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 ll forum con D'Alema, Fratoianni, Falcone, Acerbo, Asor Rosa e Villone. Identità, programma, unità. Per parlare a chi resta a casa e a chi ha cambiato partito. In questa delicata fase che precede le prossime tempeste elettorali, cerchiamo di capire se le iniziative al Brancaccio e a piazza Santi Apostoli abbiano isolato i protagonisti o al contrario abbiano mescolato le carte

Il manifesto lavora, non da oggi, per la costruzione di un processo unitario della sinistra, a volte anche spingendo il cuore oltre l’ostacolo. Lo abbiamo fatto avventurandoci in un dibattito, largo e partecipato, dal titolo «C’è vita a sinistra», per contrastare la penosa coazione del «pochi ma buoni», quella sindrome tafazziana che spinge la sinistra a riprodursi per scissioni infliggendosi una sconfitta dopo l’altra.

A volte ci sembra di combattere una battaglia donchisciottesca perché di fronte alle nostre divisioni, da un lato c’è una destra aggressiva e dall’altro un partito renziano neocentrista: liberale sui diritti civili, liberista sui diritti sociali.

In questa delicata fase che precede le prossime tempeste elettorali, cerchiamo di capire se le recenti iniziative – l’assemblea del Brancaccio e la manifestazione di piazza Santi Apostoli – abbiano avuto l’effetto di recintare e isolare i protagonisti in campo, o al contrario siano stati positivi tentativi di mescolare il panorama e allargare l’orizzonte. (Norma Rangeri)

LEGGI TUTTO SULL'INSERTO DE il manifesto

https://www.facebook.com/ilmanifesto/?hc_ref=NEWSFEED

 

 

 

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Sinistra. E la legge elettorale aiuta a scansare il rischio di essere minoritari o integrati. Parlare di centrosinistra crea solo disorientamento. Non c’è più alcun «campo» che possa definirsi così perché Renzi ha privato il Pd di qualsiasi sistema di alleanze. D'altra parte si deve dichiarare da subito la totale disponibilità a mettersi in gioco, dopo le elezioni, per contrattare il possibile programma di governo. Per rispondere a chi teme una deriva minoritaria

Dopo il Brancaccio e Santi Apostoli, sono aumentate o stanno diminuendo le possibilità che, alle prossime elezioni, si possa presentare una lista unitaria di sinistra sorretta da un progetto credibile?

Non bisogna nascondersi la realtà: molti non ci credono, e non pochi lavorano perché queste possibilità svaniscano. L’idea che si fa strada – un po’ per rassegnazione, un po’ per convinzione – è che sia inevitabile una divisione: tra una sinistra-sinistra, da una parte, e una sorta di neo-ulivismo, dall’altra.

Pesa anche l’incertezza circa le regole elettorali con cui andremo al voto: e forse qualcuno accarezza l’idea che una soglia al 3% possa facilitare questa sorta di divisione del lavoro. Ma è una illusione che tutti rischiano di pagare caro. Vediamo i termini essenziali della questione.

È CONVINZIONE comune che una prospettiva unitaria si possa fondare solo una piattaforma programmatica condivisa. Bene. I richiami ascoltati al Brancaccio sulla Costituzione come asse politico-culturale e programmatico della sinistra, i discorsi di piazza Santi Apostoli (soprattutto quello di Bersani) sulla radicale discontinuità con le politiche seguite dal Pd renziano, sono una buona base di partenza: lotte alla diseguaglianze, diritti e dignità del lavoro, politiche economiche neo-keynesiane, difesa dell’universalismo dei diritti alla salute e all’istruzione, valorizzazione dei beni comuni.

Ciò che crea divisioni sono i discorsi sulle prospettive politiche e di schieramento. Ma su questo punto, oltre a differenze reali, ci sono anche molte ambiguità che è possibile eliminare. Qualcuno – nell’area Pisapia e Mdp tende ancora a parlare di «centrosinistra»: ma cosa intende? Una qualche coalizione preventiva? A parte il fatto che la legge elettorale probabilmente non imporrà nulla in questo senso, è evidente come questa prospettiva sia sempre meno credibile e sostenibile.

Troppo stridente il contrasto con i giudizi sulle politiche del Pd renziano e con la discontinuità che pure viene evocata. Si ha l’impressione che questo richiamo (peraltro, in sé, sempre meno attrattivo e mobilitante) sottenda la preoccupazione di non appiattire la nuova offerta politica entro i confini ristretti delle forze che tradizionalmente si sono collocate a sinistra del Pd. Preoccupazione sacrosanta, che però non viene fugata dalla genericità di un richiamo ad un «centrosinistra» che, oggi, non esiste; non esiste alcun «campo» pre-definito che si possa definire tale.

