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A legislatura finita, mentre chiude i battenti, come di sfuggita, il governo Gentiloni che, in chiave di preoccupazione elettorale, ha deciso di non mettere all’approvazione lo Ius soli perché «manca la maggioranza» per via del voto contrario in Parlamento della destra (e l’astensione del M5s), sceglie ora una nuova avventura militare con un voto bipartisan, con l’appoggio in Parlamento della destra, da Forza Italia a Fratelli d’Italia e l’astensione della Lega pur d’accordo con la missione: in fondo è così che li «aiutiamo a casa loro».

Siamo in campagna elettorale e siccome è stato valutato il «valore positivo» nell’urna perfino delle dichiarazioni razziste del leghista «costituzionalista» Fontana, va da sé che anche il valore elettorale di questa missione militare in Niger è altissimo.

Come preminente è l’emergere del ruolo centrale di Minniti che, da ministro di polizia, ha coordinato e coordina la crisi nigerina, dopo la crisi in Libia, con la carta bianca e i finanziamenti elargiti alle “autorità” di Tripoli – sempre più nel pieno di una guerra per bande – per fermare ad ogni costo – con la detenzione, le minacce, le violenze – i migranti. Colpevoli tra l’altro di alimentare un immaginario che metterebbe in discussione «le basi della democrazia» – parola del ministro degli interni. Che ha preferito la guerra ai soccorsi a mare delle Ong contribuendo a chiudere ai profughi la rotta del Mediterraneo.

E che ora con tutto il governo Gentiloni si è attivato per una estensione del modello libico, perché la frontiera dell’Italia e dell’Europa «è il Niger», la sponda sud dei paesi del Sahel, oltre il deserto del Sahara.

Lì vanno fermati i disperati e coraggiosi in fuga dalle nostre troppe guerre e da quelle intestine di un’Africa martoriata che in questo momento sopporta 35 conflitti armati ed è sempre sottoposta alla rapina delle sue risorse necessarie al nostro modello di sviluppo e sfruttamento.

Un modello che per dominare ha bisogno di corrompere le leadership locali (dalla Nigeria, alla Costa d’Avorio, al Niger, al Mali, al Ciad, al Burkina Faso, al Camerun, al Congo, ecc.).

Sconcertanti le motivazioni che arrivano dal governo Gentiloni.

In Senato la ministra della difesa Pinotti ha ribadito l’incredibile versione che «quella che sta per partire non è una missione combat ma di addestramento per il controllo dei confini che si coordinerà con i francesi con gli americani», spiegando che «appena il parlamento approverà la deliberazione sono pronti a partire 120 militari che, secondo le esigenze, potranno arrivare a 470», più 130 mezzi terrestri e due aerei da guerra.

Sembra un’operazione contabile: verranno stornati militari dall’Afghanistan – dove siamo nella fallimentare guerra Usa-Nato da 16 anni – e dall’Iraq perché lo jihadismo «è sconfitto», ma si tace che il Paese è spaccato in tre realtà e dilaniato dal conflitto tra sunniti e sciiti.

Ora come si fa a raccontare che non è una missione combat quando molti «addestratori» francesi e americani vengono uccisi in combattimento proprio in Niger? Si dirà poi che in fondo sono poche centinaia di soldati: ma non è forse stato così l’inizio delle scellerate presenze militari in Somalia e in Iraq?

Più insidiosa ma non meno drammatica è l’affermazione sempre governativa che «andiamo in Niger per impedire un’altra Libia».

Ma se la Libia è ridotta così è proprio grazie all’intervento militare della Nato del marzo 2011 a guida francese, il cui disastro ha influenzato perfino le elezioni americane. Qualcuno poi dovrà spiegare come sarà possibile fermare i migranti, per allontanarli – loro e le stragi a cui sono condannati – dagli occhi dell’opinione pubblica e dalla coscienza d’Europa, per nascondere sotto la sabbia le tragedie del milione di persone rimaste intrappolate in Libia; come si può controllare una frontiera di più di 5mila chilometri se non attivando una sorta di caccia vera e propria ai profughi.

Una guerra ai migranti. Come non vedere che la partecipazione a questa missione, della quale si contrabbanda che «ci è stata richiesta il 1 novembre scorso dalle autorità nigerine di Njamey», ed è vantata come un aiuto «contro i jihadisti», rappresenta in realtà un vulnus alla democrazia dei Paesi africani che tornano ad essere considerati – e politicamente esposti al giudizio interno nel poverissimo Niger – solo come tutela coloniale. Come hanno rimproverato i giovani dell’università di Ouagadougou a Macron che li sfidava: «Non siete più sotto il dominio coloniale».

