La legge di bilancio aumenta di 800 milioni di euro le spese militari. I numeri dell'Osservatorio Mil€x
Oltre 800 milioni di aumento delle spese militari è la stima preliminare, effettuata dall’Osservatorio Mil€x a fronte delle tabelle presentate dal Governo con la nuova legge di bilancio. Il ministro della Difesa del governo Meloni, Guido Crosetto, ce lo aveva già detto che tali spese sarebbero state incrementate sino ad arrivare al 2% del pil, confermando la politica intrapresa dal precedente esecutivo, ma vedere le cifre della legge di Bilancio ha un suo impatto, soprattutto a fronte dei tagli invece disposti per settori cruciali quali scuola, sanità, carceri e pensioni.
I dati dell’Osservatorio Mil€x sulle spese militari italiane rivelano che si passerà dai 25,7 miliardi del 2022 ai 26,5 miliardi per il prossimo anno. In un comunicato viene spiegato che a fare da traino è il bilancio ordinario della Difesa a causa dei maggiori costi del personale di Esercito, Marina e Aeronautica e delle maggiori risorse dirette destinate all’acquisto di nuovi armamenti. Va sottolineato che, se una parte consiste in fondi previsti “a legislazione vigente” (stabiliti quindi da governi precedenti), la spesa di 700 milioni circa viene da decisioni direttamente ascrivibili alla manovra di bilancio del governo Meloni.
Rilevanti sono anche i costi per le missioni militari all’estero: “nel 2023 la dotazione sarà di oltre 1,5 miliardi di euro (in crescita di 150 milioni rispetto all’anno precedente) di cui il 90% (cioè quasi 1,4 miliardi) possono essere ascritti a funzioni militari dirette”. Alti i livelli, anche se senza particolari variazioni rispetto alle precedenti leggi di Bilancio, per gli investimenti in nuovi armamenti, confermando un budget annuale complessivo di 8 miliardi di euro destinato al riarmo nazionale.
Da precisare che i dati sopra esposti non comprendono le spese per la proroga fino al 31 dicembre 2023 del ‘decreto Nato’ per l’invio di armi all’Ucraina.
A preoccupare la Cgil sono le poste che riguardano la spesa per la dotazione di armamenti: “Si tratta di un piano di rafforzamento – sostiene Giuseppe Massafra, segretario nazionale del sindacato di Corso d’Italia – che non va quindi nel senso della riduzione delle politiche offensive e di difesa da noi auspicato e non ci fa stare tranquilli rispetto alla riduzione del carattere conflittuale di quella parte d’Europa al momento interessata dalla guerra in Ucraina”.
Discorso diverso, invece, per la posta dell’incremento di spesa per la dotazione e il miglioramento delle infrastrutture del settore e, soprattutto, del personale. Massafra spiega che si tratta “di una spesa utile se collegata all’effettivo miglioramento delle condizioni lavoro dei militari ed è quindi necessario capire se è una previsione legata agli aumenti contrattuali”. “Noi dovremo monitorare l’utilizzo del denaro in fase di contrattazione – conclude -, alla luce di una debolezza della contrattazione stessa nel settore e di uno scarso riconoscimento del valore sindacale”.
La legge di bilancio non è ancora stata approvata dalle Camere, quindi è ancora passibile di modifiche e sarà solamente dopo l’ok definitivo che l’Osservatorio Mil€x pubblicherà un report più approfondito sulle spese militari italiane 2023 con la stima del cosiddetto “bilancio integrato in chiave Nato” e quindi del suo percentuale sul prodotto interno lordo nazionale.
Presentato il Rapporto globale dell'Oil. In un focus sul nostro Paese dati drammatici: i salari reali hanno perso il 12%, nessuno così male
L’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil) ha scelto l’Italia, Roma, per presentare il suo Rapporto mondiale sui salari 2022-2023. È stata la prima volta, lo scorso 2 dicembre, che l’agenzia Onu ha lanciato un proprio rapporto mondiale in Italia. Potrebbe sembrare una buona notizia ma purtroppo non lo è. L’analisi dell’Oil illustra un’emergenza salariale globale: gli effetti post-Covid e l’esplosione inflazionistica degli ultimi mesi stanno aggredendo i redditi da lavoro dovunque nel mondo. Ma in Italia sembrano emergere segnali se possibile ancora più allarmanti. Segnali che nel corso dell’incontro romano Gianni Rosas, direttore dell’Ufficio Oil per l’Italia e San Marino, e Giulia De Lazzari, esperta di politiche salariali del dipartimento Oil sulle condizioni di lavoro e l’uguaglianza, hanno distillato in un focus specifico.
