La voce ironica che difendeva tutti. Per strada lo chiamavano “presidente”. Gli italiani lo avrebbero voluto al Colle
di Tomaso Montanari
Presidente Libertà e Giustizia
Il Fatto 24.6.17
Si serra la gola alla notizia che non ascolteremo più la voce ferma, affettuosa e ironica di Stefano Rodotà. E si sente che da oggi, senza quella voce, siamo ancora un po’ meno sovrani: un po’ più indifesi, più soli, più fragili. Quando capitava di camminare per strada in sua compagnia, invariabilmente succedeva che un cittadino si avvicinasse per salutarlo chiamandolo ‘presidente’. E non si riferiva alle sue tantissime presidenze (per esempio a quella del Partito democratico della Sinistra, in un’epoca politica che oggi sembra remotissima), ma al fatto che per molti, per molti di noi, Stefano Rodotà era il presidente morale della Repubblica. Non c’erano polemica, o faziosità in questo dolce legame sentimentale: c’era invece un profondo senso di gratitudine. Tutti ricordiamo quell’aprile di quattro anni fa, in cui il nome di Rodotà risuonò per 217 volte nell’aula di Montecitorio dove si eleggeva il Capo dello Stato. E a ogni lettura l’immaginazione correva verso un’altra Italia: un’Italia più libera, più dignitosa, più solidale. L’Italia della Costituzione e del popolo sovrano.
L’Italia che tante volte è scesa in piazza per questa Costituzione e questa sovranità: e Libertà e Giustizia ricorda con profonda gratitudine, tra tante occasioni di incontro e lotta comune, la presenza di Stefano alla grande manifestazione romana dell’ottobre del 2013 per difendere la “via maestra” della Costituzione.
Il Rodotà politico era la naturale – ma quanto coraggiosa! – conseguenza dello studioso che non ha usato la sapienza del diritto per rendere più potenti i detentori del potere, ma per restituirne un po’ agli oppressi, agli ultimi. Se dovessi indicare il nucleo della sua altissima lezione direi che ci ha insegnato – sono parole sue – “l’irriducibilità del mondo al mercato”. La più essenziale delle lezioni di cui ha bisogno il mondo di oggi.
Tra i beni comuni che è vitale sottrarre alla dittatura del mercato, Rodotà ne indicava uno modernissimo quanto essenziale: la Rete. “In questo spazio – ha scritto – tutti e ciascuno acquistano la possibilità di prendere la parola, acquisire conoscenze, creare idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, discutere, partecipare alla vita pubblica, costruendo così una società diversa, nella quale ciascuno può rivendicare il suo diritto ad essere egualmente cittadino. Ma questo diviene più difficile, se non impossibile, se la conoscenza viene recintata, affidata alla pura logica del mercato, imprigionata da meccanismi di esclusione che ne disconoscono la vera natura e così mortificano una ascesa che ha fatto della conoscenza in rete il più evidente dei beni comuni”. Tra i tanti diritti al cui studio e alla cui difesa Rodotà ha dedicato una lunga vita felice è forse proprio il diritto alla conoscenza quello che oggi appare il fondamento più essenziale, e insieme più fragile, della nostra democrazia.
Il modo migliore per ricordare questo nostro grande amico, per provare ad essergli grati, è continuare a lottare per costruire, con le sue parole e le sue idee, “una società diversa”.
Caro professore, perché questo sei stato per tanti di noi, ora che ci lasci capiamo ancora di più quanto ci mancherai e quanto mancherai a tutto il paese. Nella nostra vita abbiamo conosciuto poche persone con il tuo profondo senso della democrazia.
Sarebbe riduttivo sostenere che hai insegnato molto agli italiani nelle battaglie in difesa dei diritti civili e sociali. Perché quel di più che ci hai trasmesso è stata l’importanza della parola «cittadino» accompagnata all’alto senso delle istituzioni. Il binomio cittadino – istituzioni ha caratterizzato il pensiero e l’insegnamento che tu, maestro di libertà, hai portato nella vita politica e culturale, dentro e oltre i confini nazionali.
Da questo punto di vista il tuo essere di sinistra ha marcato una differenza rispetto alla cultura marxista e a quella radicale che pure ha avuto grande importanza nella tua esistenza. Nella cultura marxista sei riuscito a infondere il valore fondamentale dei diritti civili che, ai tempi del Pci, erano praticamente sotto traccia. Invece al mondo radicale hai saputo trasmettere la necessità di impegnarsi anche per le lotte sociali.
Senso delle istituzioni, ruolo del cittadino, lotte per il lavoro, temi etici e diritti civili: tutto questo ti appartiene – e grazie a te ci appartiene, rendendoti perciò unico nella cultura democratica italiana.