E non esiste perché radicale è stata la rottura maturata in questi anni tra le scelte di governo, e prima ancora la cultura politica, del Pd renziano, e tutto ciò che può essere ricondotto ad una qualche idea di sinistra. Radicale è stato anche il distacco dai mondi sociali che della sinistra dovrebbero costituire il naturale punto di riferimento.

ESISTE UN ELETTORATO di sinistra disperso e silenzioso, che avrebbe bisogno di trovare nuovi punti di riferimento e nuovi motivazioni, anche solo per tornare a votare. Ed esiste un partito di centro, il Pd, che il suo leader megalomane ha privato di un qualsiasi sistema di alleanza, e che tende a guardare a destra. In queste condizioni, parlare ancora di centrosinistra crea solo incertezza e disorientamento. E del resto (come ha fatto notare giustamente D’Alema all’assemblea romana di Mdp), che senso avrebbe avuto una scissione, se si pensa di ritrovare una base politica comune? Le prossime elezioni saranno un terreno di scontro molto aspro: solo dopo, a conti fatti, si potrà vedere se e come saranno possibili accordi e mediazioni.

A questo punto, qualcuno obietta: si rischia una sinistra di testimonianza, minoritaria, destinata all’irrilevanza. È un rischio, certo, ma può essere scongiurato. Una lista unitaria della sinistra si deve caratterizzare per un suo orizzonte ideale e per un suo programma di governo; ma anche per una precisa opzione politica: dichiarare apertamente la piena disponibilità a mettere in gioco la forza che gli elettori le vorranno dare per contrattare un possibile programma di governo (qualora, ovviamente, ce ne siano le condizioni numeriche). Questa disponibilità non deriva solo dalla probabilità che un nuovo governo possa formarsi solo sulla base di accordi in parlamento: è una strategia politica che si rivolge agli elettori del Pd e del M5S per incalzare queste forze politiche e metterne a nudo le ambiguità. Ed è un atteggiamento politico in grado di esprimere una proiezione egemonica, evitando il pericolo di un auto-confinamento in una posizione minoritaria e ininfluente.

MOLTI SI RICHIAMANO all’esempio positivo di Padova. Ma, appunto, è un caso che dimostra come la famosa «doppia cifra» si può raggiungere a due condizioni, una proposta autonoma e originale e un messaggio forte agli elettori: ci siamo, vogliamo governare, e non abbiamo timore di mediare e contrattare con altre forze (come dimostra l’alta partecipazione al voto e l’esito del ballottaggio, l’elettorato che si è riconosciuto nella coalizione civica padovana non ha per nulla esitato nell’esprimersi a favore di una coalizione, costruita dopo il primo turno).

Il sistema politico italiano sta cambiando rapidamente. È saltato lo schema che voleva ingabbiare tutto in un astratto e artificioso bipolarismo. Le culture politiche degli italiani si esprimono già attraverso una più articolata distribuzione lungo l’asse destra-sinistra: una destra xenofoba e nazionalista, una destra conservatrice, un’area centrista moderata (forse), un partito di centro (il Pd), una (potenziale) area di sinistra. E poi, naturalmente, il M5S: una forza politica che finora ha goduto di una comoda rendita di posizione, catalizzando le più svariate ragioni di risentimento sociale, ma che – in un diverso scenario competitivo – non è detto riesca a mantenere queste caratteristiche.

In tale contesto, attardarsi a parlare di coalizioni preventive non ha senso. Ancor meno senso ha, come ha fatto Prodi, invocare sistemi elettorali che le prevedano, per evitare la «frammentazione», come se non fossero stati proprio i sistemi maggioritari a esaltare il potere di veto dei piccoli gruppi (e Prodi dovrebbe saperlo!). No, è tempo di tornare ad offrire agli elettori proposte politiche chiare, con una loro identità e autonomia. Una lista unitaria non è un escamotage per aggirare le soglie: è una precondizione, necessaria anche se non sufficiente, perché l’elettorato di sinistra possa tornare a sperare di avere una voce.

 

 

 

 

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Le corvette dell' Isola d' Elba

lunedì 3 luglio 2017

Oggi è ufficiale !!-Armi all' Arabia Saudita-Il governo italiano direttamente impegnato nella vendita

 

 

 





La Rete No War in una manifestazione nel novembre 2015 in occasione della visita di Renzi in Arabia Saudita espose  questo cartello "Renzi piazzista di armi dai Saud". La nota stampa di oggi della Moby Lines conferma il ruolo del governo nel commercio delle armi spiegando che " Il trasporto (di bombe n.d.r.) è stato effettuato su precisa richiesta del Ministero della Difesa".
Ora o avremo una smentita del comunicato stampa della Moby o una conferma che il governo italiano è direttamente impegnato nella vendita di armi all' Arabia Saudita.

