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Catalogna. La minaccia indipendentista è diventata il nemico perfetto di cui aveva bisogno il governo per continuare indisturbato il massacro sociale e ambientale e le sue politiche di corruzione. L’esile speranza di fermare questa corsa verso il precipizio è legata alla capacità di variare gli obiettivi e l’orientamento delle mobilitazioni

 

A seguito della dichiarazione della Repubblica Catalana il consiglio comunale di Girona si è riunito e ha dichiarato il re Felipe VI persona non grata. Mentre il consiglio generale della Valle di Arán – diecimila abitanti che parlano occitano – si riunirà lunedì per decidere l’indipendenza dall’indipendenza, perché la maggioranza della valle vuole rimanere in Spagna.

 

Intanto Pablo Iglesias affida a tre tweet le sue considerazioni sulle dichiarazioni di Rajoy e la convocazione delle elezioni in Catalogna: 1) si deve garantire che il processo elettorale si svolga senza repressione e con il coinvolgimento di tutte le opzioni politiche presenti.

2) continueremo a difendere l’idea che la Catalogna resti in Spagna per contribuire ad un progetto di paese plurinazionale, solidale e fraterno. 3) continueremo a difendere il dialogo e la proposta di un referendum legale e concordato come migliore soluzione alla crisi catalana.

L’indipendenza è il bene. Insomma nulla di nuovo. Anche la sindaca Ada Colau non si stanca di ripetere che è un errore rinunciare a quell’80% a favore di un referendum concordato, per un 48% a favore dell’indipendenza. E dichiara di stare dalla parte di chi costruisce nuovi scenari di autogoverno che diano più democrazia, non meno.

Ripete che lei lavora per una femminilizzazione della politica che vuole l’empatia come pratica per costruire consensi in cui le diversità siano un valore aggiunto.

In dissonanza con le scelte prese da due minoranze che precipitano la Spagna al bordo di un abisso, proprio spaccando la convivenza tra le diversità.

L’avventura secessionista catalana per ora è un grande regalo a Rajoy, capo del partito politico più corrotto dell’Ue, ma che invoca sempre il rispetto della legge. E che la farà rispettare a qualsiasi costo, ripristinando il suo ordine e la sua legalità. E che nessuno si illuda, l’applicazione del 155 non si fermerà alla Catalogna, ma si estenderà ad altre autonomie, come già invocano dal Pp per le regioni di Euskadi, Navarra e Castilla-La Mancha.

Per riformare sì la costituzione del ’78, ma secondo il disegno che hanno in testa il Partito Popolare e le destre. Che potrebbe essere quello di incorporare e attuare anche l’articolo 116 che parla di poteri eccezionali e il coinvolgimento dei militari per garantire l’ordine costituzionale.

Un aiuto agli indipendentisti l’ha dato il Psoe. Poteva, appoggiando la piattaforma di Zaragoza, dare un corso diverso alle cose e sfiduciare il Pp e le destre, dando forza all’idea della Spagna plurinazionale attraverso un referendum concordato. Invece no, ma anche peggio.

Perché nella stessa seduta del congresso che, tra applausi e grida di giubilo, ha deciso di avviare l’applicazione del 155, è stata votata – con l’astensione dei socialisti, come da accordi – l’approvazione del trattato Ceta, l’accordo commerciale liberista tra la Ue e il Canada.

E se la ride Rajoy ora che la notizia dell’anno, l’implicazione del suo Pp nella più grande opera di corruzione europea, è stata eclissata dalla Repubblica Catalana e volutamente dimenticata dai principali mezzi di comunicazione.

La minaccia indipendentista è diventata il nemico perfetto di cui aveva bisogno il governo per continuare indisturbato il massacro sociale e ambientale e le sue politiche di corruzione. Politiche a favore delle loro vere patrie, quelle off-shore ed esentasse.

È indispensabile una nuova ondata di indignazione che non lasci le strade delle città a chi verrà mobilitato in difesa della Dui, cavalcando l’odio sociale contro i Borboni, o da chi lo farà in difesa della unità di Spagna, su cui non può che crescere la peggiore destra fascista.

