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Movimento 5 Stelle. Quel «l’uno vale uno» di Grillo è la sconfessione della democrazia rappresentativa. E se si chiedono meno parlamentari aumenta il numero dei rappresentati

 

La cosa forse più sorprendente del “pacchetto” di riforme costituzionali pubblicate dal Movimento 5 Stelle è lo scarto che corre tra le roboanti dichiarazioni di rottura che le accompagnano («vogliamo rivoluzionare il nostro sistema istituzionale», si legge sul sito di Beppe Grillo) e la pochezza delle innovazioni istituzionali proposte al voto dei militanti: raramente si erano visti rivoluzionari tanto conformisti e poco fantasiosi.

Sarebbe facile ironizzare sull’ingenuità di alcune proposte (il voto ai sedicenni; il coinvolgimento diretto dei cittadini nelle «decisioni importanti»; la previsione di una fantomatica «cittadinanza digitale per nascita»), così come sulla contraddizione tra la partecipazione alla campagna per il No alle riforme renziane e alcune delle modifiche agognate (la riduzione del numero dei parlamentari; l’abolizione del Cnel e delle province; il potenziamento del referendum; l’idea – espressa con il consueto linguaggio “autostradale” di tutti i nostri riformatori – delle regioni come enti di «raccordo»; l’ennesima semplificazione del procedimento amministrativo).

E ancora più facile sarebbe mettere in luce il vuoto di cultura costituzionale in cui molte di tali proposte sono calate: a qualcuno tra i grillini sarà mai venuto il sospetto che l’ampio ricorso ai referendum in Svizzera sia da mettere in relazione con la forma di governo direttoriale vigente in quel Paese?

Più interessante pare, tuttavia, evidenziare la continuità culturale esistente tra le idee costituzionali del Movimento 5 Stelle e le torsioni subite dal nostro sistema istituzionale negli ultimi trent’anni.

La svolta maggioritaria impressa con i referendum elettorali del 1993 ha avuto l’effetto di trasformare il nostro sistema in una democrazia sempre meno basata sulla mediazione politica svolta dai partiti e sempre più incentrata sul ruolo di leader capaci di entrare direttamente in rapporto con gli elettori.

A partire da quel momento, si sono susseguiti lo smantellamento delle strutture partitiche organizzate, la nascita di formazioni volutamente “leggere”, la personalizzazione della contesa politica, la convergenza programmatica dei diversi schieramenti, la rinuncia alla selezione della classe dirigente connessa all’abuso delle primarie (sino all’umiliazione della militanza con l’apertura a tutti della scelta del segretario del partito), l’abolizione del finanziamento pubblico, il disprezzo del compromesso politico ridotto a “inciucio”, il velenoso mito del governo “eletto” la sera stessa delle elezioni (o, come ha detto Mario Dogliani, la funebre retorica del governo “uscito dalle urne”).

Questa idea che niente debba frapporsi alla spontaneità del rapporto intercorrente tra eletti ed elettori – perché altrimenti questi ultimi verrebbero espropriati del proprio scettro – è perfettamente in linea con la concezione politica dei grillini. Basti pensare all’intuizione fondamentale di Grillo, quell’«uno vale uno» su cui il movimento ha costruito buona parte delle proprie fortune: di cos’altro si tratta, se non dell’aperta sconfessione della democrazia rappresentativa?

(E sorprende sentire oggi, a sinistra, voci per le quali l’aggregazione politica in costruzione dovrà esser tale per cui «davvero uno vale uno»).

La rappresentanza implica, di per sé, che uno – il rappresentante – valga per molti – i rappresentati – ed è curioso come i grillini non si rendano conto quanto la loro avversione per la rappresentanza sia in insanabile contraddizione con la riduzione del numero dei parlamentari, altro loro punto fermo: non è difficile comprendere che meno sono i parlamentari, maggiore è il numero di elettori che gli eletti saranno chiamati a rappresentare…

La demolizione dei corpi intermedi, politici e sociali, è stata perseguita con lucidità e tenacia dal capitalismo, che proprio in essi – nei partiti socialdemocratici e nei sindacati dei lavoratori, in particolare – aveva trovato il maggior ostacolo alle proprie pulsioni predatorie. Ridurre la controparte a una moltitudine di individui disorganizzati è stata la precondizione per lo smantellamento della legislazione sociale approvata nel dopoguerra.

Nella loro caparbia pretesa di affermare “senza se e senza ma” la sovranità individuale – «io decido per me, mi informo su internet e non delego niente a nessuno» – i pentastellati si propongono ora come i più solerti esecutori di tale disegno (non a caso, anche i sindacati sono oggetto dei loro strali): ricordando il titolo di un preveggente libro di Marco Revelli, le due destre sono diventate tre.