In estrema sintesi, quello che il Rapporto segnala sull’Italia è questo: una tendenza all’erosione di lungo periodo dei salari reali, l’impatto prima della pandemia e adesso dell’inflazione sono le tre cause che spingono il nostro Paese in fondo a ogni immaginabile classifica, globale o europea, dove si rendiconti lo stato di salute e la capacità di acquisto dei redditi da lavoro.
L’Oil ricorda che nella prima metà del 2022, “per la prima volta in questo secolo”, i salari reali sono diminuiti su scala mondiale (-0,9%). Ma in Italia l’impennata inflazionistica li ha erosi con una riduzione di quasi 6 punti percentuali nel 2022, ossia più del doppio rispetto alla media Ue. “Questo ‘effetto inflazione’ segue un periodo di crescita modesta di 0,1 punti percentuali delle retribuzioni mensili nel periodo 2020–2021 (+1,7 punti per la media dei paesi Ue) a causa della pandemia”, si legge nel Rapporto.
Esaminando un arco di tempo più lungo (2008-2022), i ricercatori dell’Oil rilevano che in sole tre economie avanzate del G20 (Italia, Giappone e Regno Unito) “i salari reali hanno registrato livelli inferiori nel 2022 rispetto al 2008”. L’Italia, però, “registra la decrescita maggiore, pari a 12 punti percentuali”, un crollo che ha intaccato “in modo sostanziale il potere d’acquisto delle famiglie negli ultimi 15 anni”.
Eppure l'analisi dell'evoluzione degli indici dei salari reali durante il periodo 2008-2022 mostra una crescita dei salari nella maggior parte dei paesi dell'Ue. Il Rapporto evidenzia che l'incremento maggiore si è registrato nell'Europa centrale. Durante il periodo di riferimento, i salari sono aumentati del 72% in Ungheria, del 36% in Polonia e del 25% in Slovacchia. Anche in Francia e in Germania i salari sono saliti rispettivamente del 6 e del 12%. Per quanto riguarda l'Italia, se si prendono come base i salari del periodo immediatamente precedente al manifestarsi della crisi economica e finanziaria globale, l'indice dei salari reali indica invece una perdita drammatica, e doppia rispetto alla “penultima” Spagna (-6%)
“Le crisi legate alla pandemia e all’inflazione – aggiunge il Rapporto - hanno un impatto maggiore su lavoratori e lavoratrici con basse retribuzioni. La combinazione tra perdita di lavoro e riduzione di ore lavorate durante la pandemia ha causato una crescita di quasi un punto percentuale della proporzione di lavoratori e lavoratrici a bassi salari che in Italia è passata dal 9,6% del 2019 al 10,5% del 2020”.
“La proporzione di lavoratrici – si legge nel Rapporto -, in genere più presenti rispetto ai lavoratori in lavori a bassa retribuzione, è aumentata di più di un punto percentuale (dal 10,7% nel 2019 all'11,8% nel 2020)”. L’età è poi “un'altra caratteristica personale che influisce sui livelli salariali. Durante la pandemia, i giovani già presenti in alta percentuale tra i lavoratori con basse retribuzioni, è ulteriormente cresciuta di quasi un punto percentuale tra il 2019 e il 2020, anche se la crescita maggiore si è registrata tra i lavoratori di età compresa tra i 35 e i 50 anni (+1,2%)”.
I lavoratori con bassa retribuzione sono “più presenti nell'Italia del Sud (circa 14%), anche se gli incrementi maggiori si sono registrati nell'Italia centrale (+1,5%) e del Nord (+1,4%)”. Mentre “sulla base della tipologia di contratto, i lavoratori a tempo indeterminato con basse retribuzioni sono aumentati (+1,2%) rispetto a quelli a tempo determinato (+0,8%), il cui numero è quasi doppio rispetto ai primi. L'incremento del numero di lavoratori a bassa retribuzione è stato invece lo stesso tra i lavoratori a tempo pieno e quelli a tempo parziale (+0,9%)”.