M.P.


Di seguito la  nota stampa della Moby di oggi 3 luglio sollecitata da un articolo di Francesco Santoianni su www.lantidiplomatico.it

NOTA STAMPA

In riferimento agli articoli apparsi su alcuni organi di stampa negli ultimi giorni riguardanti il carico trasportato il 29 giugno scorso sulla nave merci (senza passeggeri a bordo) Giuseppe Sa, Moby precisa che quest’ultima è l’unica unità della Compagnia adibita ad accogliere questa tipologia di merce. Il trasporto è stato effettuato su precisa richiesta del Ministero della Difesa, e nel pieno rispetto di tutte le normative vigenti in materia di sicurezza

Pubblicato da lecorvettedellelb08:04 Nessun commento: 

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Etichette: Arabia SauditasbombeMinistero DifesaMobySardegna

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Nelle miniere dove nascono gli Smartphone

(10) Nelle miniere dove nascono gli smartphone - Nemo - Nessuno Escluso 25/05/2017 - YouTube

GUARDA LA PUNTATA INTEGRALE https://goo.gl/xlYRvC
http://www.raiplay.it/programmi/nemo-... - Tutti i nostri dispositivi elettronici contengono un minerale, il coltan, che viene estratto in Congo in un inferno di miniere dove lavorano anche bambini. Si parla di "minerali insanguinati", ma nessuno parla di telefoni insanguinati. Il reportage di David Chierchini e Matteo Keffer

 

https://m.youtube.com/watch?v=WCFKWgu4u1g
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Inutile girarci intorno. Possiamo confrontare il numero dei Comuni in cui vince il centro-sinistra o il centro-destra, mettere insieme comuni grandi e piccoli o fare altre alchimie – Renzi ci ha già provato – ma il senso di queste elezioni è netto: ha vinto il centro-destra, soprattutto ha perso il centro-sinistra, più precisamente, è stato sconfitto il Partito Democratico.

Perché un inizio così netto e drastico? Perché quello che è accaduto era scritto nella storia degli ultimi anni ed è la conseguenza di due fenomeni ben noti: astensionismo e sistemi con ballottaggio nelle realtà non più bipolari.

Se nei sistemi bipartitici o bipolari l’elettore si trova a scegliere tra il partito in cui si riconosce ed il partito avversario, in un sistema tripolare o multipolare gli elettori che non si riconoscono tra i due contendenti sono spinti in gran parte ad astenersi e per il resto a votare contro il partito più nemico. Questo produce una mutazione della stessa natura dell’atto elettorale: dal voto per al voto contro, dal voto per simpatia a quello per antipatia. Il fenomeno era stato evidente già nelle elezioni comunali di Roma e Torino. E non è bastato che Renzi non si presentasse nelle piazze dove si votava. Serviva forse un passo in più.

Oltretutto si è aggiunto un altro fattore che ha influito sul voto. Dopo il 4 dicembre siamo entrati in una fase di ristrutturazione delle forze politiche italiane che sta interessando soprattutto il campo che va dal centro alla sinistra.
In questa fase si sono collocati il congresso «incompiuto» del Pd, la fuoriuscita da esso di tanti iscritti e dirigenti di valore, il congresso che ha visto Sinistra Italiana subire una scissione prima di nascere, e, più di recente, i movimenti di Art.1, di Pisapia e di Falcone e Montanari.

Un grande fermento, insomma, che produrrà, speriamo, effetti positivi, ma che oggi non ha aiutato perché le elezioni sono intervenute a «lavori in corso». Mentre, cioè, emergono le macerie che dobbiamo rimuovere, ma non appare chiaro cosa vogliamo costruire e come e mentre i direttori di cantiere che si presentano sono guardati con sospetto.

Le prossime tappe del processo di ristrutturazione – legge elettorale e di conseguenza schieramenti ed alleanze – saranno decisive. E per tutti.

Il processo riguarda anche il centro destra, ma esso opera col vento in poppa del populismo che indica nel migrante il nemico e nel protezionismo la risposta al bisogno di sicurezza che la crisi della globalizzazione produce.
A sinistra il processo è, invece, più complesso: non dobbiamo smarrire i nostri valori – accoglienza, diritti civili e sociali – ma abbiamo un bisogno urgente di «fare opinione», mobilitare, unire, conquistare, costruire convergenze, individuare resistenze ed avversari.