Rivoluzionare davvero l’esistente implica un’inversione di rotta. Occorre riscoprire il valore della mediazione (che è anche medi-t-azione) politica, operare per la ricostituzione dei partiti e per una rappresentanza che sappia davvero intercettare le domande che salgono dalla società, ridurle a sintesi, trasformarle in progettualità politica.

Molte idee alternative sono circolate durante la campagna referendaria: circoscrivere lo strapotere del governo in Parlamento (per esempio, eliminando l’iniziativa legislativa dell’esecutivo e rendendo inemendabili i decreti-legge), trasformare il Senato in una camera di “raffreddamento” attivabile all’occorrenza, aumentare le maggioranze di garanzia, ripoliticizzare le competenze delle autorità (a parole) «indipendenti», eliminare le anacronistiche specialità regionali, superare la pletora di enti sovracomunali rafforzando (non abolendo) le province, ridare fiato alla rappresentanza nelle regioni e nei comuni, …

A quando una sinistra capace di farsi carico di questi problemi?

 

 

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Repliche a Donini

 

Repliche di Paola Bonora su Articolo 9 blog - la Repubblica e di Piergiovanni Alleva alle dichiarazioni dell'assessore Donini a seguito dell'articolo di Tomaso Montanari sul disegno di legge urbanistica dell'Emilia-Romagna. 14 agosto 2017 (p.d.)




la Repubblica, Articolo 9 blog -  14 agosto 2017
LEGGE URBANISTICA EMILIA-ROMAGNA:

PERCHÉ E' PERICOLOSA
di Paola Bonora


L'8 agosto ho pubblicato su Repubblica un articolo dedicato alla pessima legge urbanistica che sta per essere approvata dal Consiglio Regionale dell'Emilia Romagna. Il giorno dopo ha replicato, con molto spazio e nessun argomento, l'assessore Donini. Io non ho avuto occasione di replicare. Lo fa ora, con la lettera che pubblico di seguito, una delle massime esperte di consumo di territorio, la bolognese Paola Bonora. (t.m.)

Caro Tomaso,
avevo letto con grande piacere il tuo articolo su
Repubblica dell’8 agosto sulla legge urbanistica dell’Emilia-Romagna. Speravo nell’apertura di una discussione nazionale visto con quanto impegno il giornale affronta il tema dell’abusivismo e del destino del territorio martoriato da troppe costruzioni. Ma la risposta dell’assessore di due giorni dopo sembra aver messo un macigno su qualsiasi confronto, a conferma che l’Emilia appartiene a un universo parallelo inscalfibile, non è chiaro se per l’antica reputazione o se per disegni neogovernativi che solo qui possono mostrare consenso.

 

Non a caso non si è mai aperta una riflessione sulle scelte urbanistiche operate in Emilia-Romagna, sia in termini di suolo consumato (sempre tra le quote più alte a livello nazionale), che di strumenti urbanistici e fiscali applicati (fino a illeciti ammanchi erariali che hanno superato il mezzo miliardo di euro a favore dei costruttori proprio negli anni delle plusvalenze stratosferiche della bolla speculativa - come ho documentato sulla rivista il Mulino). Nell’indifferenza generale e nell’illuminata continuità dell’amministrazione.

 

Ciò che stride in questo fervore estivo contro l’abusivismo è il non accorgersi che il problema non è solo la liceità degli insediamenti, ma la loro entità. Per carità non voglio neanche lontanamente difendere o giustificare l’abusivismo, neppure quello cosiddetto “di necessità”, ma la questione non sta solo nella concessione preliminare alla costruzione, ma nella quantità immane di costruzioni comunque realizzate - nonostante la crisi, nonostante l’invenduto, nonostante il disastro ambientale e paesaggistico. Nonostante le fervide dichiarazioni di intenti.


Le parole con cui l’assessore regionale ti ha risposto sono emblematiche: non si è preso neppure il disturbo di controbattere, si è chiuso nella vuota retorica del linguaggio propagandistico e ha ripetuto le falsità che da mesi va ripetendo a chi muove critiche. Le tue argomentazioni non sono state neppure sfiorate.