“Dobbiamo porre particolare attenzione ai lavoratori a reddito medio-basso – ha chiarito Giulia Lazzari –, contrastare l’erosione del potere d’acquisto dei salari è un fattore essenziale per la crescita economica e può supportare la crescita dell’occupazione. Questo può essere inoltre un modo efficace per diminuire la probabilità o la severità di un’eventuale recessione in Italia”.
Il Rapporto mostra, inoltre, che l’inflazione “può avere un impatto maggiore sul costo della vita delle famiglie a basso reddito a causa dell’utilizzo della maggior parte del loro reddito disponibile per la spesa in beni e servizi essenziali. Questi ultimi, in genere, subiscono un incremento di prezzo maggiore. Anche i dati relativi all’Italia evidenziano che i beni e servizi primari sono stati maggiormente intaccati dall’inflazione”.
Stando al Rapporto, una misurazione del divario salariale di genere sulla base del salario orario e del salario mensile indica che in Italia “è rimasto sostanzialmente immutato rispetto al periodo precrisi, attestandosi intorno all'11% (se misurato in base ai salari orari) o al 16,2% (se basato sui salari mensili). Questa tendenza si allinea con la media del divario salariale di genere a livello globale che è confermata stabile al 20%”.
“La ripresa dal Covid-19 che si stava realizzando nel mondo del lavoro in Italia e su scala globale è stata compromessa dall’attuale grave crisi inflazionistica”, ha spiegato Gianni Rosas. “Insieme al rallentamento della crescita economica, la crisi attuale sta aggravando la situazione dei salari reali in Italia e nel mondo. In questo contesto, è necessario adottare, attraverso il dialogo sociale, delle politiche macroeconomiche e fiscali di supporto al tenore di vita di lavoratori e famiglie, delle politiche salariali attraverso la contrattazione collettiva, unitamente a misure dirette alle famiglie meno abbienti. È inoltre fondamentale rafforzare le competenze di lavoratrici e lavoratori attraverso l’istruzione e la formazione lungo l’arco della vita e adottare strategie integrate per ridurre il divario salariale di genere”.
Inevitabile il riferimento al recente voto contrario della Camera sull’introduzione legale del salario minimo. Ma, ha osservato diplomaticamente Rosas, “quello che conta non sono gli strumenti ma l’obiettivo. Che ci si arrivi con una legge o mediante la contrattazione collettiva (che in Italia ha una copertura dell’80%), l’importante è mantenere lavoratrici e lavoratori al di sopra della soglia di povertà”. In conformità con la Convenzione Oil 121 del 1970 sui salari dignitosi.
Quanto al salario minimo legale, dal governo Meloni e dalla sua maggioranza non ci si può aspettare nulla. L’Oil indica allora la contrattazione collettiva, invita a una “condivisione delle responsabilità” e a un “dialogo più serrato tra imprese e sindacati”, ha detto Rosas. “Occorre affrontare e ridurre le perdite salariali. Se non si agisce nel 2023, si andrà in recessione”.
L'Osservatorio previdenza Cgil fa chiarezza sulle scelte del governo: 3,7 miliardi sottratti, Quota 103 per pochi, abolita di fatto Opzione donna
Le misure previdenziali approvate dal Consiglio dei ministri sono “molto limitate, largamente insufficienti e, in alcuni casi, addirittura peggiorative rispetto al quadro normativo vigente”. Lo affermano gli esperti dell’Osservatorio previdenza della Cgil e della Fondazione Di Vittorio, che hanno analizzato gli interventi sulle pensioni varati nel ddl Bilancio del governo Meloni. Un’operazione verità dalla quale purtroppo non vengono buone notizie. Nonostante gli impegni assunti dalla presidente del Consiglio sul coinvolgimento delle organizzazioni sindacali e sull'apertura di un confronto di merito e preventivo, con il ddl Bilancio il governo interviene in maniera unilaterale anche sul terreno pensionistico. Ma non c'è solo un problema di metodo, ci sono - non meno gravi - le questioni di merito. Per rendersene conto basta guardare i numeri nudi e crudi, non dimenticando mai che dietro le cifre ci sono le persone.