L’esile speranza che ancora c’è di fermare questa corsa verso il precipizio è legata alla capacità di variare gli obiettivi e l’orientamento delle mobilitazioni. O se ne conquista l’egemonia, togliendola alle forze indipendentiste da un lato e alle destre dall’altro, o la sconfitta sarà inevitabile.

Spazio per riuscirci c’è. Si è visto nello sciopero generale, autoconvocato da una rete di organizzazioni sociali, sindacati, imprenditori e collettivi di base, per manifestare contro la repressione del referendum. C’è spazio per una mobilitazione per una Catalogna sovrana che si riconnetta con la Spagna del 15M che ha sempre gridato per la democrazia a Madrid, per cacciare gli autoritari e i corrotti dal palazzo della Moncloa.

Una opportunità per lottare contro la finanza illegale, l’applicazione selvaggia dell’articolo 155, contro i lacchè di banche europee che hanno distrutto la sanità e l’istruzione spingendo la Catalogna in una avventura senza legittimità democratica. Questa è la sfida per Unidos-Podemos e la sua rete di alleanze e per Sí que es pot, il partito di Ada Colau. Così le elezioni catalane potrebbero essere un boomerang per chi le ha imposte.

 

 

 

 

 

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21 ottobre 2017

|Di Bruno Ugolini

Susanna Camusso nella sua prima intervista a strisciarossa fa un bilancio degli incontri e della trattativa con il governo di Paolo Gentiloni sui contenuti della legge di Stabilità. Il giudizio è nettamente negativo: non vedo passi avanti, dice. Il sindacato, pensando alle esperienze del recente passato con il governo Renzi, è sicuramente di fronte a un atteggiamento diverso, meno strafottente ma privo di risposte positive. “Siamo a valle di una scommessa politica persa” dice la segretaria della Cgil che non vede all’orizzonte una nuova strategia politica dopo quella, fallita, del referendum costituzionale. E sulla sinistra Camusso denuncia un “vuoto” e una “distanza” e auspica un lavoro di ricostruzione dal basso: “Senza la partecipazione e il coinvolgimento dei cittadini non c’è sinistra”.

Le risposte del governo sulla legge di stabilità rappresentano un cambiamento rispetto al passato, come qualcuno dice? C’è stata un’apertura, ad esempio con il via al rinnovo del contratto del pubblico impiego?

Deve essere chiaro che il blocco di quei contratti finirà quando verranno davvero rinnovati. L’accordo sul contratto dei pubblici avvenne prima del famoso referendum del 4 dicembre 2016. E la novità introdotta dal governo sta nella soluzione trovata rispetto agli 80 euro. Per il resto il governo Gentiloni mi pare si stia muovendo in continuità con quanto fece il governo Renzi. Certo c’è un atteggiamento meno strafottente nel rapporto con le parti sociali. Resta il fatto, però, che questa legge di bilancio è priva di qualunque idea sulla prospettiva. Penso alla sanità, alle pensioni, ai giovani, agli investimenti. Con l’esecutivo, in definitiva, abbiamo una valutazione differente sullo stato del Paese. Noi pensiamo che la ripresa che c’è, sia pure in termini ancora ristretti, non sia frutto di un risanamento strutturale.

Il confronto col governo Gentiloni è stato fallimentare su giovani e su anziani?

Il governo, per i giovani, si era impegnato a creare una pensione di garanzia. L’hanno completamente cancellata. È grave perché soluzioni per i giovani non le costruisci quando andranno in pensione. Eppure si poteva pensare a creare uno strumento che, senza costi immediati, potesse intervenire sulle pensioni di ragazze e ragazzi coprendo la discontinuità contributiva. Allo stesso modo si sono contraddetti sulla necessità di riformare la legge Fornero. Con due effetti: programmare l’impoverimento del Paese e destabilizzare la previdenza. Uguale sorte hanno avuto le richieste sulla tutela previdenziale del lavoro di cura delle donne.

Non siamo più ai tempi della concertazione. C’è stato però un minimo di dialogo?

La forza della concertazione stava nella condivisione di obiettivi per il Paese. Penso alla politica dei redditi, alla scelta di entrare in Europa. Eravamo di fronte a orizzonti strategici. Certo, ci sono fatti importanti come l’impegno di quattro ministri sull’attuazione della legge sul caporalato che la Cgil ha fortemente voluto, e sul rafforzamento delle prevenzione oltre che della repressione del fenomeno, ma, nel complesso, il lavoro per il governo non rappresenta un orizzonte verso cui dirigersi.

