Sinistra. E la legge elettorale aiuta a scansare il rischio di essere minoritari o integrati. Parlare di centrosinistra crea solo disorientamento. Non c’è più alcun «campo» che possa definirsi così perché Renzi ha privato il Pd di qualsiasi sistema di alleanze. D'altra parte si deve dichiarare da subito la totale disponibilità a mettersi in gioco, dopo le elezioni, per contrattare il possibile programma di governo. Per rispondere a chi teme una deriva minoritaria
Dopo il Brancaccio e Santi Apostoli, sono aumentate o stanno diminuendo le possibilità che, alle prossime elezioni, si possa presentare una lista unitaria di sinistra sorretta da un progetto credibile?
Non bisogna nascondersi la realtà: molti non ci credono, e non pochi lavorano perché queste possibilità svaniscano. L’idea che si fa strada – un po’ per rassegnazione, un po’ per convinzione – è che sia inevitabile una divisione: tra una sinistra-sinistra, da una parte, e una sorta di neo-ulivismo, dall’altra.
Pesa anche l’incertezza circa le regole elettorali con cui andremo al voto: e forse qualcuno accarezza l’idea che una soglia al 3% possa facilitare questa sorta di divisione del lavoro. Ma è una illusione che tutti rischiano di pagare caro. Vediamo i termini essenziali della questione.
È CONVINZIONE comune che una prospettiva unitaria si possa fondare solo una piattaforma programmatica condivisa. Bene. I richiami ascoltati al Brancaccio sulla Costituzione come asse politico-culturale e programmatico della sinistra, i discorsi di piazza Santi Apostoli (soprattutto quello di Bersani) sulla radicale discontinuità con le politiche seguite dal Pd renziano, sono una buona base di partenza: lotte alla diseguaglianze, diritti e dignità del lavoro, politiche economiche neo-keynesiane, difesa dell’universalismo dei diritti alla salute e all’istruzione, valorizzazione dei beni comuni.
Ciò che crea divisioni sono i discorsi sulle prospettive politiche e di schieramento. Ma su questo punto, oltre a differenze reali, ci sono anche molte ambiguità che è possibile eliminare. Qualcuno – nell’area Pisapia e Mdp tende ancora a parlare di «centrosinistra»: ma cosa intende? Una qualche coalizione preventiva? A parte il fatto che la legge elettorale probabilmente non imporrà nulla in questo senso, è evidente come questa prospettiva sia sempre meno credibile e sostenibile.
Troppo stridente il contrasto con i giudizi sulle politiche del Pd renziano e con la discontinuità che pure viene evocata. Si ha l’impressione che questo richiamo (peraltro, in sé, sempre meno attrattivo e mobilitante) sottenda la preoccupazione di non appiattire la nuova offerta politica entro i confini ristretti delle forze che tradizionalmente si sono collocate a sinistra del Pd. Preoccupazione sacrosanta, che però non viene fugata dalla genericità di un richiamo ad un «centrosinistra» che, oggi, non esiste; non esiste alcun «campo» pre-definito che si possa definire tale.
E non esiste perché radicale è stata la rottura maturata in questi anni tra le scelte di governo, e prima ancora la cultura politica, del Pd renziano, e tutto ciò che può essere ricondotto ad una qualche idea di sinistra. Radicale è stato anche il distacco dai mondi sociali che della sinistra dovrebbero costituire il naturale punto di riferimento.
ESISTE UN ELETTORATO di sinistra disperso e silenzioso, che avrebbe bisogno di trovare nuovi punti di riferimento e nuovi motivazioni, anche solo per tornare a votare. Ed esiste un partito di centro, il Pd, che il suo leader megalomane ha privato di un qualsiasi sistema di alleanza, e che tende a guardare a destra. In queste condizioni, parlare ancora di centrosinistra crea solo incertezza e disorientamento. E del resto (come ha fatto notare giustamente D’Alema all’assemblea romana di Mdp), che senso avrebbe avuto una scissione, se si pensa di ritrovare una base politica comune? Le prossime elezioni saranno un terreno di scontro molto aspro: solo dopo, a conti fatti, si potrà vedere se e come saranno possibili accordi e mediazioni.
A questo punto, qualcuno obietta: si rischia una sinistra di testimonianza, minoritaria, destinata all’irrilevanza. È un rischio, certo, ma può essere scongiurato. Una lista unitaria della sinistra si deve caratterizzare per un suo orizzonte ideale e per un suo programma di governo; ma anche per una precisa opzione politica: dichiarare apertamente la piena disponibilità a mettere in gioco la forza che gli elettori le vorranno dare per contrattare un possibile programma di governo (qualora, ovviamente, ce ne siano le condizioni numeriche). Questa disponibilità non deriva solo dalla probabilità che un nuovo governo possa formarsi solo sulla base di accordi in parlamento: è una strategia politica che si rivolge agli elettori del Pd e del M5S per incalzare queste forze politiche e metterne a nudo le ambiguità. Ed è un atteggiamento politico in grado di esprimere una proiezione egemonica, evitando il pericolo di un auto-confinamento in una posizione minoritaria e ininfluente.
MOLTI SI RICHIAMANO all’esempio positivo di Padova. Ma, appunto, è un caso che dimostra come la famosa «doppia cifra» si può raggiungere a due condizioni, una proposta autonoma e originale e un messaggio forte agli elettori: ci siamo, vogliamo governare, e non abbiamo timore di mediare e contrattare con altre forze (come dimostra l’alta partecipazione al voto e l’esito del ballottaggio, l’elettorato che si è riconosciuto nella coalizione civica padovana non ha per nulla esitato nell’esprimersi a favore di una coalizione, costruita dopo il primo turno).
Il sistema politico italiano sta cambiando rapidamente. È saltato lo schema che voleva ingabbiare tutto in un astratto e artificioso bipolarismo. Le culture politiche degli italiani si esprimono già attraverso una più articolata distribuzione lungo l’asse destra-sinistra: una destra xenofoba e nazionalista, una destra conservatrice, un’area centrista moderata (forse), un partito di centro (il Pd), una (potenziale) area di sinistra. E poi, naturalmente, il M5S: una forza politica che finora ha goduto di una comoda rendita di posizione, catalizzando le più svariate ragioni di risentimento sociale, ma che – in un diverso scenario competitivo – non è detto riesca a mantenere queste caratteristiche.
In tale contesto, attardarsi a parlare di coalizioni preventive non ha senso. Ancor meno senso ha, come ha fatto Prodi, invocare sistemi elettorali che le prevedano, per evitare la «frammentazione», come se non fossero stati proprio i sistemi maggioritari a esaltare il potere di veto dei piccoli gruppi (e Prodi dovrebbe saperlo!). No, è tempo di tornare ad offrire agli elettori proposte politiche chiare, con una loro identità e autonomia. Una lista unitaria non è un escamotage per aggirare le soglie: è una precondizione, necessaria anche se non sufficiente, perché l’elettorato di sinistra possa tornare a sperare di avere una voce.