Il saldo delle risorse previsto dal governo sul “capitolo pensioni” non mente: nel 2023 a fronte di 726,4 milioni di euro che finanziano i diversi interventi (Quota 103, Opzione donna, Ape sociale e altro), si sottraggono al sistema ben 3,7 miliardi di euro tra taglio della rivalutazione delle pensioni in essere (-3,5 miliardi solo nel 2023) e abrogazione del fondo per l’uscita anticipata nelle Pmi in crisi (-200 milioni). Se si considera il triennio, le mancate rivalutazioni ammonteranno a 17 miliardi.
In realtà, le risorse che saranno effettivamente spese - sulla base della nostra analisi - saranno poco più di un terzo: 274,3 milioni, con un risparmio di 452,1 milioni. Se infatti guardiamo le platee interessate dalle misure previste, si comprendono le ragioni di questo risparmio e si chiarisce ancor di più la sostanza reale delle scelte previdenziali del governo.
Secondo le stime dell’Osservatorio previdenza di Cgil e Fondazione Di Vittorio - tra “Quota 103” (che consentirà l'uscita a 11.340 persone, di cui 9.355 lavoratori e appena 1.985 lavoratrici, in luogo delle 41.100 annunciate), “Opzione donna” (solo 870 rispetto alle 2.900 previste, che sarebbero già pochissime), conferma dell’Ape sociale (13.405 rispetto alla previsione di 20.000) - nel 2023, la platea reale delle persone che usufruiranno di questi tre istituti sarà di 25.615. Per tutti gli altri c’è la legge Fornero.
Per il segretario confederale della Cgil, Christian Ferrari: “Così non vengono affrontate in alcun modo le criticità presenti nel nostro sistema pensionistico, e men che meno si prefigurano le condizioni per una riforma complessiva del nostro impianto previdenziale. Nessun superamento della legge Fornero, dunque, e nemmeno la possibilità di accedere al pensionamento con 41 anni di contribuzione. Gli slogan e le promesse elettorali, ancora una volta, si configurano come vera e propria pubblicità ingannevole. In sostanza, non solo non c’è alcun miglioramento né allargamento delle tutele e dei diritti previdenziali, ma c’è un intervento regressivo rispetto alla situazione attuale, con una stretta – anche finanziaria – che indica una direzione molto chiara, in perfetta continuità con il recente passato. Prima quota 100, poi quota 102, adesso quota 103: si procede spediti verso un ritorno alla legge Fornero ‘in purezza’”.
“Non si rispetta - prosegue il segretario confederale Cgil - nemmeno la ‘regola’ annunciata dal ministro Giorgetti, per cui gli interventi nei diversi settori si dovrebbero finanziare all’interno di quegli stessi settori. Anzi, sulla previdenza succede esattamente l’opposto: si fa cassa sulle spalle di lavoratori e pensionati per tagliare le tasse a professionisti da 85mila euro annui. Intanto, nessuna risposta ai giovani, a chi svolge lavori gravosi e, soprattutto, alle donne, che hanno pagato il prezzo più salato delle “riforme” degli ultimi 15 anni.
Per quanto riguarda i giovani, del resto, è emblematica la reintroduzione dei voucher, che prevedono versamenti contributivi irrisori. Invece di contrastare la precarietà, che sta condannando le nuove generazioni a un presente ben poco dignitoso e a un futuro da pensionati poveri, la si implementa e la si peggiora, compromettendo l'equilibrio anche finanziario del sistema pensionistico nel suo complesso”.
“Paradigmatica, inoltre, la modifica di “Opzione donna” che - aggiunge Ferrari - nonostante preveda il ricalcolo totalmente contributivo dell’assegno (e costituisca, quindi, solo un anticipo di cassa senza alcun costo aggiuntivo per il bilancio previdenziale) - è oggetto di un intervento così radicale da determinare, attraverso lo svuotamento della platea, un’abrogazione di fatto dell’istituto. Oltretutto - anche rispetto al tavolo, per ora solo annunciato, che in base alle intenzioni del Governo dovrebbe mettere mano ad una riforma previdenziale nel corso del 2024 - da queste prime misure si prefigurano un’impostazione e dei margini finanziari che smentiscono l'obiettivo di una vera riforma strutturale che assicuri sostenibilità sociale e dia risposte alle persone”.
