Per contrastare la crescente povertà bisogna migliorare la misura di sostegno per famiglie e lavoratori. Parola della sociologa Chiara Saraceno
Foto: Stefano De Luigi/Sintesi
l reddito di cittadinanza non deve essere abolito ma migliorato. Lo sostiene la Commissione europea, ribadendo che va rafforzato perché “è necessario un sostegno più efficace per combattere la povertà e per promuovere l’occupazione“, con un’inflazione già alle stelle e le bollette in crescita vertiginosa. Lo dicono Caritas, Cei, Forum Disuguaglianze Diversità e Alleanza contro la povertà, secondo cui bisogna fortificare le politiche sociali e cambiare i requisiti di accesso, perché troppi poveri rimangono esclusi. Lo afferma il comitato scientifico per la valutazione dell’RdC messo in piedi dall’ex Ministero del Lavoro, e poi ancora esponenti del mondo cattolico, della sinistra, della società civile.
La misura introdotta nel 2019 dal primo governo Conte, guidato dal Movimento 5 Stelle e da Lega per dare un sostegno al reddito delle famiglie e dei lavoratori, nei primi nove mesi del 2022 è stata percepita da 1.638.628 nuclei (almeno una mensilità di reddito o pensione di cittadinanza), con più di 3 milioni e mezzo di persone coinvolte e un importo medio di 551,51 euro (dati Osservatorio Inps).
Secondo uno studio dell’Inapp, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, il 45,8 per cento dei percettori sono lavoratori poveri. Occupati ma costretti a chiedere un’integrazione salariale allo Stato per le retribuzioni “da fame”, anche a causa della cronicizzazione dei contratti a tempo determinato e dell’utilizzo massivo del part-time involontario.
Difficile quindi pensare che sia davvero un “metadone” o una “paghetta di Stato”, come l’ha definita in campagna elettorale la candidata premier Giorgia Meloni, che con i suoi Fratelli d’Italia e gli altri partiti della coalizione delle destre ha promesso prima la cancellazione e poi il sostanziale smantellamento di uno strumento già da tempo nel mirino anche di parte del centrosinistra, confermando la sua posizione di contrarietà nel discorso per la fiducia alla Camera da presidente del Consiglio.
Certo è che il reddito di cittadinanza sarà sotto la lente di ingrandimento del nuovo Parlamento. “Le posizioni si sono un po’ ammorbidite, per via dei disastri che si stanno verificando, dall’aumento delle bollette all’inflazione – afferma Chiara Saraceno, sociologa e docente universitaria -. Da aboliamo il metadone di Stato siamo passati alla versione: lo diamo solo a chi non è in grado di lavorare, ai fragili, a chi ha figli minori a carico. In realtà non si sa bene a cosa stia pensando la maggioranza di governo, forse a una borsa lavoro, ma da attribuire a chi? Mamma, papà, figli minorenni e maggiorenni?”.
Raccontato come la causa di ogni male della nostra economia, perché nella narrazione politica e giornalistica che lo ha accompagnato ha prodotto solo “fannulloni” e “disoccupati da divano”, il reddito di cittadinanza ha salvato dal baratro della povertà più di un milione di persone. Poche, rispetto alla realtà del nostro Paese.
Secondo l’ultimo rapporto Caritas in questi tre anni e mezzo ha raggiunto poco meno della metà dei poveri assoluti, 5.571.000 persone (1 milione 960 mila famiglie) che rappresentano il 9,4 per cento della popolazione residente. Un dato che è cresciuto nell’ultimo anno, con un’incidenza che si conferma più alta al Sud, con il 10 per cento, ma che scende significativamente nel Nord-Ovest (al 6,7 dal 7,9 per cento). Tra il 2020 e il 2021 la povertà è aumentata più della media nelle famiglie con almeno quattro componenti, con la persona di riferimento di età tra i 35 e i 55 anni, in quelle degli stranieri e con almeno un reddito da lavoro.