Manca, par di capire, un disegno complessivo…Siamo in presenza quasi una specie di tirare a campare?

Si, siamo a valle di una scommessa politica persa, che ha puntato tutto su quel cambiamento della Costituzione che gli italiani hanno fragorosamente respinto al mittente e mi sembra che la politica non sia in grado di elaborare una strategia di medio lungo periodo.

Cade in questa stagione anche la vicenda dell’attacco al governatore della Banca d’Italia. Come la giudichi?

Si è coinvolta la Banca d’Italia in una lotta politica per la premiership che ha gravemente danneggiato le istituzioni.

Esiste comunque, alle spalle, il problema che investe tante banche e tanti risparmiatori…

Possiamo dire che la Banca d’Italia non li abbia denunciati? No, non possiamo. L’attacco al Governatore di Banca d’Italia mi sembra un tentativo per cercare un capro espiatorio. E’ come se si dicesse: non voglio permettere che i 5 Stelle facciano la campagna elettorale sugli scandali bancari e sui legami che hanno con la politica e quindi indico un colpevole.

Passiamo al sindacato. Quali esempi potresti indicare di una Cgil che in questa fase complicata rinnova se stessa anche nel modo di agire sindacale?

C’è, ad esempio, una categoria come la Flai (lavoratori agroindustria) con le esperienze del “sindacato di strada”. E’ un modo per cambiare profondamente l’impostazione, con tutte le difficoltà che questo comporta, aprendo una serie di contraddizioni nuove. Ad esempio l’impegno sul lavoro dei migranti li ha portati a discutere sulle differenze di retribuzione tra lavoratori europei e africani, a ricostruire una solidarietà. Siamo di fronte a problemi inediti. Non è certo la riedizione della antica lega dei braccianti. Vediamo così compagni e compagne che si mettono a studiare lingue diverse per poter interloquire con i lavoratori. Le stesse modalità con le quali abbiamo affrontato la costruzione della carta dei diritti hanno rappresentato uno straordinario esempio di rapporto con la gente, di ascolto e di elaborazione collettiva.

Tra i terreni del rinnovamento c’è quello del cosiddetto lavoro 4.0. Hai lanciato, nel corso di un apposito convegno uno slogan: “contrattare l’algoritmo”. Che significa?

Dietro l’economia delle applicazioni, ovvero quei programmi che sempre più spesso regolano la vita lavorativa delle ragazze e dei ragazzi che operano nel commercio o nei servizi, ma pure in quei cicli produttivi che hanno necessità di rielaborazione rapida dei dati, compare sempre più spesso un’entità che si vuole presentare come oggettiva e intoccabile: l’algoritmo, un nuovo controllore dei tempi, dei metodi , delle prestazioni, della regolazione e del comando aziendale. E’ considerato intoccabile, automatico. Nessuno può metterci le mani. Per riconquistare una capacità di intervento bisogna cominciare dalla destrutturazione di questo mito. L’algoritmo non è oggettivo. È organizzato sulla base degli obiettivi produttivi che si vogliono ottenere. Determina così anche la condizione delle persone. E allora bisogna poter stabilire quali sono queste condizioni, dagli orari ai carichi di lavoro. Bisogna conoscere come è fatto, come opera e bisogna riuscire a metterlo in discussione, contrattarlo.

La Cgil in questa che si annuncia come una campagna elettorale non certo serena, come si comporterà? Non c’è il rischio di una scomparsa in Parlamento di rappresentanze di sinistra e che vinca la coalizione di destra?

La storia di questi anni è fatta da un continuo interrogarsi, qui come nel resto d’Europa, sulla rappresentanza politica del lavoro. Ciò che caratterizza un pensiero di sinistra dovrebbe essere il contrasto delle diseguaglianze, la costruzione di una società più equa. La stessa crisi è figlia di quelle diseguaglianze. Avere una sponda su queste tematiche è fondamentale per il sindacato. Per mantenere una sintesi confederale e non scivolare sistematicamente nel corporativismo la Cgil ha fatto in questi anni delle scelte (la carta dei diritti, i referendum) che sono esattamente figlie anche di un’altra scelta, di un intervento con gli strumenti della politica. La strada è quella dell’autonomia progettuale della Cgil.