“Per parte nostra - conclude Ferrari - il giudizio sulla strada intrapresa dall'esecutivo in materia previdenziale è nettamente negativo. Ribadiamo la necessità di una vera riforma del nostro impianto pensionistico, così come indicato nella piattaforma sindacale unitaria, attraverso l’uscita flessibile a partire dai 62 anni, il riconoscimento della diversa gravosità dei lavori, la pensione di garanzia per i giovani e per chi ha carriere discontinue e povere, il riconoscimento del lavoro di cura e della differenza di genere, l’uscita con 41 anni di contributi senza limiti di età”.
Due voci tratte dal Rapporto Agromafie e caporalato: una a Pordenone, l'altra a Cosenza. Per ricordare che lo sfruttamento è sulla pelle delle persone
Pubblichiamo due storie tratte dal VI Rapporto agromafie e caporalato, a cura della Flai Cgil con l'osservatorio Placido Rizzotto. Una raccolta a Pordenone, l'altra ad Amantea (Cosenza). Per ricordare che il circolo vizioso dello sfruttamento non sta nei numeri astratti, ma sulla pelle e nelle storie delle persone.
PORDENONE
Mi chiamo A.C. e sono pakistano, nato a Gujrat. Ho 31 anni, e sono da 6 a Pordenone. Sono arrivato direttamente qui con altri connazionali pagando 7.000. Non ero solo, ma con altri amici. Arrivati a Pordenone, sapevano già chi ci prendesse in carico alla Stazione dei Pullman. Ci portarono in una casa dove c’erano altre 5 persone. Il gruppo con cui sono arrivato era di 4. La casa ospitava anche un collaboratore del caporale. Da due anni lavoro in agricoltura, prima ero fabbro. Anche nel mio paese, e l’ho fatto anche a Pordenone, per pochi mesi. Ma la ditta poi è fallita e ho ripiegato in agricoltura. Non è un lavoro difficile, è solo pesante. Avevo il permesso di soggiorno grazie al lavoro precedente, così ho potuto fare il rinnovo. Ho vissuto per quasi un anno presso la casa dove sono arrivato. Il lavoro in agricoltura non mi è mai mancato, grazie a un amico che aveva la partita Iva e acquisiva lavori da alcune aziende agricole. Era colui che ho incontrato all’arrivo a Pordenone, con cui ho lavorato almeno un anno. Poi sono andato con un altro sponsor, perché mi aveva promesso di pagarmi di più. Prima prendevo al massimo 600 euro, poi con questo ultimo sono arrivato a 700. Avendo famiglia in Pakistan 100 euro in più sono molte.
Con questa cifra più alta ho affittato una casa con altri due amici, consigliato anche dal nostro sponsor perché diceva che era più vicino alle aziende con cui aveva rapporti di lavoro. In seguito, ho scoperto che la casa era intestata a nome suo, e noi in pratica pagavamo l’affitto e le altre spese direttamente a lui che poi versava il dovuto al proprietario, con un guadagno di quasi 200 euro al mese (lo abbiamo scoperto in seguito). Dopo qualche mese in questa casa tutto andava bene. Lo sponsor ci disse che l’affitto doveva aumentare di 50 euro perché le spese erano cresciute. Accettammo, poiché ci garantiva comunque di lavorare.