Foto: Michele Lisi/Sintesi
Allargare la platea
“Quello che sappiamo è che non va cancellato, anzi, va esteso, modificato allargando la platea. Se venisse abolito avremmo molti più poveri di quelli che abbiamo adesso e oltretutto l’intensità della povertà sarebbe maggiore – riprende Saraceno -. L’Istat ci dice infatti che il reddito di cittadinanza non ha fatto superare la soglia di povertà ma ne ha ridotto l’intensità. Questo vale per percettori che pur essendo occupati possono finalmente portare i figli dal dentista, che si possono permettere beni e servizi che dovrebbero essere basic e accessibili a tutti. Mentre il dentista da noi è un lusso perché non fa parte del servizio sanitario nazionale”.
La professoressa Saraceno è stata alla guida del comitato scientifico per la valutazione del RdC nominato dal ministro del Lavoro Orlando del governo Draghi, che alla fine del lavoro ha presentato una serie di proposte di modifica per migliorarlo e renderlo più efficace.
“Su quello che andrebbe fatto, il Comitato, la Caritas, l’Alleanza contro la povertà, siamo tutti più o meno d’accordo – dice -. Contrariamente a quello che pensa l’attuale governo, bisogna allargarlo e non restringerlo. Innanzitutto occorre togliere la discriminazione nei confronti degli stranieri per i quali oggi sono necessari 10 anni di residenza, di cui gli ultimi 2 continuativi. Un simile criterio fa di noi il Paese in Europa con i requisiti più stringenti e non è rispettoso delle direttive in materia di accesso alle prestazioni assistenziali, poste a tutela anche degli italiani all’estero. Per questo, bisognerebbe portarlo a cinque anni”.
Tra le altre proposte, equiparare i minori agli adulti nelle scale di equivalenza, differenziare il contributo per l’affitto, non penalizzare chi lavora, ridefinire i criteri di lavoro congruo per stimolare l’accesso all’occupazione, promuovere l’assunzione dei percettori da parte delle aziende e rafforzare i patti per l’inclusione e i progetti di utilità collettiva.
“D’altra parte da noi c’è un problema di politiche attive del lavoro che non ci sono e sul cui fronte chissà cosa succederà – aggiunge Saraceno -. Non basta affidarsi al meccanismo della domanda-offerta, le politiche attive sono una cosa seria, hanno bisogno di attenzione, formazione, consulenza, motivazione e risorse, e anche sul piano dei servizi di inclusione bisogna darsi da fare molto di più. Penso a quanti sono molto lontani dal mercato del lavoro, che hanno bisogno di essere affiancati e qualificati, ai neet (giovani che non studiano e non lavorano, ndr). Non è vero che i percettori rifiutano le offerte, nessuno lo ha mai dimostrato, a parte quegli imprenditori che lo dichiarano in interviste prive di qualsiasi evidenza empirica”.
Da qui la necessità condivisa da più parti di rafforzare la collaborazione e il coordinamento tra i centri per l’impiego e i servizi sociali territoriali tramite la definizione di protocolli di lavoro congiunto e di promuovere l’utilizzo integrato delle banche dati degli enti coinvolti.
“Aggiungo che a fine settembre la Commissione europea ha inviato agli Stati membri una proposta di raccomandazione – conclude Saraceno - che incoraggia i Paesi ad adottare un reddito minimo adeguato a garantire una vita dignitosa, misure di inclusione sociale efficaci ed efficienti, laddove le persone siano in grado di lavorare, politiche attive per assicurare un lavoro buono. Tra i punti della proposta, migliorare l’adeguatezza, usare una metodologia trasparente e solida, migliorare la copertura e il ricorso pur salvaguardando gli incentivi al lavoro. Insomma, tutto l’opposto rispetto a quello che vorrebbero fare i partiti al governo”.
Per la Caritas quasi un decimo della popolazione è in povertà assoluta e un quarto a forte rischio. Pallone, Cgil: “Servono uno stato sociale universale e strumenti di sostegno al reddito adeguati”
Foto: Indonesia, la mano di un lavoratore in un cantiere navale. Foto di AdamCohn da flickr
In prevalenza vivono al Sud, ma si trovano anche nelle regioni settentrionali. Vivono in case in affitto, hanno bassi titoli di studio, in tanti e tante hanno salari bassi. Molti, troppi sono bambini e bambine. Sono i poveri assoluti del nostro Paese. E sono aumentati nonostante il Reddito di cittadinanza abbia evitato che un altro milione di cittadini e cittadine sprofondasse nella miseria.
