La presidente della Commissione europea in campagna elettorale per un secondo mandato arriva a Roma, ma la lasciano sola. Perno di un’alleanza a Bruxelles tra i popolari e la destra, viene tenuta lontana persino dalla «sua» Forza Italia. E Meloni preferisce nascondersi
IN CERCA DEL BIS. Restare in silenzio una volta lasciato il potere è una scelta legittima e perfino ammirevole. Nondimeno l’ermetico silenzio di Angela Merkel, più ancora della sua assenza, la settimana scorsa, dal […]
Restare in silenzio una volta lasciato il potere è una scelta legittima e perfino ammirevole. Nondimeno l’ermetico silenzio di Angela Merkel, più ancora della sua assenza, la settimana scorsa, dal congresso berlinese di quello che fu il partito che guidava, ci dice molte cose. Ma soprattutto una: l’attuale Germania ha ben poco a che vedere con quella che abbiamo conosciuto durante il suo lungo cancellierato. E la Cdu, partito di maggioranza relativa, si sta prendendo la rivincita sulla politica di Angela Merkel e la sua popolarità, ampiamente sfruttata ma mai davvero digerita. Un ampio spazio a destra è oggi al centro della contesa: tentare di conquistarlo accentuando i propri tratti reazionari (e compromettendo così definitivamente il rapporto con i socialisti in Europa) o rassegnarsi a un’alleanza con almeno una parte dell’estrema destra? Un dilemma che insidia la campagna elettorale di Ursula von der Leyen per restare alla presidenza della Commissione.
Tre punti sono sufficienti a chiarire la differenza tra la Germania della Cancelliera e quella attuale. Fu Merkel ad abolire quel servizio di leva obbligatorio che ora la Cdu e in particolare la sua patriottica federazione giovanile decidono di reintrodurre, sia pure con l’ausilio di formule graduali e rassicuranti. Certo, di mezzo c’è una guerra in corso in piena Europa, ma le risposte potevano essere molto diverse dalla coscrizione e da smisurate politiche di riarmo che non rafforzerebbero l’indipendenza e il peso del Vecchio continente comunque impossibile da conseguire, sia verso est che verso ovest, sul piano della potenza militare.
Di fronte a una delle più imponenti ondate di profughi che avessero investito la Germania, Merkel aveva pronunciato il famoso
«ce la possiamo fare!». Vero è anche che, pur nell’ambito di una politica migratoria articolata e attenta a non scadere in xenofobia, cercando l’appoggio a pagamento della Turchia nel trattenere i migranti, la Cancelliera aveva aperto la strada all’impiego di impresentabili paesi terzi per parcheggiarvi a tempo indeterminato i richiedenti asilo. La Cdu in Germania e von der Leyen in Europa puntano oggi esclusivamente su questa politica senza nemmeno darsi la pena di discuterne i risvolti più ripugnanti.
E fu ancora Angela Merkel a decretare, dopo l’incidente di Fukushima, l’abbandono dell’energia nucleare al cui ritorno la Cdu guarda oggi con speranza. E verso la quale i Verdi, dopo averla avversata per anni, si sono mostrati assai disponibili a deroghe, rinvii e ripensamenti. Anche in questo caso la guerra ha fatto la sua parte chiudendo i rubinetti del gas russo che alimentava l’industria tedesca.
Senza poter più guardare, oltre che ai paesi dell’est postsovietico, alla stessa Russia, la Germania in una prospettiva di lungo termine è destinata a indebolirsi e deperire, a dispetto di qualsiasi fantasia di autonoma potenza. Questo ritorno di una nuova cortina di ferro, assai più del passaggio di potere alla rissosa coalizione tra socialdemocratici, liberali e verdi, ha scavato il fossato tra la Germania di Angela Merkel e quella attuale. Anzi, se ancora qualcosa si conserva della passata stagione, se qualche elemento di continuità è dato ravvisare, è nella Spd e nelle preoccupazioni del cancelliere Olaf Scholz di evitare lo scontro diretto e totale con Mosca.
Sotto la guida di Angela Merkel la «grande coalizione» tra Cdu ed Spd si era andata trasformando in una sorta di partito unico. Una rassicurante promessa di stabilità e di benessere, un centrismo che si mostrava decente e ragionevole, ma anche un irrigidimento della dialettica politica destinato a logorarsi in entrambe le sue componenti di fronte al susseguirsi dei fenomeni di crisi globale e a un’insoddisfazione sempre più diffusa nella società tedesca. Le elezioni sono state perse proprio da questo partito bifronte e ora la Cdu punta a recuperare una precisa identità spostandosi a destra per non restare fuori dalla corrente che oggi sembra prevalere in Europa. Già, perché questo, oltre la guerra, è il secondo elemento di netta demarcazione tra la Germania di Merkel e quella di oggi. Ossia la presenza consistente di una destra radicale sempre in bilico tra l’essere bandita o entrare a pieno titolo nel calcolo politico. Nell’un caso e nell’altro è il segnale di un umore, un risentimento diffuso, che farebbe molto comodo portarsi a casa. E se per ora è proibito collaborare con Afd, nulla impedisce di appropriarsi dei suoi temi una volta depurati della retorica neonazista.
Per gli equilibri europei questo slittamento rappresenta un serio pericolo.
A incarnarlo è la candidata del Ppe alla presidenza della Commissione Ursula von der Leyen: del riarmo europeo ha fatto una priorità cui vorrebbe assegnare uno specifico commissario. Sulle alleanze a destra cerca di non sbilanciarsi per non inimicarsi i settori più moderati del Ppe. Ma certo non scommette su una maggioranza che includa i socialisti, i quali a loro volta bene farebbero ad escluderla senza ambiguità, visto che tutta la sua politica, a partire dall’abbandono del green deal, vira decisamente a destra