Allora più che parlare di schieramenti ed alleanze la «Costituente della sinistra» dovrebbe fissare le nostre parole chiave. Eguaglianza, lavoro, garanzia di reddito debbono essere declinati per farli diventare nostri obiettivi precisi, condivisi e visibili, sui quali aggregare persone, società civile, organizzazioni.

Ma abbiamo bisogno anche di indicare e far emergere le resistenze che troveremo, che dovremo contrastare ed i soggetti che le rappresentano: l’economia finanziaria, le banche, i grandi patrimoni, i grandi profitti dei nuovi padroni dell’economia digitale, i poteri e le corporazioni che bloccano la mobilità sociale e perpetuano stratificazioni economiche e sociali che bloccano speranze ed ambizioni dei giovani.

Insomma di fronte al rischio che ciascuno scarichi il suo malessere su quello che gli sta a fianco o sotto, dobbiamo ricostruire una gerarchia di ruoli e responsabilità perché in una società che cresce poco non ci potranno essere più uguaglianza e più lavoro senza progressività e redistribuzione.

Il voto ci chiama a fare una sinistra nuova, ma più radicale. Quello che in altri paesi dirigenti – vecchi o nuovi che siano – stanno cercando di fare.

 

 

 

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La voce ironica che difendeva tutti. Per strada lo chiamavano “presidente”. Gli italiani lo avrebbero voluto al Colle

di Tomaso Montanari
Presidente Libertà e Giustizia

Il Fatto 24.6.17

Si serra la gola alla notizia che non ascolteremo più la voce ferma, affettuosa e ironica di Stefano Rodotà. E si sente che da oggi, senza quella voce, siamo ancora un po’ meno sovrani: un po’ più indifesi, più soli, più fragili. Quando capitava di camminare per strada in sua compagnia, invariabilmente succedeva che un cittadino si avvicinasse per salutarlo chiamandolo ‘presidente’. E non si riferiva alle sue tantissime presidenze (per esempio a quella del Partito democratico della Sinistra, in un’epoca politica che oggi sembra remotissima), ma al fatto che per molti, per molti di noi, Stefano Rodotà era il presidente morale della Repubblica. Non c’erano polemica, o faziosità in questo dolce legame sentimentale: c’era invece un profondo senso di gratitudine. Tutti ricordiamo quell’aprile di quattro anni fa, in cui il nome di Rodotà risuonò per 217 volte nell’aula di Montecitorio dove si eleggeva il Capo dello Stato. E a ogni lettura l’immaginazione correva verso un’altra Italia: un’Italia più libera, più dignitosa, più solidale. L’Italia della Costituzione e del popolo sovrano.
L’Italia che tante volte è scesa in piazza per questa Costituzione e questa sovranità: e Libertà e Giustizia ricorda con profonda gratitudine, tra tante occasioni di incontro e lotta comune, la presenza di Stefano alla grande manifestazione romana dell’ottobre del 2013 per difendere la “via maestra” della Costituzione.
Il Rodotà politico era la naturale – ma quanto coraggiosa! – conseguenza dello studioso che non ha usato la sapienza del diritto per rendere più potenti i detentori del potere, ma per restituirne un po’ agli oppressi, agli ultimi. Se dovessi indicare il nucleo della sua altissima lezione direi che ci ha insegnato – sono parole sue – “l’irriducibilità del mondo al mercato”. La più essenziale delle lezioni di cui ha bisogno il mondo di oggi.
Tra i beni comuni che è vitale sottrarre alla dittatura del mercato, Rodotà ne indicava uno modernissimo quanto essenziale: la Rete. “In questo spazio – ha scritto – tutti e ciascuno acquistano la possibilità di prendere la parola, acquisire conoscenze, creare idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, discutere, partecipare alla vita pubblica, costruendo così una società diversa, nella quale ciascuno può rivendicare il suo diritto ad essere egualmente cittadino. Ma questo diviene più difficile, se non impossibile, se la conoscenza viene recintata, affidata alla pura logica del mercato, imprigionata da meccanismi di esclusione che ne disconoscono la vera natura e così mortificano una ascesa che ha fatto della conoscenza in rete il più evidente dei beni comuni”. Tra i tanti diritti al cui studio e alla cui difesa Rodotà ha dedicato una lunga vita felice è forse proprio il diritto alla conoscenza quello che oggi appare il fondamento più essenziale, e insieme più fragile, della nostra democrazia.
Il modo migliore per ricordare questo nostro grande amico, per provare ad essergli grati, è continuare a lottare per costruire, con le sue parole e le sue idee, “una società diversa”.

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