La realtà dice che le economie, le risorse minerarie preziosissime (uranio, coltan, petrolio), la stessa terra, così come le riserve monetarie in franchi Cfa, sostanzialmente ancora coloniali, sono nelle mani dell’Occidente (ma anche dell’Arabia saudita e della Cina) e della nuova primazia militare che avanza in chiave di difesa europea alla prova in Africa: quella di Parigi. Alla quale ormai ci siamo accodati.

Capovolgiamo allora l’obiettivo governativo per la missione militare in Niger che anche stavolta viene rappresentata come «umanitaria». A sinistra avranno un grande valore elettorale la scelta o il rifiuto di questa nuova avventura coloniale.

Che la guerra, finalmente, torni ad essere la discriminante.

 

 

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 Il documento. «Per invertire la rotta, per rovesciare il tavolo delle disuguaglianze», le città come il punto di partenza. Un contributo utile anche per dopo le elezioni

 

È stato pubblicato sul sito «Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza» il documento che sintetizza e dà una veste unitaria ai contributi che sono venuti dalle riunioni che si sono svolte in tutta Italia secondo le modalità indicate dall’assemblea nazionale del Brancaccio.

Assemblee a cui hanno partecipato, in maniera libera e aperta, militanti di Sinistra Italiana, di Possibile, di Mdp e di Rifondazione, e soprattutto centinaia di donne e uomini non iscritti a nessun partito, e che fanno politica in maniera autonoma nei loro luoghi di vita e di lavoro.

Come ricorderete, l’ambizione del Brancaccio era proprio questa: ricostruire una connessione fra i militanti della sinistra politica e quanto si è mosso nella società, fuori e qualche volta contro i luoghi della politica istituzione, per mettere radicalmente in discussione l’ordine delle cose esistente.

L’obiettivo ambizioso era il reinsediamento sociale della politica della sinistra.

SI PENSAVA CHE le elezioni politiche avrebbero potuto essere il terreno su cui cominciare questo lavoro, forti anche del buon risultato conseguito alle elezioni amministrative in molte città dalle coalizioni civiche che si erano costituite con queste modalità, con l’appoggio di tutta la sinistra politica, ma senza pregiudiziali e col massimo coinvolgimento della società civile attiva.

Come noto, l’ambizione di costruire una coalizione civica nazionale è naufragata di fronte all’autoreferenzialità e al rispuntare di pregiudiziali ideologiche nei partiti, e alla debolezza della stessa società civile attiva, che non si è impegnata in quest’opera con lo stesso entusiasmo e la stessa intelligenza di cui aveva dato prova in tante esperienze territoriali.

Il Brancaccio non è diventato una lista elettorale e pur tuttavia ha prodotto idee, contenuti, pratiche che riteniamo preziosi per una sinistra politica e sociale che voglia pensare al proprio futuro oltre le elezioni.
Contenuti e pratiche per la democrazia di ogni giorno.

Perché se si vuole invertire la rotta che ha provocato quella che Papa Francesco ha definito come «la bancarotta dell’umanità» sarà necessario un impegno quotidiano, di conflitto e di partecipazione, per conquistare qui ed ora, quel «buon vivere» che l’assetto attuale dell’economia e del potere ci nega.

IL RAPPORTO TRA istituzioni e movimenti è rovesciato. I movimenti sociali e culturali non sono visti come incubatori per una politica che vuole conquistare il governo del Paese, ma è la politica che deve rivelarsi utile ad aprire spazi all’iniziativa democratica nei luoghi di lavoro e della vita. Il partito da costruire non può pensarsi come il vertice di una piramide ma come il nodo di una rete con tutte le altre forme della politica che vivono nel conflitto sociale. Le elezioni sono un mezzo, e non il fine dell’agire politico.

La stessa discussione sulla ripartizione dei poteri fra i livelli istituzionali va rapportata a questa priorità.

Da qui l’attenzione che il documento presta al tema delle città, come il luogo in cui le persone organizzate possono far sentire la loro voce e far pesare le loro scelte, e su cui si sono misurate e si misureranno le coalizioni civiche in essere e quelle che verranno.

UN PROGETTO CHE proprio perché parte dalle persone non assume l’economia come la priorità e la base a cui rapportare ogni proposta. Non c’è il gioco presente in ogni programma di sinistra più o meno keynesiano, cioè quello di dimostrare che in fin dei conti tutte le proposte, da quelle sul lavoro a quelle ambientaliste a quelle sulla cultura e sulla scuola, e persino quelle portate avanti dal movimento delle donne, sono legittime perché funzionali a un nuovo sviluppo economico e a una nuova crescita.

Anzi è il concetto stesso di sviluppo economico che viene messo radicalmente in discussione. Perché è l’aver assunto la crescita di consumi come il misuratore fondamentale del benessere, sia per la destra che per la sinistra, che ha trascinato la parte maggioritaria del movimento dei lavoratori dentro le compatibilità e i valori della borghesia.