Una legge che consentirà una liberalizzazione insensata grazie a deroghe prive di margini, controproducente sotto il profilo economico in una situazione che ancora risente del surplus produttivo, irrazionale in termini urbanistici nel rifiuto di piani istituzionalmente definiti, antidemocratica sul versante delle potestà municipali schiacciate dalle opzioni di investimento private. Figlia dell’insana passione neoliberista del centro-sinistra per il cemento e l’asfalto. Al cui riguardo l’assessore rivendica la primazia emiliana: sempre i primi della classe questi ligi emiliani, peccato l’affermazione soffra anche di un grave difetto di informazione. Persino Confindustria, nell’audizione consultiva, ha protestato per gli eccessi di indeterminatezza e vacuità del ruolo istituzionale: non se la sentono, i costruttori, di assumersi la responsabilità di sostituirsi alle istituzioni. Che ognuno si assuma le proprie. Paradossale. E desolante.

Ma da noi l’ipocrisia legalista è prassi consolidata, non si abusa, si deroga. Molto più semplice, si inventano le scappatoie e si legittima a priori. Tutto regolare. Condoni preventivi. Avrei casi scandalosi da raccontare di insediamenti, regolarmente licenziati attraverso fantasiose normette ad hoc, privi di opere di urbanizzazione tra cui addirittura le fogne. Dov’e la differenza con il Sud? Quando anche le entrate fiscali diventano sempre più misere - come la legge in discussione ora prescrive.

Questo chiasso tardivo sull’abusivismo (fenomeno notissimo e denunciato da tempo) rischia di diventare un altro modo per distrarre l’attenzione da problemi e contraddizioni ancor più gravi. Nel silenzio assordante che in nome della crescita consente scempi “legali”. Sarebbe il momento di aprire una discussione seria sui principi di legalità e di interesse pubblico, in urbanistica continuamente strapazzati e distorti. Ma siamo vittime della retorica di quest’epoca barbara che ha perso intelligenza e cerca di abbagliarci con giochi di parole cui non corrispondono realtà.

Paola Bonora

 

RISPOSTA A DONINI...

OVVERO DI BELLE INTENZIONI E' LASTRICATO IL PAVIMENTO DELL'INFERNO

di Piergiovanni Alleva

 

Occorre dare atto all'Assessore alle infrastrutture della Regione Emilia-Romagna di essere un interlocutore affabile e dialogico, infatti il più delle volte (non proprio sempre) non si sottrae al confronto. Egli è anche intervenuto al primo convegno “Fino alla fine del suolo” – promosso in Regione dall'Altra Emilia Romagna, insieme al M5S, nello scorso mese di marzo –, dopo aver ascoltato gli interventi degli eminenti urbanisti e studiosi che hanno mosso argomentate critiche alla proposta di legge della Giunta “disciplina regionale sulla tutela e l'uso del territorio” numero 218 del 27 febbraio 2017.

 

Anche in quell'occasione, come nella recente risposta all'articolo di Tomaso Montanari (la Repubblica, 8 agosto scorso) che riprende la sua prefazione al libro promosso da AER “Consumo di luogo” (ed. Pendragon, curato da Ilaria Agostini, ricercatrice di urbanista presso l'Università di Bologna), egli evita accuratamente di entrare nel merito degli argomenti che evidenziano le vistose incoerenze e contraddizioni che pongono radicalmente in discussione gli enunciati obiettivi della proposta di limitazione nel consumo di suolo, di semplificazione delle procedure, di difesa della legalità e di sviluppo economico attraverso la riqualificazione urbana. Una legge che mette in allarme non folle di esagitati contestatori, ma il meglio della cultura urbanistica di una Regione che fu all'avanguardia in Italia per la capacità di preservare il territorio dalle offese inflitte in tante altre parti del Paese.

 

Donini fa soprattutto professione di fede.

 

Dimentica di dire che la legge impone una svolta decisa verso la contrattazione pubblico-privato, esautora i comuni dai poteri di pianificazione urbanistica e li obbliga a raggiungere accordi con i privati entro scadenze brevi e perentorie. Che oblitera l’istituto degli standard urbanistici, garanzia di democratico accesso ai servizi. Che punta su una rassicurante “rigenerazione urbana” fondata su operazioni di “addensamento” e di demolizione e ricostruzione di edifici o di interi isolati, esenti da qualsiasi condizionamento e disciplina urbanistica cogenti. Una “rigenerazione” che si preannuncia foriera di diseguaglianze, espulsioni e marginalizzazioni.

 

Ma non dimentica di proclamare ore rotundo lo slogan del contenimento di uso del suolo. L'articolo 6 del disegno di legge pone effettivamente un limite al nuovo suolo consumabile. Ma Donini non dice che la soglia del 3% – quota peraltro in sé troppo elevata – si sommeranno quantità provenienti dalle vigenti previsioni comunali e le volumetrie derivate dagli accordi operativi in deroga.

