EFFETTI COLLATERALI. Dallo scioglimento della camere presentati oltre 20 programmi di riarmo
Se la pace brilla per assenza nei programmi elettorali, le spese militari al contrario brillano, crisi o non crisi di governo, per presenza nei lavori parlamentari.
Lo denuncia in dettaglio l’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane che ha diffuso una nota in cui si spiega che, dallo scioglimento delle Camere il 21 luglio scorso, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha sottoposto all’esame del parlamento oltre venti programmi di riarmo per un investimento totale pluriennale per le prime fasi confermate che supera i 12,5 miliardi di euro.
L’onere complessivo delle successive fasi dei programmi, già prefigurate ma non ancora sottoposte a voto, potrebbe superare i 22 miliardi di euro nel corso degli anni di vita dei vari progetti. Queste decisioni, che impegnano fondi su futuri vari bilanci dello Stato, scrive Milex nella nota, sono proposte e discusse con un esecutivo che dovrebbe solo garantire il “disbrigo degli affari correnti” in attesa delle elezioni.
«Evidentemente – commenta sarcastico Francesco Vignarca di Rete pace disarmo – la frase ‘disbrigo degli affari correnti’ si applica diversamente a seconda del tema. Ed è un nodo politico direi, se un parlamento che non fa nulla viene convocato velocemente (ieri ndr) per portare a casa almeno una parte di questi 12 miliardi. Aggiungo che, come accade dall’agosto 2021, siamo in presenza di programmi che, se approvati tutti, porterebbero a una spesa, spalmata su diversi anni, di quasi 30 miliardi. E vorrei aggiungere infine che in Commissione Difesa tutto è sempre stato approvato all’unanimità: non c’è mai stato un solo parlamentare che si sia opposto…».
Gli esempi sono numerosi. Cinque programmi (scudo antimissile, armamento droni Predator, elicotteri Carabinieri, sistemi di ricognizione aerea, razzi anticarro) per una spesa complessiva pluriennale di quasi un miliardo sono stati presentati al parlamento il 26 luglio e approvati velocemente (e all’unanimità) dalle Commissioni Difesa di Senato e Camera rispettivamente il 2 e 3 agosto. Altri sei programmi (nuovi pattugliatori e cacciamine della Marina, ammodernamento degli elicotteri per la Marina, missili antiaerei, ammodernamento di cacciatorpedinieri per la Marina e carri armati per l’Esercito) per una spesa complessiva pluriennale di oltre 6 miliardi sono stati presentati dal Ministero tra il 3 e il 10 agosto e calendarizzati per l’esame in commissione Difesa della Camera a partire da ieri.
Ulteriori dieci programmi (elicotteri d’addestramento, gestione droni, navi anfibie per la Marina, radiotrasmissioni, satelliti spia, bazooka, un sistema di piattaforma stratosferica, droni di sorveglianza, potenziamento di capacità per brigata tattica, nuovi carri armati leggeri) per una spesa totale pluriennale di oltre 5,5 miliardi sono infine stati inviati al parlamento dal ministro il 1 settembre anche se non è chiaro – conclude la nota di Milex sulla lista della spesa – se le competenti Commissioni parlamentari arriveranno a calendarizzare i pareri (obbligatori) su questi atti dell’esecutivo nei pochi giorni di vita che separano la XVIII legislatura dalla sua fine.
Non è finita. Sempre Milex ricorda che si deve aggiungere anche una richiesta per l’ammodernamento e rinnovamento di un sistema satellitare Sicral3 presentata l’11 luglio (345 milioni di euro) e che nel 2022 sono stati votati (sempre all’unanimità) pareri positivi per programmi d’armamento presentati nel 2021 ma discussi nell’anno successivo per un controvalore totale approvato di quasi 4 miliardi. Su nessuno di questi dossier il parlamento ha mai ritenuto di dover sentire anche le campagne della società civile italiana che si oppongono al riarmo che ci ritroveremo, quale che ne sia il colore, anche nella prossima legislatura.