Sono tutte implicazioni che dovrebbero spingere verso un nuovo approccio alle tematiche del lavoro anche la sinistra politica. Una sinistra che compare e scompare, a giorni alterni. E’ così?

Ho speso la mia vita oltre che nel sindacato confederale, anche nell’essere donna di sinistra. Non c’è dubbio che c’è un vuoto. Non c’è dubbio che c’è una distanza. E’ la conseguenza dell’aver progressivamente ristretto gli spazi di partecipazione. Continuo a considerare sbagliata l’idea di affidare tutto a interventi virtuali. Credo che ci sia bisogno di strutture capaci di trovare un collegamento con le persone. Credo che sia complicato ricostruire una sinistra se non ci si pone questo tema. Non è solo una questione che riguarda il posizionamento parlamentare. E’ una sollecitazione che riguarda anche noi: il sindacato non c’è se non ci sono i lavoratori. Così la sinistra non c’ è se non ci sono cittadini che partecipano. E se non c’è una costruzione, con loro, di un orientamento, di un’opinione, di una priorità.

 

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Alla vigilia, il 13 ottobre, dello sciopero (indetto dall'Unione degli studenti) della e sulla alternanza scuola/lavoro riprendiamo il tema con un articolo di Alba Sasso pubblicato su "il Manifesto" dell' 11 ottobre 2017

Spreco e confusione nell’alternanza scuola-lavoro
di Alba Sasso

McDonald e Zara i due grandi gruppi che si sono accordati con il ministero. Ma la scuola non ha mezzi per organizzarsi, e gli studenti finiscono in corsi sconnessi dallo studio

Quest’idea dell’alternanza scuola/lavoro, obbligatoria per tutta la scuola secondaria superiore, pezzo forte della legge 107, è cominciata nell’incertezza e sta finendo nel caos. Come ci riportano le cronache di questi ultimi giorni.
Ci ricordiamo bene Matteo Renzi che spiegava alla lavagna, come un ‘buon maestro’, la «buona scuola». E che con la bacchetta indicava il pezzo forte e qualificante della sua riforma, appunto l’alternanza scuola-lavoro: 200 ore nel triennio dei licei, 400 nel triennio di tecnici e professionali.
UNO STRUMENTO per rinnovare la scuola, con un’immersione nel mondo del lavoro, per formare al «senso di iniziativa e di imprenditorialità». Le cose devono cambiare: la scuola si deve aprire al futuro, alla capacità del fare, all’imparare «facendo».
Non solo, nell’epopea renziana l’alternanza è anche trampolino «verso una professione», nella speranza che gli stage possano permettere di abbassare quel 46% di disoccupazione giovanile, tarlo e remora per lo sviluppo del Paese.
Mai viste e sentite tante sciocchezze tutte insieme.

Eppure la scuola, quella buona davvero, si è rimboccata le maniche e ha avviato percorsi, progetti, a volte anche pregevoli, sempre tra mille difficoltà.
MA IL PROBLEMA sostanziale è che un’attività resa obbligatoria per tutti gli studenti per legge, in assenza di qualsiasi strumento offerto alle scuole per la sua organizzazione, finisce con il produrre approssimazione, spreco, confusione, se non peggio.
Un monitoraggio dell’Unione degli studenti sulle esperienze di 15.000 studentesse e studenti ci dice che oltre la metà degli intervistati dichiara di partecipare a percorsi non inerenti ai propri studi e che quattro studenti su dieci ammettono di non essere messi nelle condizioni di apprendere, nel percorso di alternanza.
E infatti, al di là degli slogan già ricordati, qual è il senso vero di questa operazione? Si impara un lavoro, si conosce un ambiente di lavoro, si riflette su una filosofia e un’organizzazione d’impresa? Da McDonald, da Zara?
(Sono, infatti, due grandi gruppi che hanno fatto un accordo con il Ministero.)

