una tregua tra loro e indica che i negoziati sono sempre possibili.
Qual è stato il vero ruolo di Lukashenko, secondo te?
La Bielorussia è una società ancora più militarista rispetto alla Russia. Prigozhin operava già in Bielorussia e questo nuovo accordo significa solo che la Bielorussia diventerà il suo quartier generale formale. Significa anche che Lukashenko ha intenzione di usare il suo esercito privato. La Bielorussia è una sorta di offshore per gli oligarchi di Putin, una giurisdizione nominalmente indipendente in cui è possibile salvare i propri soldi.
Al Vertice di Vienna per la pace in Ucraina, hai attaccato i «negazionisti della pace».
Nemmeno la distruzione della diga di Nova Kakhovka e l’alluvione di dimensioni bibliche hanno convinto Putin e Zelensky a fermare la guerra e a collaborare per salvare le vittime. Entrambi rimangono supremi negazionisti della pace, cercano la vittoria sul campo di battaglia e si rifiutano di prendere in considerazione qualsiasi possibilità di riconciliazione. Manca l’immaginazione nel costruire ponti, e quindi fanno letteralmente saltare i ponti!
A chi dice che la sola alternativa è tra vittoria o resa, cosa rispondi?
Alcuni dicono che è immorale smettere di armare l’Ucraina per l’autodifesa, ma io credo che sia immorale alimentare la guerra con la fornitura di armi. L’unica speranza di uscire dal circolo vizioso è imparare a resistere agli aggressori e ai tiranni senza violenza, senza riprodurre i loro metodi e la loro follia militarista. Putin ha aggredito militarmente, ma noi non possiamo agire come se la difesa nonviolenta e la diplomazia non esistessero.
E ora come evolverà il conflitto?
La continua ecalation tra Russia e Ucraina rende ora impossibile pensare ad un cessate il fuoco. Putin insiste nell’intervento militare per liberare l’Ucraina da un regime fascista che uccide il proprio popolo. Zelensky mobilita l’intera popolazione per combattere l’aggressione e afferma che i russi si comportano come nazisti che colpiscono i civili. I media ucraini e russi usano la propaganda militare per chiamare l’altra parte nazisti o fascisti. Tutti i riferimenti di questo tipo servono a giustificare che si sta combattendo una «guerra giusta»: devi essere ossessionato dall’idea che «noi» dobbiamo combattere e «loro» devono morire.
In Italia ti accuserebbero di non saper distinguere tra aggressore e aggredito.
La guerra di Putin è senza dubbio malvagia, ma durante i sette anni prima dell’invasione russa in Ucraina, sia i russi che gli ucraini hanno violato l’accordo di cessare il fuoco in Donbass, in cui migliaia di persone sono state uccise. La verità è che molti ucraini non sono così innocenti, così come i russi. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri paesi dell’Occidente hanno potenziato la Nato che si sta espandendo verso Est. Entrambe le parti corrono il rischio di far scoppiare una guerra nucleare che può portare alla distruzione della vita sul nostro pianeta
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