È il racconto di un’Italia ammalata di diseguaglianze, che si ereditano e approfondiscono. E il merito o la mancanza di esso non c’entra proprio nulla. C’entrano le condizioni economiche e sociali di una società che tardi si è assunta la responsabilità di “entrare in Europa” introducendo strumenti di contrasto a un fenomeno che ormai coinvolge un decimo della popolazione, e che oggi si vorrebbero cancellare. Invece da almeno un ventennio è stata adottata una strategia di tagli allo stato sociale, che dovrebbe essere lo strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta dal Paese. La fotografia l’ha scattata la Caritas che in occasione della giornata internazionale di lotta alla povertà, lo scorso 17 ottobre, ha diffuso il suo ventunesimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale.
I numeri sono sconcertanti, dice il Rapporto: “Le famiglie in povertà assoluta risultano un milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione residente). L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). In riferimento all’età, i livelli di povertà continuano a essere inversamente proporzionali all’età: la percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori (quasi 1,4 milioni bambini e i ragazzi poveri), all’11,4% fra i giovani di 18-34 anni, all’11,1% per la classe 35-64 anni e al 5,3% per gli over 65”.
Tra le diseguaglianze che si approfondiscono, poi, ci sono anche quelle territoriali: “L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). Non bastasse, ai poveri assoluti vanno aggiunti 15 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale. Insomma, un quarto dell’intera popolazione in condizione di grande fragilità. Lo dicevamo: sono soprattutto minori, anziani e migranti, servono misure forti e strutturali.
Tante sono le facce della povertà. Ne esistono due, tra quelle individuate dalla Caritas, che in questi giorni fanno riflettere. “Il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica, per chi proviene da un contesto familiare di fragilità è di fatto molto alto. Il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza si palesa su vari fronti oltre a quello economico. Prima di tutto nell’istruzione. Le persone che vivono oggi in uno stato di povertà, nate tra il 1966 e il 1986, provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare). E sono proprio i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in taluni casi alla sola licenza elementare; al contrario tra i figli di persone con un titolo di laurea, oltre la metà arriva a un diploma di scuola media superiore o alla stessa laurea”.
Insomma, per chi è meno istruito è più facile cadere in povertà. Contemporaneamente bimbi e ragazzi che nascono da genitori con bassa scolarizzazione sono “destinati” a un percorso d'istruzione accidentato e spesso anticipatamente interrotto. Altro che merito, la Costituzione dice tutt’altro, basta rileggere l’articolo 3. Per Giordana Pallone coordinatrice Area Stato sociale e diritti della Cgil nazionale, per spezzare il circolo vizioso dell'ereditarietà della condizione "è necessario uno stato sociale forte pubblico e universale, capace di prendere in carico chi ha una situazione di fragilità e capace di rimuovere all’origine le cause che producono esclusione sociale. L’unico modo per farlo è rafforzare le infrastrutture sociali in ogni territorio, realizzare una fitta rete di servizi pubblici capaci di garantire interventi e prestazioni a tutta la popolazione”.
Ma ciò che più preoccupa gli estensori del rapporto è l’ereditarietà della povertà. I figli di genitori a bassa scolarizzazione “ereditano” l’insuccesso scolastico che determina povertà. I figli di lavoratori a bassa qualifica e basso salario, a loro volta, ereditano quella collocazione nel mondo del lavoro: “Più del 70% dei padri dei nostri assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione. Per le madri è invece elevatissima l’incidenza delle casalinghe (il 63,8%), mentre tra le occupate prevalgono le basse qualifiche. Il raffronto tra le due generazioni mostra che circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e che il 42,8% ha invece sperimentato una mobilità discendente (soprattutto tra coloro che hanno un basso titolo di studio)".
Cosa fare lo si legge nei numeri e nei determinanti della povertà. Istruzione, lavoro dignitoso e stabile, strategie di inclusione sociale a cominciare dai servizi per l’infanzia. Ma occorre partire dal sostegno al reddito migliorando lo strumento che esiste, a cominciare dal renderlo esigibile alle famiglie più numerose e agli stranieri. Aggiunge Pallone “Sono preoccupanti le dichiarazioni programmatiche della presidente del Consiglio Giorgia Meloni in merito alle intenzioni di mettere mano al Reddito di cittadinanza. Oltre a essere preoccupanti denotano anche una scarsa conoscenza sia della misura che della povertà in Italia. Dire che il Paese continuerà a sostenere chi è in difficoltà e non è in condizione di lavorare, mentre chi è in condizione di lavorare deve andarci e non stare sul divano, significa non conoscere i dati dei percettori della misura e non conoscere né le condizioni di chi vive in povertà, che ha bisogni complessi e deve ricevere servizi e politiche adeguate, né del sistema produttivo".