 

Sui centri storici, Donini garantisce continuità. Non è vero: l’art. 33 introduce pericolose deroghe in merito alla conservazione dei caratteri tipologici e formali delle città storiche, al mantenimento delle destinazioni d’uso in atto, al divieto di edificazione di aree e spazi rimasti liberi ad usi urbani collettivi. Il PUG (Piano Urbanistico Generale che assorbe ogni altro strumento di pianificazione comunale) può peraltro prevedere in ambiti determinati del centro storico l’attuazione di tali modifiche mediante «accordi operativi» (ovvero contratti pubblico-privato congegnati dal DdL ad esclusivo vantaggio della parte privata) e può individuare parti del centro storico, «prive dei caratteri storico architettonici» (sic), nelle quali sono ammesse interventi di riuso e rigenerazione anche con aumento delle volumetrie.

 

È del tutto evidente quali spazi si aprano all'intervento arbitrario in luoghi ove finora non è stato permesso modificare le architetture, e che sono il patrimonio residuo del nostro Paese. Come ebbe a dire Pierluigi Cervellati, «da questa disposizione può discendere che si può pensare nel centro di Bologna, in uno spazio cui sia riconosciuta la possibilità di derogare dai divieti, di costruire un edificio a forma di tortellino per magnificare la cultura gastronomica petroniana....». Qui si alterano rendendoli legali principi di salvaguardia di un patrimonio che non può che essere unitario e intangibile.

 

Si può continuare nelle citazioni illustri: Giovanni Losavio già magistrato in Cassazione e presidente di Italia nostra sezione di Modena denuncia che «sono travolti i principi fondamentali di governo del territorio, offesa l'autonomia comunale». Egli pone in discussione che siano lesi con questa legge, che svuota di fatto le funzioni di pianificazione, due principi fondamentali della legislazione nazionale: «il principio della potestà urbanistica alle istituzioni pubbliche rappresentative della Comunità, e quello dipendente dal primo, secondo cui i modi dell'edificare debbono corrispondere a regole normativamente predeterminate e fissarne i limiti che non possono essere affidati al libero accordo tra amministrazione comunale e privato imprenditore», esattamente l'architrave invece di questa proposta di legge che tutto affida agli accordi e alla negoziazione tra privati e pubblico.

 

A questa proposta di legge – non fondata su una lucida ricognizione dello stato del territorio regionale, afflitto da un’ipertrofia edilizia che innalza pericolosamente il rischio idrogeologico – manca il respiro culturale, e fa suo l’affanno del turbocapitalismo: per risolvere le patologie territoriali manifestatesi quale risultato dell’applicazione dei principi neoliberisti, esso dispone un’accelerazione proprio di quei processi che sono stati la causa del male.

 

Eppure non mancherebbero esempi di buona legislazione regionale da cui attingere: la Toscana, come ricorda l'ex assessore Anna Marson in “Consumo di luogo”, con la legge 65/2014 affronta il contrasto al consumo di suolo, attraverso punti qualificanti: «il divieto esplicito di nuove costruzioni residenziali al di fuori del territorio già urbanizzato, attraverso anche disincentivi procedurali e finanziari; l'obbligo di dimostrare l'assenza di alternative praticabili, per richiedere nuove edificazioni in area agricola per le altre destinazioni d'uso ammesse; il combinato disposto tra criteri dettati dalla legge e piano paesaggistico, per individuare i confini del territorio urbanizzato ecc.». Dell’esempio virtuoso è stata tratta unicamente la definizione di suolo urbanizzato, ma è stato trascurato il messaggio di fondo: lo spreco di suolo si contiene opponendogli agricoltura “multifunzionale” di qualità, che offre servizi ecosistemici, posti di lavoro e nuove qualità paesaggistiche, come scrive Piero Bevilacqua.

 

Donini afferma che c'è disponibilità a modificare il testo nella prossima discussione degli emendamenti; pur convinti della pressoché totale inemendabilità della legge per le innumerevoli e stridenti incoerenze, abbiamo lavorato con il prezioso contributo della pattuglia di architetti di massima competenza regionale Ezio Righi, Pero Cavalcoli e Maurizio Sani, per formulare un insieme di proposte di emendamento che consentano almeno in parte evitare le brutture del testo proposto. Nelle nostre critiche non siamo soli, le hanno espresse in vario modo diverse a autorevoli associazioni: Italia Nostra, attiva nell’opposizione sin dal primo momento, l'Istituto Nazionale di Urbanistica e Legambiente, solo per citare le più note, mentre il confronto con le realtà locali non è stato ampio ed esauriente come Donini afferma, tutt'altro: il dissenso a questa proposta è molto esteso e forte. Le proposte di emendamenti sono state depositate e firmate congiuntamente oltre che dall'Altra Emilia Romagna, anche dai rappresentanti di Sinistra italiana e di Articolo 1 MDP, a riprova di un'ampia convergenza unitaria, ulteriori proposte di modifica verranno avanzate. Vedremo se dal confronto si determineranno condizioni più favorevoli. Se son rose fioriranno.