La scuola è stata lanciata in questa avventura, senza che venisse fatta chiarezza su obiettivi e strumenti. Senza predisporre una struttura organizzativa e normativa che renda possibili i percorsi e ne garantisca utilità ed efficacia. Alcuni esempi? La maggior parte dei luoghi di lavoro non è attrezzata per accogliere studentesse e studenti e non è stata ancora definita la Carta dei diritti e doveri dei soggetti in alternanza. E per di più i percorsi di alternanza spesso comportano costi per studenti e famiglie.
Nel 2016, il primo anno dell’applicazione della riforma, ha partecipato all’esperienza di alternanza uno studente su tre, il 60% nei professionali, il 20% nei licei.
In queste condizioni di assoluta difficoltà organizzativa non c’è da stupirsi se molte scuole finiscono col far svolgere l’alternanza (in realtà stage) nel periodo estivo, magari a piccoli gruppi che vanno a fare i camerieri in Italia o all’estero, per coprire le ore e poter poi fare gli esami finali. Ma con quali tutele e con quale efficacia formativa? Per non parlare di episodi vergognosi recentemente accaduti e denunciati, dalle molestie alle studentesse, al ricorso a studenti in alternanza per lavori, che non rientrano in nessun piano formativo, e che dovrebbero invece essere affidati a lavoratori regolarmente retribuiti.
E quante ore sono state sottratte all’apprendimento con questo modo di procedere?
L’ALTERNANZA SCUOLA lavoro non è una novità, era prevista già dalla legge 53 del 2003, meglio conosciuta come legge Moratti. Ma la obbligatorietà del percorso, imposta dalla «buona scuola», ha portato molte scuole a un’applicazione forzata della legge stessa per timore di non svolgere le ore previste, necessarie per sostenere gli esami finali, e a doversi inventare percorsi e soluzioni improvvisate.

Il rapporto scuola-mondo del lavoro è una cosa seria, se non è un obbligo ma un’opportunità, se rappresenta uno scambio di sapere e di esperienza, e se davvero riesce a far crescere e consolidare processi di apprendimento e di crescita, umana e civile.
Con un po’ di umiltà bisognerebbe davvero fermarsi per un bilancio di quel che sta accadendo, nel bene e nel male. E dovrebbe essere soprattutto il Ministero a farlo, smettendo di difendere l’indifendibile.

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Quarto polo. La tappa fiorentina del giro d'Italia di 'quelli del Brancaccio' e della Rete delle città in Comune, per una lista di sinistra nel segno dell'attuazione della Carta repubblicana: "Compreso il titolo III". Cioè il modello economico.