"L’ultimo rapporto di Anpal - prosegue - dice che a giugno delle oltre due milioni e mezzo di persone che percepiscono il RdC solo 900mila sono avviabili ai centri per l’impiego in condizione di essere occupate. Ed è bene ricordare che quasi il 20% di questi è già occupato, quindi lavora ma è povero. La questione non è introdurre misure vessatorie per chi percepisce il sostegno al reddito e non lavora. Occorrono possibilità di lavoro dignitoso, che siano attivati percorsi di formazione e di inclusione lavorativa anche per questa popolazione, che per i due terzi è disoccupata da più di tre anni e per altri due terzi ha un livello di istruzione fermo alla scuola media inferiore. Insomma, la retorica della Meloni non si fonda su nessun dato disponibile”.
MEMORANDUM/MIGRANTI. Giorgia Meloni alla Camera sul tema immigrazione si presenta con ricette vecchie e già logore: una rivisitazione del fantomatico blocco navale e gli hotspot fuori confine, ovvero esternalizzazione dei controlli […]
Centro di detenzione in Libia - Medici senza frontiere
Giorgia Meloni alla Camera sul tema immigrazione si presenta con ricette vecchie e già logore: una rivisitazione del fantomatico blocco navale e gli hotspot fuori confine, ovvero esternalizzazione dei controlli e delle frontiere, per impedire di fatto ogni via d’accesso all’Europa.
Proposte sbagliate e fallimentari, che hanno già fatto la fortuna di trafficanti e milizie che sulle vite umane speculano e costruiscono imperi. Proposte che hanno già prodotto crimini contro l’umanità, stupri, violenze, torture e morte.
Perché è questo ciò che accade in Libia da anni, ogni giorno, con il sostegno, economico e politico, del nostro governo e dell’UE. In particolare dalla firma del Memorandum Italia-Libia, un simbolo di queste esternalizzazioni. Un accordo criminogeno nato il 2 febbraio 2017 su iniziativa dell’allora Ministro Minniti e sostenuto poi da tutte le successive maggioranze. Da allora, più di 100 milioni di euro sono arrivati nelle tasche della cosiddetta guardia costiera libica in formazione ed equipaggiamenti. Un miliardo da Italia e Ue per le diverse missioni in Libia e nel Mediterraneo, spesso usati per contrastare le Ong, anziché per salvare vite umane.
A parlare di crimini contro l’umanità e di responsabilità dei governi è già stato più volte il procuratore capo della Corte Internazionale dell’Aia Karim Khan, molto ascoltato se si tratta di crimini commessi dai russi in Ucraina, poco o per nulla quando si parla di Libia.
Lunedì scorso il nuovo Rappresentante Speciale per la Libia del Segretario Generale dell’Onu, Abdoulaye Bathily, ricordava davanti al Consiglio di Sicurezza che “le violazioni contro migranti e richiedenti asilo continuano nell’impunità. La detenzione arbitraria continua come pratica comune.” Bathily ha denunciato il ritrovamento di 11 corpi di migranti carbonizzati all’indomani degli scontri tra bande rivali di trafficanti di esseri umani a Sabratha, invitando le autorità libiche ad “adottare misure immediate e credibili per affrontare la terribile situazione dei migranti e rifugiati e smantellare la relativa tratta e le reti criminali”.
Entro il 2 novembre il governo potrebbe intervenire per modificare il Memorandum, evitando che il patto si rinnovi automaticamente il prossimo 2 Febbraio. Nonostante dalle parole di Giorgia Meloni l’esito appaia scontato, più di 40 organizzazioni della società civile italiana hanno deciso di scendere in piazza oggi a Roma – piazza dell’Esquilino alle 17,30 – , chiedendo di fermare questa vergogna. #NonSonoDAccordo lo slogan: se continuerete a finanziare violenze, morte e respingimenti illegittimi, non lo farete in nome nostro.