Ma c’è un’altra cosa di cui sei stato interprete: il rispetto per l’altro.
Nella politica nazionale questa disponibilità a capire le ragioni altrui è sempre stata una rarità perché hanno prevalso gli interessi di parte (e di partito), le lotte di potere, gli schieramenti… Da questi giochi preferivi restare lontano scegliendo di impegnarti sui valori, sui principi e sull’interesse generale.
Per tutte queste ragioni siamo convinti saresti stato un grande presidente della Repubblica, in particolare perché avresti difeso – in nome non di un passato storico, ma di una necessità per il presente e per il futuro – i fondamenti della Costituzione.
È con dolore che ti diciamo addio, caro professore, consapevoli del fatto che lasci una eredità culturale, giuridica, intellettuale e politica diventata bene comune per la sinistra e per la democrazia.
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20/06/2017 – Flash mob martedì mattina in centro a Faenza in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. Vestiti con una maglia rossa, coordinati dall’associazione Farsi Prossimo – Caritas Diocesana di Faenza e Modigliana e dalle altre realtà che si occupano di accoglienza di richiedenti asilo sul nostro territorio, come Asp e Cooperativa Zerocento, un gruppo di immigrati, uomini, donne, bambini di diversa nazionalità, ha simulato un viaggio della speranza attraverso il mar Mediterraneo, a bordo di gommoni, dotati unicamente di teli protettivi per combattere il freddo..... LEGGI TUTTO su Faenza webtv
Commenta (0 Commenti)Sinistra. Mai col Pd? Su questo ho un dubbio, in quel corpo storico c’è una memoria che coinvolge ancora molti giovani, protagonisti anche all’assemblea della nuova Alleanza
Se ci fosse stato ancora bisogno di dimostrare che i grandi giornali hanno smesso di raccontare quello che succede per dar spazio solo ai dettagli che servono a corroborare la loro linea politica, l’assemblea del Brancaccio rappresenterebbe la migliore prova. Qualche migliaio di persone, protagonisti molti giovani (di per sé una notizia), 40.000 che seguono in streaming, decine di interventi che raccontano l’Italia invisibile alla vecchia politica ufficiale ma che esiste ed è ricca.
La vera salvezza di una democrazia altrimenti ridotta a povera cosa: comitati di base che si occupano di ambiente, migranti, scuola, solidarietà, lavoro, guerre. Questo è stato soprattutto l’assemblea di domenica, e di questo non una parola è comparsa sui quotidiani. Chi ha accennato all’evento è stato solo per misurare la distanza fra il teatro Brancaccio e Pisapia, che – diciamo la verità – non è “odiato” perché vuole unire, ma perché nessuno sa ancora chi rappres+enta e cosa vuole. (Non basta aver fatto bene il sindaco di Milano per proporsi come leader di una nuova sinistra).
NON È UNA LAMENTELA, è l’ennesima drammatica prova che in Italia chi gestisce il potere, istituzionale e mediatico, non ha capito che qualcosa di grave è accaduto in questi ultimi decenni: la perdita di credibilità dei partiti e dei tradizionali corpi intermedi, ormai largamente incapaci di rappresentanza sociale e privi del loro tradizionale ruolo di organizzatori della partecipazione, ha prodotto una disaffezione per la democrazia gravida di possibili nefaste conseguenze.
La prima delle quali è il deliberato tentativo di sostituirla con l’accentramento del potere decisionale nelle mani di una governance che si vorrebbe neutrale (questa era la sostanza della posta in gioco del referendum costituzionale, e questa la principale ragione dell’opposizione al Pd di Renzi). Ebbene l’iniziativa di Falcone e Montanari prende le mosse da questa realtà per cercare di rigenerare la politica, e dunque la democrazia, ripartendo da quanto c’è di vivo: quelle forme di “cittadinanza attiva” che hanno dato vita ai tanti comitati di lotta sul territorio e, ultimamente, a coalizioni che le hanno raccolte a livello cittadino per tentare un nuovo tipo di presenza nelle istituzioni.
RAPPRESENTANO di per sé una compiuta alternativa di governo? Certo che no, ma indicano che ci sono forze che stanno costruendo le condizioni per ricostruire una rappresentanza democratica e così ridare legittimità alle istituzioni. Il dialogo con le aggregazioni che sono nate dallo sfaldamento del Pd si fa su questo, evitando le scorciatoie del leaderismo (un “grimaldello” cui abbocca anche qualche pezzo della sinistra); così come la sacralizzazione di una società civile buona e innocente e la demonizzazione dei partiti.
Su questi punti Montanari è stato chiarissimo: senza i partiti non c’è democrazia, la nostra Costituzione resterebbe monca. E chiarissima è stata Marta Nalin, la rappresentante della coalizione civica di Padova (23 % alle ultime comunali): «Reinventare i corpi intermedi, senza demonizzare i partiti e senza santificare la società civile».