 

Piergiovanni Alleva

consigliere regionale AER

 

 

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E’ tragedia e commedia a un tempo. La tragedia è terribile. La commedia miserabile, ma sta trovando il suo pubblico e rischia di volgersi in una seconda tragedia. La prima tragedia è quella dei migranti. I motivi che li spingono a traversare il mare sono arcinoti: i danni persistenti del colonialismo, del neo e del postcolonialismo, i cambiamenti climatici suscitati dalla «modernizzazione» occidentale, le guerre promosse dagli occidentali, i dittatori e gli estremisti sostenuti e armati dall’occidente. Il dato più drammatico, e più incompreso, è che per traversare il mare i migranti mettono a rischio la loro vita e quella dei loro figli. Eppure, hanno varcato deserti, sofferto fame e sete, subito mille angherie, per giunta sapendo che saranno male accolti.
Il loro afflusso, così cospicuo e disordinato, crea problemi. Non è quello, previsto e ben accetto, della manodopera low cost pronta a svolgere mansioni che gli occidentali disdegnano. È la repentina irruzione dell’«altro» nelle nostre esistenze.

 

C’è poco da discutere. L’«altro» ha la pelle di un altro colore, parla un’altra lingua, ha altri costumi. Può piacere il cuscus, ma il multiculturalismo non è facile. Né il turismo esotico, né qualche documentario televisivo scalfiscono un profondo, e inevitabile, deficit di conoscenza. Solo una classe dirigente accorta e responsabile, consapevole che, malgrado tutto, il paese si rispecchia in essa, potrebbe contribuire a colmarlo. Con la scuola e l’informazione, oltre che richiamando i cittadini agli obblighi che impone la comune condizione d’abitanti del pianeta: riconoscerebbe i misfatti commessi dall’occidente e predisporrebbe misure di accoglienza ordinate. Le classi dirigenti europee gareggiano invece nello scaricabarile e nell’imbastirci sopra campagne elettorali. In Italia al momento va in scena una desolante commedia, articolata in due mosse.
La prima sono gli accordi coi libici, coi governi africani e la cosiddetta vigilanza sui trafficanti. È una mossa che serve unicamente a respingere i migranti sulle coste del nord Africa o possibilmente più a sud. In Libia li si consegna alle fazioni in armi che si contendono brandelli di territorio. Altrove li si restituisce ai carnefici dai quali fuggono. La seconda mossa è l’attacco alle Ong.

La società civile non è virtuosa per definizione. I malintenzionati sanno bene come profittarne: antimafia e Roma capitale docent. Che uno Stato serio eserciti la sua vigilanza non stupisce. Ma stavolta lo Stato gioca pesante: insinua sospetti e pone vincoli all’azione umanitaria delle Ong, le usa come capro espiatorio. Invece di apprezzarne e sostenerne l’operato, che colma le sue manchevolezze.

Queste due mosse sono fumo negli occhi. Lo sa pure chi le compie. Sono mosse elettorali, che magari aiutano pure a mascherare la mancata soluzione della crisi economica e occupazionale che affligge il paese da quasi un decennio. Stanno provando a spostare sull’immigrazione la prossima campagna elettorale. Ma l’ondata migratoria è incontenibile. Si può provvisoriamente rallentarla, ma troverà altre strade. Per arrestarla servirebbe un cambiamento radicale delle politiche dei governi e delle multinazionali occidentali. Si cominciasse domani, una generazione non basterebbe a curarne gli effetti. Oltre a essere inefficaci, ingiusti, «disumani», tanto i respingimenti, quanto la criminalizzazione dello Ong hanno tuttavia un terribile effetto collaterale: legittimano e diffondono il razzismo. Che è ben più temibile delle migrazioni.