Al di là delle dichiarazioni ad effetto – “il nostro programma non è di stare al tavolo, ma di ribaltarlo” – che pure muovono l’applauso di Sant’Apollonia, è il filo del ragionamento di Tomaso Montanari che non mostra smagliature, almeno agli occhi di (quasi) tutta una platea fatta di attivisti di partiti, comitati e associazioni, e per fortuna anche di curiosi, compresi molti under 40. La tappa fiorentina del giro d’Italia “Cento piazze per il programma”, lanciato dall’ “Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza”, cioè ‘quelli del Brancaccio’, e dalle “Rete delle città in Comune”, non offre risposte definitive su un programma di sinistra che, appunto, è un work in progress. Ma segna comunque gli assi cartesiani di un rassemblement, non solo elettorale, “che intende ricostruire la sinistra con un percorso di partecipazione democratica dal basso, e che ci veda tutti sulla stessa rotta, nella stessa direzione”.
Quale direzione? La risposta dello storico dell’arte tiene insieme una provocazione e un giudizio politico: “Alla fine di questo percorso faremo una nuova assemblea a Roma, al Brancaccio. Io vorrei farla il 19 novembre, e non perché quel giorno c’è un’iniziativa politica che vuol fare D’Alema. Lo vorrei fare quel giorno perché, nel 1944, in quel teatro un discorso memorabile lo fece Emilio Lussu, sulla ricostruzione dello Stato dopo vent’anni di fascismo. E lo Stato, negli ultimi 25 anni, è stato di nuovo smontato, pezzo per pezzo”.
In realtà la futura assemblea novembrina del Brancaccio dovrebbe svolgersi una settimana più tardi. Anche per la sensibilità che si deve a chi sta organizzando un percorso politico parallelo. Difficilmente convergente però, se Montanari davanti alle telecamere di La7 osserva: “Le politiche di centrosinistra hanno provocato tanti disastri”. Parole che si accompagnano, pensando alla “sua” Toscana, all’invito rivolto ad Enrico Rossi in un auditorium che ben conosce, e denuncia, la reale natura delle scelte sanitarie e infrastrutturali della Regione: “Lo dico all’amico Rossi: va bene un percorso comune, ma solo se si cambia rotta sull’aeroporto di Firenze, sull’inceneritore, sul sottoattraversamento dell’alta velocità, sulle politiche sanitarie”.
Il diretto interessato si schernisce: “Questo progetto non ha un leader. Credo sia finito il tempo in cui le case si costruivano dai tetti”. Ma i riflettori sono comunque per lui, Tomaso Montanari. Eppure l’auditorium ascolta con attenzione, in sintetici interventi di cinque minuti scanditi da Giulia Princivalli e Alberto Mariani, le parole assai critiche – vedi nuova possibile legge elettorale – di Alberto Cacopardo dei comitati per il “No” al referendum del 4 dicembre. Poi Tommaso Fattori, di Sì Toscana a Sinistra, pronto a rilevare: “Occorre nettezza, radicalità, credibilità: appena un mese fa uno dei leader di Mdp (Pierluigi Bersani, ndr) ha preso pubblicamente le distanze da Jeremy Corbyn sulla rinazionalizzazione dei servizi pubblici. E non dimentichiamo che, senza interconnettersi con il ‘campo di gioco’ europeo, non saremo mai in grado di difendere le nostre scelte politiche dai diktat dell’Ue come il pareggio di bilancio. Dobbiamo imporre la nostra agenda e non inseguire quella degli altri, come abbiamo fatto con i referendum sull’acqua e i servizi pubblici”. Poi disattesi.
Ancora, Massimo Torelli dell’Altra Europa, con un secco intervento a colpi di tweet sul modello coniato da Pablo Iglesias di Podemos. E, fra Dimitri Palagi (Prc), Serena Pillozzi (Si), Serena Spinelli (Mdp) e Miriam Amato (Al), c’è il prof di liceo Andrea Bagni: “ Per chi ha meno di 30 anni, la dimensione della politica è stata terra bruciata fino al 4 dicembre scorso. Non deludiamoli di nuovo”. Chiude Montanari: “Ricordiamolo sempre, il governo è un servizio, non un fine: al governo ci andremo quando avremo la forza di imporre un progetto. Di attuazione della Costituzione, compreso il titolo III”. Il modello economico.

 

 

 

 

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Tre ottobre 2013, al largo dell’isola di Lampedusa morirono in un naufragio 368 persone.

Quella data, il 3 ottobre, è stata dichiarata, con una legge approvata dal Parlamento, Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione.

Si trattò di una vera tragedia, documentata da immagini strazianti, come la lunga fila di bare nell’aeroporto dell’isola, che fece in pochi minuti il giro del mondo.

Il governo italiano dopo poche settimane attivò, per la prima volta, un programma pubblico di ricerca e salvataggio, Mare Nostrum, che consentì a decine di migliaia di persone di salvarsi.

Poi, come, sempre, le diffuse tendenze razziste del nostro Paese, e del vecchio continente, hanno avuto il sopravvento, nel dibattito pubblico e nell’orientamento dei governi.

Chiuso Mare Nostrum, prende definitivamente il sopravvento il punto di vista dei predicatori d’odio.

Ogni tanto qualche barlume di umanità davanti ai morti. Come davanti alle immagini del corpo del bambino siriano, Aylan, sulla spiaggia di Bodrum. Ma si tratta, quasi sempre, di parole e impegni di circostanza, di lacrime di coccodrillo.

Le politiche sull’immigrazione sono andate e continuano ad andare sempre nella stessa direzione: chiudere, fermare, controllare, respingere. La criminalizzazione dell’immigrazione e della solidarietà è proceduta a grandi passi, per dare solide basi di consenso alle scelte dei governi e dell’Ue.

In questi anni le frontiere sono state ulteriormente blindate. Sono andate avanti con grande impegno le iniziative volte a esternalizzare le frontiere, scaricando su altri governi e Paesi l’onere di fermare i flussi e di respingere.

Ricorrendo ad uso distorto e strumentale delle risorse per la cooperazione allo sviluppo. Prima la Turchia di Erdogan e poi la Libia di Serraj. Con grande dispiegamento di diplomazia e di denari pubblici.