FALCONE E MONTANARI HANNO indicato un percorso, non ancora la fondazione di un nuovo partito: questa è stata la loro sfida coraggiosa e intelligente. Fra i partiti esistenti ha raccolto l’adesione impegnata di Sinistra Italiana, ma, nonostante le sue consuete recriminazioni e diffidenze, anche di Rifondazione. E ha ricevuto attenzione anche da Articolo 1, sia pure, come è ovvio, ancora titubante. Perché, sia pure in modi diversi, tutti si rendono conto che siamo in una fase di trasformazione epocale e lontani ancora dall’aver raggiunto la maturità politica e culturale per indicare una compiuta strategia all’altezza dei problemi posti dal nuovo mondo.
Il Brancaccio registra la consapevolezza di questa insufficienza, salva i partiti esistenti come essenziali laboratori politici per forze che hanno già riscontrato una propria omogeneità di ispirazione e che però, per ora, si propongono di lanciare la sola sfida possibile in questa fase di transizione: quella di una risposta unitaria nelle prossime scadenze di lotta e istituzionali, una «Alleanza – come è stato detto – per l’uguaglianza e la democrazia».
Grazie dunque alla buona volontà di Anna e Tomaso, come sono stati ormai amichevolmente chiamati da tutti. Hanno avuto il merito di non farsi risucchiare, come purtroppo ancora tanti, dal «non c’è niente da fare», come se stando a casa, ognuno per conto proprio, se ne potesse poi uscire con una soluzione. Già declinare il “noi” e riprendere a riflettere assieme è una conquista.
NON POCHI DEGLI ABITUALI pessimisti (gli anziani, i giovani per fortuna non sono reduci di tante sconfitte) hanno osservato che di belle assemblee unitarie come questa del Brancaccio ce ne sono state tante negli ultimi 20 anni. E’ vero. Ma c’è un dato fondamentale che i promotori dell’iniziativa hanno capito: che il tempo attuale è molto diverso. Più pericoloso ma anche più consapevole dell’urgenza di una svolta rispetto a quanto è stato fatto in questi anni da chi ha governato e da chi è stato all’opposizione. Questa è la ragione per cui oggi si può ricominciare a proporsi un’alternativa.
I FISCHI (NON POI TANTISSIMI, anche se deprecabili) a Gotor sono un segno delle diffidenze che questi difficili decenni che ci stanno alle spalle hanno creato. Non ci si può illudere che settarismi e estremismi, di cui anche il Brancaccio ha dato prova, potranno esser superati facilmente. Tocca a tutti ripensare se stessi e la propria parabola di questi anni: l’unità non si fa a partire da quel che siamo, ma da quello che ci si propone di diventare, ed è su questo che ci si confronta, se necessario anche duramente.
Mai col Pd, come ha detto Montanari? Ecco, su questo, solo su questo, un dubbio, ma forse siamo in realtà d’accordo: per quanto esangue, io credo ci sia ancora un corpo storico che viene dall’ormai dimenticato Pci, non solo vecchi ma anche una memoria, certo un po’ sbiadita, che coinvolge anche più giovani. Io credo che non dobbiamo ignorarli.
ULTIMO PROBLEMA: COME SI prosegue ora? Spero che nessuno si immagini che ci sarà un fantastico centro promotore di organizzazione dalle Alpi alla Sicilia. Bisognerà cercare di crearlo, ma questa nostra nuova sinistra deve soprattutto imparare a “fare da se”: ad ogni singolo militante in ogni singolo territorio l’onere e l’onore di promuovere l'”Alleanza”, e ogni altra forma di partecipazione che consenta a chi se la sente di costruirla. Reimparando a confrontarci, passo per passo, con gli altri compagni dell’avventura collettiva che abbiamo deciso di correre. Ripartire dai territori non vuol dire tornare all’Italia dei Comuni, ma all’Europa.
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Sinistra. Costruire nuova rappresentanza fuori dai giochi autoreferenziali della politica
C’è una spaccatura profonda, a sinistra. Ma non è quella tra le sigle, i nomi, i cartelli: è quella tra chi è dentro il gioco autoreferenziale della «politica» praticata e chi ne è fuori. Una spaccatura che contribuisce in modo decisivo ad allargarne una ancora più profonda: quella tra chi vota e chi non vota più.
Per questo gli interventi centrali dell’assemblea di domenica al Brancaccio sono stati, per me, quelli di Andrea Costa (Baobab) e Giuseppe De Marzo (Rete dei numeri pari, Libera).
