La comunicazione di massa è un tema di conflitto: in gioco c’è la tenuta democratica del Paese. Ne parliamo con Vincenzo Vita, Articolo 21
Mercoledì 6 marzo, al Centro Congressi Frentani di Roma si terrà un incontro, organizzato da Cgil, Slc e Articolo 21, dal titolo “No signal. Al lavoro per una nuova società dell’informazione”. A partire dalle 9.30 sarà trasmesso in diretta su Collettiva. Lo scopo dell’iniziativa è netto e chiaro: dare un preciso messaggio, il tema dell'informazione è tema di conflitto, in gioco c’è la tenuta democratica dl Paese. Ne parliamo con Vincenzo Vita, un passato e un presente nel mondo dell’informazione e della comunicazione – è stato anche sottosegretario alle comunicazioni nel primo governo Prodi – oggi garante di Articolo 21.
Lo dicevi, stanno succedendo cose inaudite. Tra le cose inaudite, l'ultima in ordine di tempo è la messa sotto inchiesta dei tre colleghi del quotidiano Domani che hanno fatto semplicemente il proprio lavoro: hanno avuto delle informazioni, le hanno verificate, hanno controllato che fossero vere e le hanno pubblicate.
Il caso del Domani è un caso, purtroppo, di scuola. Nel senso che si incriminano dei giornalisti che fanno fino in fondo il proprio mestiere, anche sotto il profilo proprio deontologico. È questo il lavoro di un giornalista: quando viene a conoscenza di una notizia ha l'obbligo di parlarne, di scriverla, di dirla, tanto più quando una notizia ha un valore sociale va resa nota. Le eventuali implicazioni, ad esempio, tra un ministro e aziende non sono un segreto di Stato, sono una vicenda che riguarda l'opinione pubblica che deve sapere. Quei giornalisti del Domani, a cui va assolutamente la massima solidarietà, hanno fatto quello che è proprio dell'essenza del giornalismo.
C'è un altro giornalista che ha fatto fino in fondo al proprio mestiere e proprio per questa ragione rischia di rimanere in carcere per tutta la vita. Ovviamente mi riferisco ad Assange: rischia la vita ma in realtà dovrebbe essere considerato un maestro dei giornalisti e delle giornaliste del mondo.
Negli anni ‘60 e ‘70 Assange avrebbe avuto il premio Pulitzer: ha fatto né più né meno di quello che fece il Washington Post pubblicando i Pentagon Paper sulla guerra in Vietnam. L'ha fatto con tecnologie più evolute, certo, usando la crittografia e con tanti computer in giro per il mondo, invece del Pulitzer rischia la condanna a morte perché ha messo il naso nelle cose segrete delle guerre e chi mette il naso lì si scotta. Ma in gioco c’è, anche e forse soprattutto, il diritto dei cittadini e delle cittadine del mondo a sapere se le guerre che si sono combattute sono state dichiarate, tra l’altro, sulla base di una menzogna.
Così come è interesse dei cittadini e delle cittadine italiane sapere se il proprio ministro difende i cittadini e le cittadine italiane come da giuramento sulla Costituzione, o ha anche degli interessi, diciamo così, più privati.
Questo è il punto chiave: quando diciamo che la libertà di informazione, che l'articolo 21 della Costituzione è sotto botta, è attaccato, si sta ledendo pesantementel'autonomia dell'informazione. L’informazione, come la magistratura, sono contropoteri e in un momento in cui si tende addirittura al premierato. Vista la proposta Casellati in onore della Meloni, si potrebbe arrivare all'ipotetico referendum sulla riforma costituzionale a reti unificate. E forse questo è proprio uno degli obiettivi che si intendono raggiungere.
Da qui l'attacco ai giornalisti e alle giornaliste, più in generale al mondo dell'informazione, che non si esplica solo con l'incriminazione dei colleghi di Domani. Sono sul tappeto una serie di norme volute dal governo che limitano il diritto all'informazione.
Sì, proprio recentemente è stata pubblicata in Gazzetta ufficiale la legge di delegazione europea con il cosiddetto emendamento Costa che vieta di pubblicare integralmente le ordinanze di custodia cautelare. Anche in qui siamo di fronte a un caso di scuola: le ordinanze cautelari sono per loro natura un atto pubblico perché la persona interessata, ma anche cittadini e cittadini, hanno il diritto di conoscere perché si procede a un fermo. E il sunto non sta in piedi: chi e con quale punto di vista fa il sunto di decine di pagine di ordinanza? Per vietarne la pubblicazione si usa a sproposito il diritto alla privacy dei comuni cittadini, ma è proprio la pubblicazione integrale che assicura trasparenza e quindi tutela i più fragili. In realtà il diritto alla privacy che si vuole tutelare è quello dei potenti. Ma la volontà di limitare l’informazione non finisce qui, c’è – ad esempio - il ricorso crescente alle querele temerarie. Solo Report ne ha ricevuto una montagna, in realtà si tratta di una vera e propria forma di censura. L'utilizzo della querela è utile non tanto sul piano penale visto che quasi mai si arriva a condanna, ma perché evocano il risarcimento in sede civile. Si rischia di preferire – comprensibilmente, viste le condizione di precarietà assai diffusa nel mondo dell’informazione - di non rischiare.