Ma il lavoro durante i primi mesi di pandemia era sceso di molto e non trovava lavoro, cosi ci diceva. Ma scoprimmo che aveva formato ̀ un’altra squadra che pagava meno di quello che dava a noi, cioè tre euro l’ora. Chiedemmo spiegazioni, ma si rifiutava di incontrarci. Una sera venne a casa con altri suoi collaboratori e ci disse che dovevamo lasciare la casa perché non voleva più lavorare con noi. In pratica ci mandava via, ci licenziava, anche se non ci aveva mai assunti. Ci costrinse a lasciare la casa entro un’ora, con spintoni e minacce molto pesanti. Andammo via senza nessun’altra spiegazione. Non ha pagato tutti gli stipendi, abbiamo un credito in denaro di quasi quattro mesi. Non vuole vederci e non vuole parlarci. E non vuole pagarci, dicendo che ha pagato per noi delle spese per la casa senza mai dirci quali. Ci manda a dire che può denunciarci per furto a casa sua, la casa dove eravamo in affitto. Non abbiamo fatto denuncia, anche se degli amici italiani ce lo hanno consigliato. Ma abbiamo paura, non solo del caporale ma anche del suo datore di lavoro perché è conosciuto come una persona che non paga regolarmente gli operai e che minaccia di denunciare coloro che non hanno il permesso di soggiorno. Non sappiamo se i soldi del salario arretrato non ce li paga il caporale – dopo aver ricevuto i soldi al datore – o è quest’ultimo che non paga il caporale e questo non paga noi. Fatto sta che siamo nell’impossibilità di avere il nostro salario arretrato.
Adesso – è da giugno (2021) che non lavoro – sono ospite di una struttura di accoglienza. Ho dormito per circa due mesi nel parco, e alla stazione dei treni. Ho sempre lavorato e voglio continuare a lavorare in agricoltura, ma ho paura del caporale che mi ha minacciato. Perché lo conosco bene e so bene cosa è capace di fare. Mi ha fatto sapere – e lo dice anche in giro – che non mi deve nulla. Da quando sono in questa struttura lavoro qualche giorno alla settimana, mi chiamano quando c’è bisogno. Il nuovo datore che ho appena conosciuto ha visto che lavoro bene e mi ha promesso di farmi lavorare ancora. E con un contratto regolare.
AMANTEA, COSENZA
M.A. è originario del Mali, di un paese nei pressi della capitale Bamako. Ha una moglie e un figlio, a cui invia regolarmente denaro. È arrivato in Italia nel 2016, a Lampedusa. Ha 28 anni e un diploma di Scuola superiore. Per circa due anni è stato in Sicilia, e poi si è trasferito a Rosarno e successivamente, da quasi tre anni, tra Lamezia e Amantea, in base al lavoro da svolgere: perlopiù nelle serre nel primo caso, nel comparto della cipolla nel secondo. È stato ospite dello Sprar di Lamezia per tre anni circa. Da un anno vive con altri connazionali in un appartamento, senza nessuna ingerenza esterna. M.A. attualmente – da quasi un anno (dunque dal settembre 2020) – è anche impegnato a sostenere i connazionali e gli altri immigrati in una piccola associazione informale costituita da africani occupati perlopiù in attività agricole. Lui stesso continua a lavorare nel settore agricolo, sempre nelle raccolte stagionali. Da circa tre anni lavora quasi regolarmente ad Amantea, svolgendo sia attivita di raccolta nell’orto- ̀ frutta che attività di raccolta, intrecciamento e stoccaggio della cipolla.
M.A. parla molto bene l’italiano e spiega come trascorre le giornate di lavoro a Campora San Giovanni, e come la durezza del lavoro non è ricambiata con una giusta paga e con un orario adeguato; e come – tra l’altro – sono spinti a sostenere dei ritmi che per molti lavoratori e lavoratrici sono a dir poco pesanti. Da tre mesi (dunque da giugno 2020) non lavora perché ha denunciato il caporale, uno degli ultimi caporali con cui ha lavorato. I caporali che ho conosciuto sono molti, dice M.A. C’è un cambio di caporali molto elevato. E non tutti della stessa nazionalità, anche perché quando il caporale chiama un lavoratore, gli chiede anche se ha amici da portare e può capitare che un amico marocchino ti chiama perché lui è stato chiamato dal caporale marocchino. Oppure, come è capitato spesso anche a me, che un caporale senegalese chiama per un lavoro un amico marocchino e questo a sua volta chiama me.