Le volgarità di un razzista confesso come Salvini e di qualche controfigura esibita dai 5 Stelle sui teleschermi fanno danno. Attenzione: finiamola col populismo. Incoraggiato dalla voyeuristica attenzione dei media, è il fascismo del nuovo millennio. Ma a far scandalo soprattutto è la parte in commedia che in Italia stanno recitando il governo e il Pd. Il governo, tramite il ministro degli interni, sta compiendo le due mosse di cui sopra. Il capo del Pd, che verosimilmente ne è l’ispiratore, ha per parte sua prescritto di uscire «dalla logica buonista e terzomondista per cui noi abbiamo il dovere di accogliere tutti quelli che stanno peggio di noi». I migranti vanno aiutati «a casa loro». Superficiale com’è, forse lo ignora. Ma simili strizzate d’occhio, tanto quanto gli atti del governo, non valgono molto, ma fanno scandalo e sdoganano il razzismo. Non a caso hanno dato la stura a una sequela di affermazioni e gesti razzisti, da parte di infimi gerarchi locali del Pd, minimizzati, ma non smentiti, dai dirigenti nazionali. Se la difesa della democrazia è affidata a lor signori, c’è da avere paura.

In media gli esseri umani sono d’istinto diffidenti, non razzisti. Poche settimane fa a Milano si è svolta un’imponente marcia pro migranti. Eccitare la diffidenza, con parole e mosse incaute o ambigue, per trarne profitti politici, è giocare col fuoco che nutre il razzismo. I precedenti lo confermano. Se proprio non si riesce a onorare l’umanità di cui ci vantiamo, almeno per salvaguardare un minimo di civile convivenza, anche il segno più vago di razzismo va bandito. Chi ha a cuore la democrazia chiami le cose col loro nome e dica che non ci sta.

 

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di Tomaso Montanari martedì 8 agosto 2017  

La nuova legge urbanistica della regione Emilia-Romagna, una volta all'avanguardia del buongoverno del territorio, legittima l'abusivismo della speculazione immobiliare. la Repubblica, 8 agosto 2017


L'altra faccia dell’abusivismo speculativo che sfigura l’Italia è lo stravolgimento della legislazione del territorio, non di rado tesa a sanare preventivamente gli abusi, anzi a trasformare l’abuso in legge, sostituendo alla pianificazione pubblica l’iniziativa dei costruttori. È successo con la Legge Obiettivo e il Piano Casa di Silvio Berlusconi, e poi con lo Sblocca Italia di Matteo Renzi, in una continuità ideologica garantita dal fatto che tutti questi provvedimenti furono voluti e costruiti da Maurizio Lupi, mai pentito apostolo del cemento.

 

Ma ora, e la notizia è clamorosa, questa tendenza rischia di raggiungere l’apice in Emilia-Romagna: cioè nella regione rossa che è stata la culla della migliore urbanistica italiana. È quanto succederebbe se il Consiglio Regionale emiliano approvasse la legge urbanistica licenziata dalla Giunta Bonaccini. L’articolo cardine di questa legge è il 32, che al comma 4 stabilisce che il Piano Urbanistico Generale dei comuni emiliani «non può stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili». Tradotto vuol dire che i cittadini non potranno più decidere, attraverso i loro eletti come, dove, quanto cresceranno le loro città. È l’idea antitetica a quella del piano, cioè di una crescita sostenibile, governata ed equa.

 

Ma se non decide la comunità chi decide? Semplice: decide la speculazione. Il futuro del territorio emiliano è affidato - denuncia un documento firmato dai migliori urbanisti italiani - «agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che hanno presentato al comune un’apposita proposta (art. 37, c. 3), da approvare in 60 giorni, tempo proibitivo per i comuni. E siffatti accordi “sostituiscono ogni piano urbanistico operativo e attuativo, comunque denominato” (art. 29, c. 1, lettera b). La conseguenza è un piano urbanistico comunale privo di contenuti dimensionali e localizzativi: non si sa quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze, le attività produttive, le attrezzature e i servizi».

 

La stessa legge prevede che ogni comune emiliano possa continuare a consumare il suolo, nella misura del 3% del territorio urbanizzato. Per capire la gravità di questo dato bisogna ricordare (come fa l’Ispra: il nostro massimo istituto di ricerca sull’ambiente, un ente pubblico occupato dai ricercatori precari che il governo non riesce, incredibilmente, ad assumere) che dal 2012 ad oggi è come se in Italia si fosse costruita una città grande quanto Roma. Ora, non solo il 3% è assai lontano da quel consumo di suolo zero che l’Unione europea fissa come obiettivo inderogabile per il 2050, ma soprattutto la legge contiene tali deroghe (assai vaghe: per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano «ragionevoli alternative»; per «ampliamenti di attività produttive»; per «nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale»; nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge) da indurre a conteggiare che il consumo di territorio reale sfiorerà, in Emilia, il 10%.