IL CASO. Allarme della Fondazione Di Vittorio: ci sono 9,1 milioni tra disoccupati, poveri e precari. I più colpiti giovani e donne. Ocse: entro la fine dell’anno i salari reali caleranno del 3%. E mentre l’inflazione morde, la campagna elettorale ha rimosso il lavoro e i diritti sociali. Landini (Cgil): "Il male assoluto di questi anni è aver creato una precarietà che non ha paragoni in Europa"
La recessione in arrivo peggiorerà la vita di 9,1 milioni di lavoratori poveri e precari, giovani under 24 e donne, inattivivi o occupati parzialmente e in maniera intermittente, poveri relativi o assoluti. Lo sostiene la Fondazione Giuseppe Di Vittorio della Cgil secondo la quale a fronte di 23 milioni di occupati, circa 2,4 milioni avevano un contratto a tempo determinato. Oggi, con un numero simile di occupati, i precari sono 3,2 milioni: 800 mila in più. Un picco già registrato a luglio dall’ Istat. L’occupazione a termine è di solito usata «come locomotiva» nelle fasi di crescita economica e «come ultima carrozza della quale liberarsi» nelle crisi. Con ogni probabilità è quello che avverrà anche nel corso del prossimo anno.
NON VA DIMENTICATO il fatto che il modello economico dominante è stato concepito per occultare il livello di disoccupazione «reale». Per la Fondazione Di Vittorio quello ufficiale stabilito al 9,5% nel 2021 non coglie la costituzione materiale del lavoro intermittente che
Anche l'Associazione Politico-culturale “L'Altra Faenza” aderisce alla marcia contro i rigassificatori, per il clima di domenica 11 settembre a Ravenna.
Contestiamo il nuovo progetto di rigassificatore a Ravenna (come altrove) non solo per gli enormi impatti ambientali (si veda la perforazione di 32 km che dalla spiaggia di Punta Marina entra nel territorio aggirando tutta la città di Ravenna) ma anche perché, a costi enormi, si avrebbero scarsi risultati solo fra qualche anno, e soprattutto, si manterrebbe per decenni il vecchio sistema energetico fossile.
Per affrontare l'emergenza sugli approvvigionamenti e sui costi dell'energia e del gas servono piani di risparmio ed efficientamento e un prezzo politico a livello europeo - o a livello nazionale (come hanno fatto Spagna e Portogallo) - colpendo la speculazione internazionale e recuperando il 100% degli extraprofitti delle grandi aziende dell'energia (incluso le multiutility locali) e poi investire sul serio sulla transizione energetica, per ridurre e quindi progressivamente fare a meno delle fonti fossili.
Fortunatamente, anche nelle nostre zone, stanno crescendo opposizioni, critiche, preoccupazioni e non solo dagli “ambientalisti più radicali”, obiezioni significative vengono anche da ARPAE, Istituto Superiore di Sanità, Parco Delta Po, Provincia, Autorità di Sistema Portuale, ecc. oltre a diverse associazioni sociali, dei bagnini, ecc.; a tutti vanno date risposte puntuali, che la procedura d'urgenza, gestita dal commissario Bonaccini, rischia di non dare, anche perché lui il rigassificatore lo vuole fare ad ogni costo.
Per compensare questa volontà, recentemente ha dichiarato: Dal prossimo Governo mi auguro che ci lasci fare il più grande parco eolico flottante più grande d’Italia e tra i più grandi d’Europa.
Senza aspettare il prossimo Governo, vi sono alcune scelte che possono essere fatte subito, anche da chi non necessariamente condivide completamente le nostre analisi, vale per la Regione – che ricordiamo si è data l'obiettivo del 100% di rinnovabili al 2035 - ma anche per gli amministratori locali, le associazioni economiche e produttive, le aziende, i sindacati, le associazioni sociali, dei consumatori, fino ad arrivare ai singoli cittadini.
Facciamo solo alcuni esempi:
- La Regione nel 2021 ha emanato Linee guida per favorire l’installazione di impianti fotovoltaici sulle aree di cava dove si è conclusa l’attività estrattiva, nelle zone industriali e commerciali, oltre che su discariche non più attive (o sperimentazioni di agrivoltaico) per impianti fino a 20 megawatt;
- Chi sta verificando le possibili applicazioni in ogni territorio, anche tenendo conto che in regione vi sono circa 70 discariche dismesse i cui gestori sono in parte i Comuni e in gran parte multiutility, a partire da quelle maggiori come Herambiente e Iren Ambiente, che potrebbero investire in impianti solari fotovoltaici, termici, di biogas, ecc.?
- L'avvio di Comunità Energetiche Rinnovabili, favorite anche dalla recente Legge regionale, che chiede ai Comuni di individuare “le superfici pubbliche da mettere a disposizione anche di terzi per la realizzazione di impianti...può dare una risposta per la produzione e la riduzione dei costi energetici in particolare rivolte a fasce più deboli della popolazione, che rischiano di vedere costi delle bollette insostenibili.