Rinnovando il Memorandum, scommettendo sulle esternalizzazioni, così come avvenuto solo qualche mese fa quando è stata rinnovata dal Parlamento, con pochi voti contrari, la missione in Libia e il relativo sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica, si sceglie di alimentare i crimini più efferati.
Le armi, gli strumenti e le risorse donate alle autorità libiche vanno direttamente alle milizie che si contendono il controllo del territorio, dei porti e dei centri di detenzione. Un sostegno che alimenta la violenza ed è un ostacolo al processo di pace.
Così, come in un macabro gioco dell’oca, da anni migliaia di persone, torturate e violentate, partono dai centri di detenzione, vengono imbarcate per attraversare il Mediterraneo, ricatturate in mare, con l’aiuto dell’Italia e di Frontex, dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate nei centri di detenzione a subire altre violenze e ricatti. Oltre 100mila dalla firma del Memorandum a oggi.
Un modo per aggirare il divieto di respingimento previsto dalla Convenzione di Ginevra, che i governi oramai mal sopportano ma sono costrette a rispettare, appaltando alle milizie libiche il lavoro sporco. Un circolo infernale che spesso si interrompe, in mare o in terra, con la morte: quasi 2 mila solo quest’anno nel Mediterraneo. Morti di frontiera che si potevano evitare consentendo alle persone di viaggiare in sicurezza e legalità, invece di rafforzare i controlli o evocando fantomatici blocchi navali.
Scendiamo in piazza contro chi intende amplificare la spirale di violenza e di morte, impedendo alle persone di fuggire da un luogo che tutti sanno non essere sicuro.
Ma speriamo anche di assistere, e forse ci illudiamo, ad un’inversione di marcia delle forze democratiche e di sinistra che, salvo poche eccezioni, in questi anni, in Italia come in UE, nel migliore dei casi si sono distinte per un assordante silenzio. Nel peggiore elaborando la dottrina Minniti, attaccando le Ong, firmando il Memorandum.
Faenza 25 10 2022
Dalle prime recenti uscite del Sindaco Giorgio Sagrini su Monte Tondo, ci eravamo posti la domanda retorica se “il Sindaco volesse il non riconoscimento della vena del gesso come patrimonio dell'Unesco”, oggi dopo le ultime dichiarazioni e la convocazione del Consiglio Comunale di Casola per il 25 ottobre, con l'aggiunta di un punto: ORDINE DEL GIORNO PER L'ESCLUSIONE DELL’INTERA AREA DI MONTE TONDO DI PROPRIETÀ DELLA SOCIETÀ SAINT-GOBAIN DALLA CANDIDATURA A PATRIMONIO UNESCO DELLA VENA DEL GESSO ROMAGNOLA, se ne può avere la certezza.
La cosa è particolarmente grave e dovrebbe preoccupare non solo le associazioni ambientaliste ma anche tutti gli Enti Locali che hanno sottoscritto il PROTOCOLLO D'INTESA PER IL SUPPORTO ALLA CANDIDATURA DEI FENOMENI CARSICI GESSOSI DELL'EMILIA-ROMAGNA ALLA WORLD HERITAGE LIST DELL'UNESCO", del 2021; per questo chiediamo in particolare alla Provincia di Ravenna, all'Unione della Romagna Faentina e ai diversi Comuni coinvolti, oltre che alla Regione Emilia Romagna, di confermare gli orientamenti presi per sostenere la candidatura Unesco nella formulazione originaria.
Per quanto ci riguarda, come Legambiente, ribadiamo la necessità della rapida definizione del PIAE, prendendo a riferimento lo scenario B dello studio regionale, ossia l'estrazione per un periodo, comunque significativo - superiore ai 10 anni - solo dentro l'area già precedentemente individuata.
In quest'ambito, le diverse valutazioni, da parte dell'azienda e degli studi commissionati dalla Regione, sulle quantità di materiale estraibile in questo perimetro potranno essere opportunamente verificate, anche tenendo conto delle modalità di scavo, di uso di tutto il materiale, di sistemazione dei gradoni, oltre che di ripristino delle parti dismesse del sito, dando quindi certezze alle giuste preoccupazioni dei lavoratori e dei sindacati.