 

Aggiungiamo che la legge prevede che si possano «individuare le parti del centro storico prive dei caratteri storico architettonici, culturali e testimoniali, nei quali sono ammessi interventi di riuso e rigenerazione, ai fini dell’eliminazione degli elementi incongrui e del miglioramento della qualità urbanistica ed edilizia dei tessuti urbani, ed è ammesso l’aumento delle volumetrie preesistenti». Una misura che segna la fine di quella dottrina, emilianissima, che vede nei centri storici organismi vivi e unitari, che non si possono distruggere selettivamente, magari per speculazioni che spingono, a seconda dei casi, verso una gentrificazione del lusso (la direzione di Venezia, e ora di Firenze) o verso la moltiplicazione di supermercati o fast food.

 

Al fondo, l’idea di questa legge è che il territorio non vada governato, ma affidato al mercato, cioè alla legge del più forte: un abusivismo di Stato. O di Regione.

 

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08/08/2017 Tomaso Montanari

Huffington Post

Disumano. Tutto, in questa terribile estate 2017 ci pare disumano. Il caldo mostruoso e il fuoco che divorano l'Italia: e le piogge che iniziano a sgretolarlo, al Nord. E disumano appare un discorso politico che di fronte alla più grande questione del nostro tempo, la migrazione di una parte crescente dell'umanità, reagisce invocando la polizia. Un muro di divise che faccia nel Mediterraneo quello che vorrebbe fare il muro di Trump al confine col Messico.

Eppure no: è tutto terribilmente umano. È stato l'uomo a cambiare il clima. È stato l'uomo a innescare la grande migrazione: sono state la diseguaglianza, l'ingiustizia, la desertificazione, lo sfruttamento selvaggio dell'Africa, la stolta politica internazionale e le guerre umanitarie. "Ascoltate, e intendetemi bene: è dal cuore dell'uomo che escono i propositi di male", dice Gesù nel Vangelo di Marco.

Umano, dunque: terrificantemente umano. Di una umanità sfigurata dalla paura, dalla rabbia, dall'avidità. Parliamo di tutto questo quando parliamo della vittoria della destra: peggio, di una egemonia culturale della destra che si estende sul discorso pubblico. Una egemonia culturale che domina – piaccia o non piaccia: è un fatto – il maggior partito italiano: già di centro-sinistra, oggi inequivocabilmente vittima del pensiero unico della destra della paura e dell'odio. E ci sono almeno tre differenti tipi di destra che si stanno mangiando oggi il corpo del Pd.

La prima è quella che ha dominato il pensiero unico del centrosinistra negli ultimi decenni: quella del neoliberismo appena travestito da terza via blairiana. Quella per cui ormai siamo non solo in una economia, ma in una società, di mercato. A cui non c'è alternativa. Per esempio: nella legge sulla concorrenza approvata la settimana scorsa c'è un articolo che distrugge alla radice l'idea stessa di tutela dei beni culturali. Che si potranno esportare con una semplice autocertificazione basata sulle soglie di valore. Il denaro come unico metro, la totale libertà dell'individuo, l'abdicazione dello Stato. Un articolo esplicitamente scritto dalla lobby dei mercanti d'arte, un cui rappresentante sedeva nella commissione, nominata dal ministro Franceschini, che ha scritto la legge.

Un provvedimento settoriale, certo: ma che confermando ancora che il denaro è l'unica misura della libertà chiarisce molto bene l'orizzonte anti-umano di questo "centrosinistra".

La seconda destra è quella, più tradizionale, del ministro Minniti. Una destra law and order che vuole mettere la polizia a bordo delle navi Ong: una destra perfino un po' grottesca, perché vorrebbe resuscitare la faccia poliziesca dello Stato avendo però smontato del tutto lo Stato. Se non è la Guardia Costiera a governare la situazione, nel Mediterraneo, è perché centrodestra e centrosinistra hanno indistinguibilmente distrutto lo Stato, definanziando e disprezzando tutto ciò che è pubblico, dalle forze di polizia alla scuola, dalla sanità alla forestale, dalle biblioteche ai pubblici ministeri. E non è certo militarizzando le Ong che si ricostruisce lo Stato. Come non è con il reato di immigrazione clandestina che si può sperare di affrontare l'età delle migrazioni.