La memoria delle vittime dell’immigrazione non sembra aver scalfito il cinismo di chi continua a considerare questo tema un’arma di distrazione di massa (le destre xenofobe e razziste) e di chi invece è convinto che per sottrarre un argomento alle destre bisogna giocare d’anticipo e, parafrasando il comico, non lasciare il razzismo ai razzisti.

Il 3 ottobre è una giornata di lutto.Per quei 368 esseri umani sterminati dalle politiche di gestione delle frontiere e per le migliaia che sono morte dopo quel giorno: 15.289 persone, secondo i dati ufficiali forniti dall’Unhcr. Più di 10 morti al giorno.

Gran parte di queste persone non ha un nome e mai avrà una degna sepoltura. I loro corpi non saranno restituiti alle famiglie. Una giornata nella quale non è accettabile esprimere solidarietà senza denunciare le politiche che hanno prodotto e continuano a produrre la strage che avviene davanti ai nostri occhi.

Non c’è spazio per una neutralità che non condanni le cause della strage.

Per fermarla bisogna far cambiare le politiche dell’Ue e dei governi europei, a partire dal nostro, e mettere in campo politiche e leggi alternative, che consentano alle persone che sono obbligate o vogliono partire di rivolgersi agli stati e non ai trafficanti

In Italia e in Europa c’è una parte consistente dell’opinione pubblica, non solo gli antirazzisti, che pensano che le vite delle persone e i loro diritti vengano prima degli interessi elettorali dei partiti.

Questa parte sana della società oggi non ha spazio e non le viene data, se non raramente, la parola.

Molto più spazio e visibilità è dato a chi predica l’odio, a chi criminalizza l’immigrazione e la solidarietà.

Il prossimo 21 ottobre è stata lanciata una manifestazione nazionale contro il razzismo. Una grande occasione per riprendersi le piazze e dar voce a chi non vuole arrendersi alle stragi e alla cancellazione dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione.

* vicepresidente nazionale Arci 

 

 

 

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da RavennaeDintorni.it

Un’alternativa di sinistra al Pd: prove generali per l’Alleanza popolare

Manzoli, consigliere di Ravenna in Comune, alla vigilia della presentazione pubblica del progetto lanciato a Roma da Anna Falcone e Tomaso Montanari

Il 30 settembre alla sala D’Attorre di Ravenna alle 15.30 è convocata la prima riunione di presentazione (aperta a tutti) dell’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, ossia, si legge nel volantino, «un percorso partecipato fra cittadini, forze civiche e soggetti politici in adesione all’appello lanciato il 18 giugno al teatro Brancaccio da Anna Falcone e Tomaso Montanari per costruire sui territori una politica dal basso». Punti di riferimento, la Costituzione, temi sul tavolo: ambiente, lavoro e povertà. Nessun nome, nessun ordine dei lavori.

Manzoli

Massimo Manzoli (al centro) al presidio dei lavoratori Ferrari davanti allo stabilimento Marcegaglia a fine agosto

Ma ad aprire il pomeriggio ravennate sarà Massimo Manzoli, ingegnere, attivo nell’associazionismo per la lotta alla mafia, consigliere comunale con Ravenna in Comune, lista nata dall’unione di numerose forze a sinistra del Pd che candidò Raffaella Sutter a sindaco (Manzoli le è subentrato lo scorso giugno a palazzo Merlato come consigliere). Da lui quindi cerchiamo di capire di più di questa nuova realtà di sinistra che sta cercando di nascere.