Perché questo possa avvenire tenendo insieme ambiente, lavoro e transizione ecologica è necessario che la Saint-Gobain si impegni:
- al massimo utilizzo del cartongesso dismesso all’interno dello stabilimento di Borgo Rivola nell'ambito di progetti sull'economia circolare, la raccolta differenziata nei cantieri edili è già in atto in diverse regioni; auspichiamo che si lavori al fine di massimizzare il recupero del gesso, e perché Borgo Riva diventi uno stabilimento di eccellenza per la produzione di panelli con materia prima seconda;
- Diversificare le produzioni, avviando la sperimentazione per riconvertire lo stabilimento nell’arco di questi dieci anni alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie e pratiche per un’edilizia sostenibile, mantenendo stabile l’occupazione territoriale anche dopo la cessazione delle attività estrattive.
Circolo Legambiente Lamone Faenza
Landini: "Quella di oggi con il presidente dell'Associazione nazionale magistrati è una firma importante”. Santalucia: "Anm e Cgil unite dai valori di legalità e giustizia"
E' stato sottoscritto oggi, 24 ottobre, presso il Palazzo di giustizia di Roma, l’accordo di collaborazione tra Cgil e l’Associazione nazionale magistrati. I firmatari della convenzione sono il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia.
Con la sottoscrizione di tale accordo, si legge nel testo, “la Cgil metterà a disposizione degli iscritti all'Associazione nazionale magistrati i servizi di assistenza e consulenza nelle materie di sicurezza sociale, tutela dei danni alla salute, previdenza, assistenza fiscale, tutela al consumatore, assistenza agli inquilini e ai proprietari, attraverso il patronato Inca, i Caaf, Federconsumatori, Sunia e Apu”. “L’Anm - prosegue l’intesa - metterà a disposizione delle iniziative e delle attività formative della Cgil le competenze dei propri iscritti concordando di volta in volta la partecipazione della persona più adeguata”.
Per il segretario generale della Cgil: "Quella di oggi con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati è una firma importante. È evidente come da una parte ci sia la volontà di mettere a disposizione dell'associazione magistrati le nostre competenze, anche di natura tecnica attraverso i nostri servizi, dall'altra l’intenzione di mettere al centro i temi della giustizia e della legalità per la costruzione di iniziative seminariali e momenti di approfondimento. Giustizia e legalità sono da sempre per la Cgil un punto centrale della sua azione quotidiana”.
“Siamo soddisfatti - ha precisato il presidente dell'Anm - di inaugurare questa collaborazione con la Cgil, con cui condividiamo l'impegno per la giustizia, la legalità, la sicurezza sociale, la tutela dei lavoratori e della salute. Valori al centro della nostra azione quotidiana”.
IL CASO. "Ministero dell'Istruzione e del merito". Il governo Meloni rilancia la battaglia sulla scuola degli ideologi neoliberali. Maurizio Landini (Cgil): «Il merito rischia di essere uno schiaffo a chi parte da una situazione di svantaggio». Carlo Calenda (Azione) difende le ragioni dell'esecutivo: «Il merito è l’antidoto al classismo». Il programma di Fratelli d'Italia prevede il potenziamento delle scuole paritarie e i voucher per le famiglie
«Aver coniugato Istruzione e merito è un messaggio politico chiaro» ha detto Giuseppe Valditara, neo-ministro «dell’Istruzione e del merito», già relatore della «riforma» Gelmini dell’università, oggi «consigliere politico» di Matteo Salvini (Lega). Il messaggio è talmente chiaro da avere messo ordine nel campo politico dominato dall’egemonia neoliberale: l’estrema destra al governo si trova d’accordo con un’altra parte del panorama parlamentare al punto che ieri è stato Carlo Calenda, (Azione) difendere le ragioni della maggioranza contro Maurizio Landini, segretario della Cgil che ha sollevato gli argomenti classici della critica della meritocrazia ispirata al principio dell’uguaglianza.