Hanno fatto capire come non esista più nessun rapporto tra il loro lavoro quotidiano (politico, se ce n’è uno) e l’idea stessa di rappresentanza parlamentare. Detto in altri termini: chi ogni giorno davvero cambia lo stato delle cose a favore degli ultimi, cioè chi riduce concretamente le diseguaglianze, ha ormai messo la croce sull’idea stessa di incidere sul processo democratico.
La proposta che Anna Falcone ed io abbiamo fatto è quella di portare quel mondo in Parlamento. Di riannodare i fili tra questa sinistra delle cose e i partiti (come Sinistra Italiana e Possibile) che combattono la stessa battaglia, ma che da soli non bastano.
La partecipazione e la rappresentanza come strumenti per costruire eguaglianza.
Non per caso queste due cose sono intrecciate nell’articolo 3 della Costituzione, che abbiamo eletto a bussola di questo processo. E invece sono anni che giochiamo al bricolage dello Stato avendo rinunciato allo Stato, che è il bene comune da cui dipendono tutti gli altri beni comuni.
I giornali ne parleranno solo quando questo processo sarà diventato inarrestabile: ed è a questo che stiamo lavorando.
Per ora di cosa parlano, i giornali? Del risiko di cui sopra. Le cui coordinate fondamentali, se ho ben capito, sono le seguenti: per una parte del gruppo dirigente fuoriuscito dal Pd è difficile tornare sotto l’ombrello di Matteo Renzi. Ma (come avverte Michele Serra) bisogna che questa «sinistra» stia con Renzi, perché sennò non va al governo.
Quale la via d’uscita? Eccola: Giuliano Pisapia otterrà «discontinuità». Una volta ottenuta, si tornerà al centro-sinistra unito, dove il centro è il Pd di Renzi.
Lo schema è ancora Bertinotti-che-condiziona-a-sinistra-Prodi: ma con Pisapia e Renzi. Cioè tutto uguale, anzi tutto incredibilmente spostato a destra. Se il finale sarà questo vedremo un’astensione record e un Movimento 5 Stelle di nuovo al comando.
Noi diciamo: un’altra strada è possibile.
Abbiamo detto con forza che l’obiettivo dovrebbe essere costruire rappresentanza. E abbiamo provato a spiegare perché non ci convince più la retorica della governabilità, della sinistra maggioritaria, della sinistra di governo.
Intendiamoci: la sinistra (intesa come coloro che hanno interesse a redistribuire la ricchezza) è maggioritaria nelle cose perché, come dicevano a Zuccotti Park, «siamo il 99%». Ma la realtà è che in questi ultimi vent’anni la sinistra italiana ha scambiato i fini con i mezzi: il governo è diventato un fine, e ci siamo dimenticati a cosa serviva, governare. «Ci siamo dimenticati dell’uguaglianza», ha scritto Romano Prodi nel suo ultimo libro.
Domenica ho fatto una lista (parziale) di ciò che dobbiamo al centro-sinistra: riscritture della Carta votate a maggioranza; chiusura sull’immigrazione; precarizzazione del lavoro; privatizzazioni, liberalizzazioni, alienazioni di patrimonio pubblico; deliberata assenza di una legge sul conflitto di interessi; smantellamento finale della progressività fiscale; federalizzazione dei diritti; e, sì, anche una guerra costituzionalmente illegittima (non ho detto illegale) che rappresenta il contributo dell’Italia alla stagione delle «operazioni di polizia internazionale».
Per essere chiari: tutto questo precede Renzi. E serve a dire che il problema sarebbe stato immenso anche se fossimo ancora al governo Letta.
Renzi ha rappresentato un salto di quantità mostruoso, ma non una discontinuità di politiche. Si può dire che le sue scelte – continuate, salvo dettagli, da Gentiloni – radicalizzano un processo ventennale che ha fatto dell’Italia il paese europeo in cui la diseguaglianza è maggiormente cresciuta. Che è esattamente il processo per cui la Sinistra si è ridotta al nulla, e metà del Paese, quella sommersa, non vota più.
Ecco: deve essere chiaro che la rotta è invertita. Che la rotta è diametralmente opposta a tutto questo.
Al netto di qualche fischio, il messaggio dell’assemblea di domenica è che l’unico modo per fare davvero unità a sinistra è proprio invertire la rotta, e puntare ad un orizzonte diverso. Per farlo ci vuole un processo aperto a tutti coloro che vogliono condividere una nuova rotta: quella (per esempio) dell’articolo 18, di una vera progressività fiscale, di una seria tassa patrimoniale, di una strutturata politica di accoglienza dei migranti, di un consumo di suolo zero, di una scuola pubblica e un’università non aziendali, di una tutela pubblica del patrimonio culturale.
Spero che saremo in tanti: perché se l’obiettivo è costruire (come dice Corbyn) «a country for the many, not the few», allora ci vuole una sinistra di tutte e di tutti.
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