Succede anche questo, anche se la regola è che gli africani lavorano con i caporali africani e i lavoratori marocchini con i caporali marocchini, e così per i romeni o i bulgari. E non è detto che un caporale di un’altra nazionalità sia più severo o minaccioso oppure più violento di quello della tua comunità. Anzi, nella mia esperienza – racconta M.A. – spesso i caporali di altre nazionalità tendono ad essere più attenti perché hanno anche più timore, a volte anche paura, perché non conoscono le reazioni che si possono scatenare tra gruppi di nazionalità diversa. Ma c’è una costante che caratterizza i rapporti con il caporale, le condizioni di lavoro e le modalità̀ di pagamento. Il caporale ti chiama in genere la sera prima, continua M.A., e chiede se sei libero per il giorno dopo o per una settimana o un mese. Tu decidi se accettare la proposta, perché magari ne hai già un’altra, ma che non ti soddisfa. O meglio perché le giornate sono di meno di quelle che ti sta proponendo il nuovo caporale, e quindi di conseguenza l’ammontare del salario mensile.
Quando hai possibilità di scelta decidi in base alla convenienza, ma accetti qualsiasi proposta quando non hai nessuna scelta (M.A. aveva questa possibilità, fino al lockdown del 2020). Il caporale ha sempre una sua squadra, ma questa cambia di numero sulla base della richiesta del datore di lavoro e quindi il caporale cerca di rimpolpare la squadra secondo le esigenze aziendali. Se accetti – dice M.A. – sai che la paga oscilla tra 25 e 35 euro, a seconda del caporale e secondo il tipo di lavoro da svolgere e dove viene svolto, e che 5 euro sono per il trasporto. E quante ore bisogna lavorare. Per le cipolle, senza specificare l’orario giornaliero, sono 35 euro (meno i 5 euro), per caricare i prodotti per poche ore sono 25 euro (tolti i 5 euro).
Ma c’è un’altra questione da considerare: sapere chi è il caporale e come tratta gli operai. Questo aspetto è importante perché ci sono caporali che rispettano gli operai e caporali che non li rispettano, perché pensano che comunque gli stiano facendo un favore. Gli spostamenti sono sempre in macchina o in furgone, in base alla disponibilità dei mezzi del caporale. Il furgone è il mezzo più comune, ma è anche quello che oramai la polizia ferma quasi regolarmente, soprattutto la mattina presto o la sera tardi. Per questo i caporali più attenti usano macchine normali, magari fanno più viaggi se le distanze sono brevi (entro 30 km), oppure coinvolgono altri caporali-autisti, oppure danno la metà dei 5 euro a qualche operaio che ha la macchina. Il furgone è di nove posti, anche se le persone che trasportano possono essere anche 12 o 15 addirittura.
Il furgone, dice M.A., rappresenta un simbolo di successo e di forza del caporale, perché in genere è di sua proprietà. I caporali più conosciuti possono avere anche due o tre o quattro furgoni, e avere una disponibilità maggiore coinvolgendo altri caporali quando gli operai reclutati arrivano ad essere 100 o anche di più, fino a 400, come ha potuto constatare direttamente M.A. Con i caporali spesso non c’è nessun rapporto di amicizia, anche se è un tuo connazionale. Per lavorare, come prima cosa devi dare i tuoi documenti, poiché il reclutatore deve darli al datore di lavoro quando questo ti registra all’INPS, oppure li tiene il caporale quando si lavora in nero, per maggior sicurezza. Cioè a garanzia che non fai danni, che non rubi nulla e che la sera – al momento della paga – non crei problemi. Lo scambio serale tra documenti e salario della giornata o della settimana significa che l’attività lavorativa è finita senza problemi.
Se il lavoro è di un giorno – riporta M.A. –, il documento viene restituito la sera, se continua per più giorni i documenti restano fino all’ultimo lavorativo. Il coordinamento del lavoro è affidato ad un caposquadra italiano a cui il caporale straniero deve sottostare: è il primo che controlla tutta l’attività nei campi o nei magazzini. Possono essere due o tre, dice M.A. Dipende da quanti operai lavorano contemporaneamente, e dalla grandezza dell’azienda. Se un’azienda impiega duecento, trecento o quattrocento braccianti, i coordinatori saranno molti, come rilevato nella primavera-estate del 2019. I coordinatori sono anche quelli che registrano le giornate ai lavoratori. Mi accorsi, ricorda M.A., «che alla fine del lavoro svolto – durato quasi quattro mesi consecutivi – alla fine avevo soltanto 51 giornate registrate, invece di almeno 100 (...) nei campi di cipolla si lavora anche la domenica, ma le giornate conteggiate sono sempre decurtate: su 30 giorni di lavoro ne registrano cinque, o al massimo dieci in busta paga, quando c’è un contratto regolare».