«TROVO sia sbagliato – ha detto Landini – quando parliamo di istruzione in un paese dove c’è questo livello di diseguaglianze, introdurre la parola merito. Rischia di essere uno schiaffo in faccia per chi può avere tanti meriti ma parte da una situazione di diseguaglianza». Concludendo un’iniziativa della Cgil su salute e Welfare ieri Landini ha evocato anche l’obiettivo di garantire giustizia sociale e universalità dei diritti: «Bisogna – ha aggiunto – mettere le persone nella condizione di dare il meglio di sé e quindi di avere le stesse possibilità».
A QUESTA POSIZIONE, ispirata a un’idea di uguaglianza, Calenda ha in sostanza difeso le ragioni di un «ministero dell’istruzione e del merito» e ha ribadito la posizione neoliberale diffusa nel nuovo parlamento. Il «merito» valorizzerebbe le «competenze» e i «talenti» degli individui contro una società dove l’uguaglianza cancellerebbe le differenze: «Il merito è l’unico antidoto a una società classista o a una società appiattita sull’ignoranza. Come realizzare il merito in modo giusto è un dibattito difficile e interessante, rifiutarne il principio è assurdo e antistorico. Questa presa di posizione di Landini è incredibile». «In nessun paese del mondo il segretario del principale sindacato si dichiarerebbe contro il merito come principio. Questa posizione ideologica spiega perché la Cgil è stata spesso negli ultimi anni un freno alla modernizzazione del paese. Spero che Cisl e Uil prendano le distanze».
CONVOCATA attorno al tavolo del dibattito ieri la Cisl non ha fatto mancare la sua voce. Ma nelle parole del segretario Luigi Sbarra è emerso un terzo aspetto della contesa: l’articolo 34 della Costituzione italiana dove si afferma che «la scuola è aperta a tutti. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». «Sono d’accordo con il ministero del “merito” ma solo se coerente con questa norma» ha aggiunto Sbarra. In fondo è la stessa posizione di Landini quando dice: «Mettere le persone in condizione di dare il meglio di sé vuol dire mettere le persone in condizione di avere le stesse possibilità».
LA «DIFFICOLTÀ» del dibattito, almeno quello ispirato alla Costituzione, e non alle teorie economiche ispirate al «capitale umano» e adattate anche alla pedagogia neoliberale, sta nel mantenere un equilibrio tra le «capacità» e i «meriti». Tale equilibrio non dipende solo dalla volontà degli individui, dalla competizione e dalla valutazione come ritengono gli ideologi della «meritocrazia», ma dalla lotta per la giustizia sociale e dall’uguaglianza in tutte le sfere della società in cui vivono anche gli studenti. Senza una liberazione dalle diseguaglianze di classe non è possibile tutelare le differenze e assegnare a ciascuna di essere uguale valore, sostiene ad esempio Luigi Ferrajoli ne «Il manifesto per l’uguaglianza».
CHI INVECE considera il merito come l’«antidoto» al «classismo» cade nell’equivoco già denunciato dal sociologo inglese Michael Young autore del famoso «L’avvento della meritocrazia»: il «merito» non premia i meritevoli indipendentemente dalle loro condizioni di partenza ma include i «non meritevoli» in una gerarchia dominata dal «club dello sperma». La società «meritocratica» è una delirante aristocrazia. Un «classismo» al cubo, insomma.
QUELLA DEL «MERITO» nella scuola, e nell’università, è una battaglia ideologica violentissima condotta dalle classi dominanti di destra e di sinistra dall’origine della contro-riforma neoliberale. Questo dato emerge in un’analisi del gruppo «Manifesto dei 500». Già dal primo ciclo di «riforme» (Berlinguer-Zecchino 1997-2000) era questa la prospettiva. Fu allora che fu teorizzata la «concorrenza tra le scuole» meritevoli o «l’ingresso dei privati». Poi vennero le leggi Moratti, Gelmini e «Buona scuola» di Renzi. «Dietro al “merito” si nasconde l’attacco alla libertà d’insegnamento e il tentativo di far esplodere l’unità della categoria dei docenti, quindi il contratto nazionale» sostengono.
CON IL GOVERNO MELONI ciò porterà al «potenziamento delle scuole paritarie, voucher per le famiglie da poter spendere a scelta nelle statali o nelle paritarie, riduzione di un anno della scuola superiore, apertura ai privati per la scuola statale». Sono i punti del programma di Fratelli d’Italia, condivisi anche da Lega e Forza Italia. Questo è il «messaggio chiaro» di Valditara.