Che cosa è Alleanza popolare? Un nuovo soggetto nato per unire la sinistra che finirà per dividerla ulteriormente?
«Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza è l’idea di una grande coalizione civica che possa unire (e non dividere) le varie anime della sinistra a tutte quelle realtà civiche che vivono nel nostro Paese. Il punto di partenza, se vogliamo, è il più semplice: attuare quanto scritto nella Costituzione e da lì ripartire per affrontare varie tematiche, anche quelle che difficilmente entrano nella discussione politica attuale».
Chi aderisce a questa Alleanza allo stato attuale?
«L’idea di Falcone e Montanari nasce come un tentativo nuovo di intendere la politica. Entrambi hanno più volte chiarito che l’obiettivo non è creare una lista elettorale, ma tentare di riunire tutte quelle voci che non trovano più rappresentanza nei vari partiti o movimenti a sinistra. E da questa base nasce anche a Ravenna la giornata del 30. Sarà la prima chiamata pubblica per ragionare di questa idea di politica. A livello nazionale è stata data ampia importanza alla rete delle città in Comune, cioè la rete di liste civiche di sinistra sorte in tutta Italia nell’ultimo anno. È una rete di cui RiC fa parte fin dall’inizio. Ma come noi ci sono altre realtà civiche, come quella faentina, che sono attive nell’organizzazione dell’incontro, che avrà un respiro provinciale».
Ma c’è l’idea di costruire qualcosa in vista delle elezioni del 2018? O quando tutte queste realtà andranno al voto politico saranno in ordine sparso?
«È una domanda che andrebbe fatta a ogni referente provinciale di ogni partito. Io seguo quello che accade a livello nazionale, e mi occupo della mia realtà comunale. Non ho mai avuto tessere di partito quindi difficilmente posso dare un parere sulle logiche che si creano all’interno in vista delle elezioni. Ovviamente non mi dispiacerebbe che questo progetto potesse avere una rappresentanza parlamentare nell’immediato futuro. Da “civico” trovo sia un bel tentativo e che sia giusto provarci. Tra qualche mese si tireranno le somme».
Cosa ci dovrebbe essere questa volta di diverso rispetto agli altri tentativi (fallimentari) di unire la sinistra?
«A mio avviso, la vera differenza è la non esasperata necessita di costruire nell’immediato una lista elettorale. Se il primo obiettivo fosse stato quello non sarei qui, quando il primo obiettivo diventerà quello probabilmente farò un passo indietro dedicandomi “solo” al mio comune. Ma sono convinto che per creare qualcosa di nuovo, che sia diverso dal passato, perché sappiamo tutti che quelle esperienze non hanno funzionato, potrebbe servire tempo. Poi se ci sarà l’occasione di presentarsi alle elezioni con un movimento orizzontale, il più ampio possibile, ben venga».
Si tratta di un movimento che si presenta come alternativo al Pd. Ma c’è uno spazio concreto per una sinistra senza i dem? O si rischia di restare mera testimonianza?
«Se non fossimo convinti che c’è lo spazio, anzi, che è necessario uno spazio alternativo e a sinistra del Pd, non staremmo mettendo in campo questa iniziativa. La dimostrazione è evidente anche nei pochissimi mesi in cui sono in consiglio a ravenna. Ci sono temi, legati al lavoro, che solo una lista a sinistra e alternativa al Pd ha sollevato e sostenuto. Parlo, ma sono solo due esempi, della situazione dei dipendenti Euro&Promos e della vertenza Ferrari».
Ma perché secondo lei in Italia non si è riusciti a fare un’operazione alla Corbyn? In Gran Bretagna molti giovani si sono iscritti allo storico partito dei Labour per poi eleggere un leader di sinistra…  
«È un’ottima domanda, molto complessa. Siamo in un periodo in cui la politica non è attrattiva, da anni c’è una totale disaffezione alla politica e ai partiti. Non serve ricordare le percentuali andate al voto alle ultime regionali. In questo contesto è molto più probabile che le persone fuggano e si allontino invece che avvicinarsi per cambiare le cose. E la fuga dal Pd degli ultimi 4-5 anni ne è un esempio».
Andrà a sentire Pisapia, Bersani ed Errani a Ravenna? Le interessa il progetto?
«Se l’idea è quella di costruire un centro-sinistra, stringendo alleanze col Pd, come sembra dalle dichiarazioni nazionali recenti, direi proprio di no. Mi stupisce anche la domanda, visto che viene fatta a un consigliere di lista di sinistra alternativa al Pd. È semplice coerenza».
Dentro RiC perà c’è chi sta lavorando a questo progetto…
«Ravenna In Comune per la pluralità di partiti e movimenti che tiene dentro è una realtà rara in Italia. Ci sono partiti con sensibilità molto vicini al Pd a livello nazionale che, però, hanno iniziato questo progetto con tutti noi. Non è né un segreto né una provocazione. E credo di avere e aver avuto con loro un rapporto sempre molto schietto e trasparente. In entrambe le direzioni intendo».

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