Inutile girarci intorno. Possiamo confrontare il numero dei Comuni in cui vince il centro-sinistra o il centro-destra, mettere insieme comuni grandi e piccoli o fare altre alchimie – Renzi ci ha già provato – ma il senso di queste elezioni è netto: ha vinto il centro-destra, soprattutto ha perso il centro-sinistra, più precisamente, è stato sconfitto il Partito Democratico.
Perché un inizio così netto e drastico? Perché quello che è accaduto era scritto nella storia degli ultimi anni ed è la conseguenza di due fenomeni ben noti: astensionismo e sistemi con ballottaggio nelle realtà non più bipolari.
Se nei sistemi bipartitici o bipolari l’elettore si trova a scegliere tra il partito in cui si riconosce ed il partito avversario, in un sistema tripolare o multipolare gli elettori che non si riconoscono tra i due contendenti sono spinti in gran parte ad astenersi e per il resto a votare contro il partito più nemico. Questo produce una mutazione della stessa natura dell’atto elettorale: dal voto per al voto contro, dal voto per simpatia a quello per antipatia. Il fenomeno era stato evidente già nelle elezioni comunali di Roma e Torino. E non è bastato che Renzi non si presentasse nelle piazze dove si votava. Serviva forse un passo in più.
Oltretutto si è aggiunto un altro fattore che ha influito sul voto. Dopo il 4 dicembre siamo entrati in una fase di ristrutturazione delle forze politiche italiane che sta interessando soprattutto il campo che va dal centro alla sinistra.
In questa fase si sono collocati il congresso «incompiuto» del Pd, la fuoriuscita da esso di tanti iscritti e dirigenti di valore, il congresso che ha visto Sinistra Italiana subire una scissione prima di nascere, e, più di recente, i movimenti di Art.1, di Pisapia e di Falcone e Montanari.
Un grande fermento, insomma, che produrrà, speriamo, effetti positivi, ma che oggi non ha aiutato perché le elezioni sono intervenute a «lavori in corso». Mentre, cioè, emergono le macerie che dobbiamo rimuovere, ma non appare chiaro cosa vogliamo costruire e come e mentre i direttori di cantiere che si presentano sono guardati con sospetto.
Le prossime tappe del processo di ristrutturazione – legge elettorale e di conseguenza schieramenti ed alleanze – saranno decisive. E per tutti.
Il processo riguarda anche il centro destra, ma esso opera col vento in poppa del populismo che indica nel migrante il nemico e nel protezionismo la risposta al bisogno di sicurezza che la crisi della globalizzazione produce.
A sinistra il processo è, invece, più complesso: non dobbiamo smarrire i nostri valori – accoglienza, diritti civili e sociali – ma abbiamo un bisogno urgente di «fare opinione», mobilitare, unire, conquistare, costruire convergenze, individuare resistenze ed avversari.
Allora più che parlare di schieramenti ed alleanze la «Costituente della sinistra» dovrebbe fissare le nostre parole chiave. Eguaglianza, lavoro, garanzia di reddito debbono essere declinati per farli diventare nostri obiettivi precisi, condivisi e visibili, sui quali aggregare persone, società civile, organizzazioni.
Ma abbiamo bisogno anche di indicare e far emergere le resistenze che troveremo, che dovremo contrastare ed i soggetti che le rappresentano: l’economia finanziaria, le banche, i grandi patrimoni, i grandi profitti dei nuovi padroni dell’economia digitale, i poteri e le corporazioni che bloccano la mobilità sociale e perpetuano stratificazioni economiche e sociali che bloccano speranze ed ambizioni dei giovani.
Insomma di fronte al rischio che ciascuno scarichi il suo malessere su quello che gli sta a fianco o sotto, dobbiamo ricostruire una gerarchia di ruoli e responsabilità perché in una società che cresce poco non ci potranno essere più uguaglianza e più lavoro senza progressività e redistribuzione.
Il voto ci chiama a fare una sinistra nuova, ma più radicale. Quello che in altri paesi dirigenti – vecchi o nuovi che siano – stanno cercando di fare.