Le querele temerarie diventano uno strumento per costringere all’autocensura i giornalisti?
Il tema dell’informazione deve essere coniugato con quello del lavoro. Il giornalismo è una delle professioni ad alto tasso di precarietà e anche di lavoro povero. Come è immaginabile che un collega si esponga a cuor leggero al rischio querela? La querela è una forma di censura e di autocensura. Uno schizzo autoritario.
E poi c’è il tema delle intercettazioni.
Sulle intercettazioni c'è molta cattiva propaganda. Anche in questo caso non riguardano le persone senza potere. Limitare o vietare le intercettazioni serve a tutelare chi ha potere, colpisce la libertà di conoscere. Del resto, domanda molto semplice, quando non esistevano le tecnologie di cui disponiamo oggi, per conoscere ci si avvaleva di cosiddetti informatori che riportavano agli inquirenti i “sentito dire. Le intercettazioni sono più garantiste, si ascoltano conversazioni reali e non riportate. È esattamente il contrario di quello che temono i falsi garantisti. È più garantista conoscere le intercettazioni piuttosto che basarsi sul sentito dire di vicini e conoscenti. In passato tante volte è stato negato il visto per gli stati Uniti, perché qualche voce ti descriveva come comunista.
Un altro capitolo in questa fase molto complessa riguarda ciò che accade dentro la Rai che, ricordo, è servizio pubblico.
Una grave manomissione della già debole normativa invecchiata e fragile è stata la legge del dicembre 2015 a cura di Matteo Renzi: nel trasferire il controllo sulla Rai dal Parlamento al governo, e introducendo la figura dell'amministratore delegato, ha reso possibile al governo attuale, alla Meloni, di fare la cavalcata nera che è in corso. Oggi assistiamo all’occupazione dell’azienda, che è cosa assai diversa dalla tanto vituperata lottizzazione che, magari in maniera maldestra, garantiva all’interno del perimetro Rai la rappresentazione dei rapporti di forza del sistema politico. Adesso è un'occupazione pure semplice.
Se tutte le cose che hai detto sono reali, il problema non riguarda solo e soltanto l'informazione, chi la fa e chi la dovrebbe fruire. L’equilibrio costituzionale del nostro Paese si fonda su pesi e contrappesi, informazione e magistratura sono i contrappesi del potere che rendono equilibrato il sistema. Cosa sta succedendo per davvero?
Sta succedendo quello che è già successo in Polonia, in Ungheria. Si sta cercando di affermare quella che i politologi chiamano ‘democratura’, una forma di autoritarismo che si libera dai contropoteri, li indebolisce, li attacca, li mette in un angolo. Riguarda la magistratura e riguarda, per l'appunto, l'informazione.
Cosa occorre fare per scongiurare questo disegno?
Far crescere forte la consapevolezza che l'informazione non è solamente un tema di convegni e seminari, ma è anche un tema di lotta. Questo lo scopo dell’iniziativa organizzata da Slc, Cgil e Articolo 21 mercoledì 6 marzo che Collettiva trasmetterà in diretta online a partire dalle 9.30. Pensiamo oggi sia inevitabile e doveroso considerare il campo dell'informazione, in generale la comunicazione di massa, un campo di grandi lotte, di grande conflitto. Senza conflitto non si va da nessuna parte. Conflitto che non riguarda solo giornalisti e giornaliste, ma tutto il lavoro nella società dell’informazione. Di più, è necessario sottolineare che questo è un cruciale capitolo del capitalismo attuale, quello delle piattaforme: che si avvale del segreto, del controllo delle fonti, per indebolire qualsiasi soggettività autonoma e indipendente. E sullo sfondo c’è, ovviamente, quella terza guerra mondiale a pezzi di cui parla Papa Francesco e che riguarda anche l'informazione. Sono più di 100 i giornalisti morti a Gaza. In gioco c’è la tenuta democratica del Paese. Spetta quindi a tutte e a tutti mobilitarsi e resistere.