«Sulle giornate c’è sempre una lotta: se si lavora trenta giorni, cinque/dieci sono registrate, e quindi risultano in busta paga, mentre un’altra decina sono pagate in nero e le restanti dieci spesso non sono riconosciute. Per farsele pagare occorre avere dei testimoni che affermino questa banale verità. Ma è difficile che qualche lavoratore testimoni che hai lavorato 30 giorni, contraddicendo quello che dice il coordinatore, e rinforzato dal caporale ossequioso. La paura di lavorare immobilizza tutti i lavoratori connazionali e non». Il controllo, nella maggior parte dei casi, è molto severo perché tutto è a cottimo. M.A. è stato minacciato più volte prima di essere mandato via dal lavoro in malo modo. Le minacce che riceveva erano continue, così come quelle rivolte ai suoi colleghi. «Se non vai veloce, domani stai a casa. Se non fai in fretta come si aspettano loro ti minacciano», ricorda M.A. Più volte M.A. dice ai suoi colleghi che non possono continuare a stare zitti, ma le risposte che riceveva erano le stesse: è vero ma cosa facciamo senza lavoro?
Ancora M.A.: «Ci sono dei cassoni da riempire, essi sono di forma quadrata, di lunghezza e larghezza un metro o un metro e cinquanta, e profondi ottanta centimetri. In questi cassoni entrano circa due quintali di cipolle. Un lavoratore in media ne deve farne almeno tre. Se il controllore è particolarmente severo se ne riempiono anche quattro. Dipende della capienza del cassone. Di quelli più piccoli se ne fanno anche dieci. Un giorno ho reagito al coordinatore, mettendo in discussione il suo modo di incitarci a lavorare di più. Era l’inizio dell’estate del lockdown (2020), e tutti eravamo in tensione perché non sapevamo cosa fosse il virus, quanto fosse davvero pericoloso. Non avevamo mascherine. Mi ha sgridato in faccia che dovevo stare zitto, ma ho continuato a rispondergli che non ero un servo. Lui ha chiamato il caporale dicendogli che non mi voleva più vedere». «Il caporale mi ha detto subito di andarmene e che ci saremmo rivisti la sera, ricorda M.A. La sera non voleva restituirmi i documenti perché diceva che li aveva ancora l’azienda, ma non ci credevo. E non voleva darmi ciò che avevo maturato in circa un mese di lavoro. L’ho denunciato, grazie al progetto INCIPIT della Regione Calabria. Adesso (fine settembre 2021) da circa tre/quattro mesi non lavoro però sto pensando di riprendere gli studi (...) farmi riconoscere il diploma se possibile, oppure ricominciare dalla terza media».
In occasione del convegno, organizzato da Farsi Prossimo ODV e Overall, “OLTRE LE BARRIERE SOCIALI. I CONFINI DELLA DISUGUAGLIANZA” dedicato a Damiano Cavina, che si terrà venerdì 2 dicembre ore 18,30 a Faventia Sales, via S. Giovanni Bosco, Faenza,
sarà distribuito il terzo rapporto del gruppo “Lavoro Degno” che nasce dal progetto “FRAGILITÁ e RESILIENZA” (finanziato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con il contributo della Regione Emilia-Romagna), anche in collaborazione col “Tavolo delle Fragilità” dell’URF.
Anche questo rapporto è dedicato a Damiano Cavina che del gruppo “Lavoro Degno” è stato di fatto l’ideatore e il coordinatore.
Il rapporto si intitola "FRAGILITÀ E RESILIENZA. INTERVENTI E PROGETTI VERSO UN'ECONOMIA SOCIALE" e ha l'obiettivo di aggiornare il quadro dei soggetti fragili presenti nei sei comuni della Romagna Faentina, dei servizi e degli interventi a loro favore nonché dei possibili progetti futuri per offrire loro opportunità occupazionali.