La terza destra è quella di Matteo Renzi. Una destra anarcoide, individualista e populista. Una destra che sostituisce allo Stato una somma di gated communities: comunità separate dai soldi, divise per censo. Una destra che non ha nessuna chiusura verso le libertà individuali, anzi le incoraggia in chiave antisociale. Gratificando privatamente i cittadini a cui si toglie ogni dimensione pubblica, sociale, comunitaria.

E, come ha scritto Guido Mazzoni in una analisi molto fine:

Se un certo fondo di anarchismo unisce la destra populista al modello liberale classico, ciò che li separa è l'ethos. La destra populista costruisce se stessa attorno a un'antitesi netta, identitaria, fra Noi e Loro. ... Il senso comune cui la destra populista si richiama nasce dall'arcaico: è l'ethos dei primi occupanti, che separa i legittimi dagli illegittimi, i normali dagli anormali, gli autoctoni dai barbari. Il gruppo dei primi occupanti trasforma la propria identità nel corso del tempo, includendo gruppi di secondi occupanti radicati, o mostrandosi più tollerante verso identità di genere e comportamenti che fino a qualche anno fa avrebbero portato all'esclusione, ma non viene mai meno l'asimmetria fra chi viene-prima e chi viene-dopo.

È esattamente questa la chiave culturale che permette di comprendere l'affermazione di Renzi sull'"aiutiamoli a casa loro".

Dove il punto è la contrapposizione delle case: la nostra, la loro. Un fortissimo richiamo identitario: il conflitto tra "Noi" e "Loro" che prende il posto del conflitto di classe e di censo, negato, rimosso, depotenziato. E questa terza destra, si badi, non è solo del leader: la mutazione riguarda tutto il partito, come dimostrano le affermazioni di una esponente della segreteria Pd sulla "razza italiana" da perpetuare, quelle di un senatore sul fatto che salvare vite umane non è un obiettivo (perché sono le Loro vite, beninteso), quelle della sindaca che aumenta le tasse a chi accoglie Loro.

Mi pare che se non si prenda atto di questa triplice involuzione destrorsa del Partito democratico tutti i discorsi sul futuro della Sinistra italiana non faranno i conti con la realtà. È davvero possibile un centrosinistra se il centro è questo? E una forza come Mdp (che vota la legge sulla concorrenza e sostiene il governo del Codice Minniti) ambisce a contrastare l'egemonia culturale di questa nuova destra espansiva, o ne è a sua volta vittima? Sono questi i nodi da sciogliere.

Perché oggi un progetto per una nuova sinistra non può che ripartire da quel "pieno sviluppo della persona umana" che l'articolo 3 della Costituzione indica come bussola alla Repubblica. Mai come in questa estate essere e restare umani appare un obiettivo rivoluzionario.

 

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L’appello. Solidarietà a Medici senza Frontiere e a tutte le Ong impegnate nel Mediterraneo

Noi sottoscritti esprimiamo pubblicamente una incondizionata solidarietà a Medici senza Frontiere e a tutte le Ong impegnate nel Mediterraneo a salvare la vita dei disperati che fuggono da guerre e miseria in gran parte provocate dai Paesi ricchi che oggi li vogliono respingere.

 

Esprimiamo inoltre una critica radicale al Codice Minniti che riteniamo sia il Manifesto della diserzione dell’Italia e dell’Europa da ogni etica umanitaria.

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Piero  Bevilacqua, Tomaso Montanari (Presidente di Libertà e Giustizia), Ilaria  Agostini , Enzo Scandurra, Andrea Ranieri, Laura  Marcreati, Ignazio Masulli, Tonino Perna, Tiziana Drago, Giuseppe Aragno, Lucinia Speciale, Piero Di Siena, Franco Trane, Luigi Vavalà, Mario Fiorentini, Giovanni Attili, Francesco Santopolo, Laura Marchetti, Renato Accorinti (Sindaco di Messina), Maurizio Zavaglia (Presidente Consiglio comunale di Gioiosa Jonica), Vittorio Boarini, Maria Pia Guermandi, Alessandro Bianchi, Piero Caprari, Francesca Leder, Cristina Lavinio, Stefano Sylos Labini, Carmelo Buscema, Giorgio Nebbia, Rossano Pazzagli, Antonella Golino, Lidia Decandia, Velio Abati, Bia Sarasini, Ugo Olivieri, Giuseppe Saponaro, Daniele Vannetiello, Alessandro Giangrande, Luisa Marchini, Amalia Collisani, Ginevra Virginia Lombardi, Vezio De Lucia, Sandra Bonsanti, Nadia Urbinati, Maria Luisa Boccia.

Per aderire all’appello inviare la firma a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.googlegroupsQuesto indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

 

 

 

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