Certo, queste proposte non risolverebbero completamente la prossima emergenza energetica, ma avrebbero il pregio di andare nella direzione giusta, ed avere, già nel breve periodo, risultati ben maggiori di quanto non darebbe l'insensato progetto del rigassificatore.
Faenza, 9 settembre 2022 L'Altra Faenza
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Hai sempre lottato a testa alta a difesa del lavoro.
Di fronte alla proposta di ridurre il tempo di accensione della lampadine, il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, sorride: «Saremo un paese più romantico». Un sorriso amaro, però, perché i contenuti del «Piano nazionale di contenimento dei consumi di gas naturale» rappresentano, a suo avviso, un grave errore da parte del governo.
Perché?
Questo è il secondo errore dell’esecutivo, che dopo aver fatto shopping di gas in tutto il mondo adesso spinge addirittura i proprietari delle centrali a carbone ad andare al massimo. Si tratta di due errori perché di fronte all’emergenza sono solo due soluzioni tampone che non vengono affiancate alla vera risposta alla dipendenza del nostro Paese dall’estero e dalle fonti fossili, ovvero riuscire a sfruttare più velocemente il potenziale delle energie rinnovabili. Posso comprendere queste misure in una logica d’emergenza, perché se la Russia chiude il gas verso l’Europa qualcosa dobbiamo fare, ma francamente continuiamo a non capire perché – per stare sulla costa dell’Emilia-Romagna – basteranno quattro mesi per autorizzare il rigassificatore galleggiante di Ravenna ma sono 4 anni che l’impianto eolico davanti alla costa romagnola è in attesa dell’autorizzazione. Un intervento su cui anche la Regione Emilia-Romagna s’era scatenata contro, prima che l’azienda rimodulasse il layout dell’impianto. Continuiamo a lavorare sulle fonti fossili molto più di quanto facciamo sulle rinnovabili.
Il «Piano» del governo punta molto sulle misure individuali: ha senso?
Le misure legate ai cittadini ci trovano più che d’accordo: 15 anni fa quando all’interno dell’associazione mi occupavo di energia erano le nostre proposte per uno stile di vita più consapevole. Leggendo il riferimento alle docce più corte o più fredde, ho avuto un déjà-vu. Però nel 2022 siamo in un altro momento storico e oggi dobbiamo decidere se semplicemente vogliamo usare il gas degli altri Paesi in maniera più parsimoniosa, oppure se vogliamo ridurre l’uso del gas, perché il ministero della Transizione ecologica avrebbe dovuto lavorare per tagliare con l’accetta i tempi di autorizzazione degli impianti da fonte rinnovabile, che non è avvenuto. Il governo avrebbe dovuto fare alcune cose negli ultimi dodici mesi, da quando cioè le bollette hanno preso a salire, a causa delle speculazioni dei produttori di gas.
Ha parlato di déjà-vu: arriviamo con 15 anni di ritardo?
Il governo non dovrebbe ricordarsi di incentivare comportamenti virtuosi solo perché Putin minaccia di chiudere un gasdotto: non le contesto, ma sono il minimo sindacale, sarebbe servita un’azione di comunicazione dai primi anni Duemila, non solo adesso. Del resto, però, sappiamo che la riduzione dei consumi rende poco felici i produttori di gas. Se la tecnica prevalente è quella della semplice diversificazione dei fornitori, significa solo lavorare per rendere felici altri signori del gas. In più, l’azione di governo che punta a risparmiare un po’ dipende da misure potenziali e volontarie, con indicazioni poco pressanti su controlli ed eventuali sanzioni. Ci dovremmo mettere in testa che se non tagliamo i consumi in modo strutturale, continuiamo a fare il gioco dei produttori di carbone e di quelli di gas. Le energie rinnovabili hanno un grande difetto: non dobbiamo comprarle da nessuno. Sole e vento sono gratis. Ecco perché il ritardo nella sburocratizzazione degli iter autorizzativi è inaccettabile.
Sulle rinnovabili il documento è evanescente. Che cosa dovrebbero fare i ministeri?
La prima questione strutturale riguarda il potenziamento della Commissione VIA VAS, in termini di mezzi e persone: si stanno cumulando i progetti e la commissione fa fatica a gestire. Invece il ministero della Cultura avrebbe dovuto e dovrebbe aggiornare le linee guida sull’installazione delle rinnovabili, che vale per i centri storici e l’eolico sui crinali. Questo anche per permettere gli impianti eolici e fotovoltaici integrati nel paesaggio, evitando i pareri arbitrari delle Soprintendenze, che nove volte su dieci sono contrarie a qualsiasi progetto. Vanno aggiornate anche le linee guida: nel 2010 non esisteva la tecnologia per l’eolico offshore e nemmeno l’agrivoltaico, che non consuma suolo e permette di coltivare. Il ministero della Mobilità sostenibile invece dovrebbe approvare il piano di gestione degli spazi marittimi. E poi manca un aggiornamento del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima e l’adozione del Piano d’adattamento alla crisi climatica, presentato nel 2018. È passata una legislatura, tre governi e due ministri, ma siamo ancora qui: alla bozza pubblicata da Galletti, nel giugno di quattro anni fa.
Il risultato del plebiscito referendario lascia al Paese la costituzione varata dalla dittatura golpista. La vittoria del fronte del rifiuto ha fermato un inedito processo di cambiamento politico iniziato nel 2018. Le prossime mosse del governo e del parlamento faranno capire se siamo di fronte a una nuova normalizzazione
Il risultato del plebiscito cileno ha riportato il Paese all’eredità della dittatura golpista dei militari guidati dal generale Pinochet. La vittoria del fronte del Rechazo (rifiuto) ha fermato il processo di cambiamento politico scoppiato con le rivolte studentesche del 2018. Si è così interrotto il processo di cambiamento spinto dal basso, dalla società civile contro l’establishment e i partiti tradizionali, che ha visto il protagonismo degli studenti, dei giovani, delle donne e dei sindacati, e la sua saldatura con le rivendicazioni delle popolazioni indigene.
L’estallido, l’esplosione della protesta popolare ha obbligato la destra e il governo di Piñera ad accettare il processo costituente, per poi dimettersi e consentire la vittoria della coalizione che ha saputo raccogliere il voto dei movimenti sociali, studenteschi, ambientalisti, dei diritti civili, che ha portato il giovane Gabriel Boric (ex-leader studentesco, militante comunista) a essere il nuovo presidente cileno. Con il voto di ieri il Cile deve invece ripartire dalla costituzione emanata dalla dittatura militare golpista del generale Pinochet nel 1980.
Circa dodici milioni di cileni hanno espresso il proprio voto rifiutando o approvando il nuovo testo costituzionale redatto dall’Assemblea costituente: il 72% lo ha rifiutato (rechazo), il 38% lo ha approvato (apruebo). Un risultato che spinge a chiedersi come sia stato possibile che nel plebiscito dell’ottobre del 2020 il 78% dei cileni avesse espresso un voto favorevole alla modifica della costituzione pinochetista mentre. a distanza di due anni, poco più di un terzo dei votanti ha confermato questa volontà, negando di fatto il lavoro dell’assemblea costituente e l'inedito protagonismo delle forze sociali.
Dalla stesura finale del testo approvato e oggetto del plebiscito, in effetti, le prime reazioni misero subito in evidenza il rischio di una forte divisione nel Paese, e non la possibilità di un nuovo patto di convivenza nazionale. Le proposte incluse nella proposta di nuova costituzione prevedevano, tra l'altro, il pieno riconoscimento delle rivendicazioni dei popoli indigeni. Questo avrebbe trasformato il Cile in una repubblica plurinazionale, come già avvenuto in Bolivia, dove i popoli indigeni sono quasi il 50% della popolazione. In Cile rappresentano poco più del 10%, ma nel Paese è ancora aperta la ferita tra il popolo mapuche e la nazione cilena. Un altro elemento rifiutato dai poteri consolidati è il decentramento o regionalizzazione dei poteri che prevedeva la sostituzione del Senato con una Camera delle regioni. In Cile, come in molti paesi latinoamericani, tutto si decide nella capitale e le regioni sono senza poteri, o con deleghe ma senza risorse.
La campagna mediatica contro il nuovo testo costituzionale ha usato ogni mezzo, comprese disinformazione e falsità, per spaventare l’elettorato. Ma i cileni sono anche andati al voto con la consapevolezza che, nel caso avesse vinto il rifiuto, l'accordo stretto tra governo e opposizione avrebbe permesso ai partiti presenti in parlamento di riprendersi il mandato politico per riformare la costituzione.
Così è avvenuto e così gli eletti si sono ripresi la scena, sperando che la piazza e la protesta popolare, e il governo di sinistra prodotto della precedente stagione, accettino la sconfitta. I prossimi giorni e le prossime mosse dell'esecutivo e del parlamento ci faranno capire se siamo di fronte a una nuova normalizzazione o se il Cile riprenderà a essere un laboratorio sociale e di novità degli ultimi anni. Nel frattempo, si riparte dall’eredità della dittatura.
Sergio Bassoli, Area politiche europee e internazionali Cgil