Oggi è la stessa messa a rischio della vita umana sul pianeta a mettere in crisi questo modello. Salvare il mondo dal disastro ecologico, promuovere la dignità e la libertà del lavoro, costruirne di nuovo, è possibile solo allargando gli spazi da sottrarre alla tirannia del mercato. È l’economia, ce lo ha spiegato tra gli altri papa Francesco, che deve seguire il lavoro e il buon vivere, non viceversa.

AI LAVORI DEL BRANCACCIO hanno partecipato anche tanti giovani e non più giovani economisti, e nel documento troverete precise proposte sul fisco, sulla Finanza, sulla necessità di rinnovare radicalmente le regole che governano la comunità europea, tutte nell’ottica di liberare potenzialità e risorse per allargare le possibilità di conflitto e di autodeterminazione.

Difficile prevedere come voteranno e come parteciperanno alle elezioni i militanti che si sono impegnati a organizzare e quanti hanno partecipato alle «cento piazze» del Brancaccio. Una parte consistente si impegnerà con Liberi e Uguali, altri in Potere al popolo, altri ancora saranno tentati dal «voto utile» al Movimento 5 stelle, qualcuno, speriamo pochi, non andrà a votare.

Mi paiono però tutti convinti che le elezioni non chiudano il discorso. E che dopo le lezioni, comunque vadano, andrà ripreso il cammino per costruire la sinistra che non c’è ancora.

 

 

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Su "il Manifesto" del 9 gennaio Alba Sasso (in passato deputata e fra le promotrici del CIDI) interviene con circostanziate osservazioni sulla proposta lanciata da Pietro Grasso di abolizione delle tasse universitarie.

Diritto allo studio. L'abbattimento delle tasse universitarie va finanziato dalla fiscalità generale, da rendere sempre più progressiva

di Alba Sasso

La proposta di abolire la contribuzione studentesca, per l’accesso all’Università, fatta domenica da Pietro Grasso durante l’assemblea di Liberi e uguali, ha suscitato un grande dibattito. E mi sembra un’ottima cosa.
Ma proviamo a mettere in fila alcuni dati.
1.L’Italia ha solo l’8% di beneficiari di borse di studio universitarie ed è, al contrario, al terzo posto in Europa per pressione fiscale sugli studi accademici.
Insomma tasse più care e borse di studio insufficienti.
2. Negli ultimi cinque anni mentre l’ammontare della contribuzione studentesca è cresciuto del 14,5%, diminuiva il fondo di funzionamento ordinario per l’Università (Ffo);
3. Siamo penultimi in Europa per numero di laureati. Secondo i dati forniti da Eurostat 2017 gli adulti tra i 30 e i 34 anni che hanno completato gli studi universitari sono solo il 26,2% della popolazione. Ben lontano da quel 40% di laureati previsto dal programma Europa 2020. Peggio di noi, solo la Romania (25,6%). E per di più siamo un Paese che ha complessivamente solo il 18% di laureati;
4. Non saremmo poi l’unico paese in Europa a fare questa scelta. È cosi in Germania, Scozia, nei paesi scandinavi; in molti altri le tasse universitarie sono bassissime.
Di fronte a questa realtà, la proposta di eliminare la contribuzione studentesca significa venire incontro alle famiglie che sempre di più, in questi ultimi anni, stentano a sostenere le spese per l’Università e cominciare a realizzare quel “diritto allo studio”, previsto dalla nostra Costituzione, sempre proclamato, difficilmente attuato.
Perché poi per studentesse e studenti ci sono i costi dei libri di testo, e in più, per i fuori sede, alloggi e mense non sempre coperti dai contributi regionali. Non dimentichiamo che in Italia esiste la la “perversione” dell’idoneo non beneficiario. Cioè studentesse e studenti che hanno i requisiti per avere borse di studio, mentre i fondi per il diritto allo studio (nazionali e regionali) non bastano per tutti.
È inoltre evidente che sarebbe necessario legare questa misura alla regolarità degli studi (i capaci e meritevoli, appunto). E a un aumento consistente dei fondi per il diritto allo studio nazionali e regionali. Liberando questi ultimi dalla scure del patto di stabilità.
Ecco, non capisco allora tutti i distinguo e le paure.
Il problema, con chiarezza, in Italia è un altro.
1. Nel nostro Paese il basso numero di iscritti all’Università non è, innanzitutto, il risultato di un’arretratezza storica; al contrario c’è stato un calo delle immatricolazioni negli ultimi cinque anni che è stato prodotto da scelte politiche evidentemente sbagliate, che hanno reso sempre più impervio l’accesso ai livelli più alti degli studi. E questo mentre si registrava un pesante processo di impoverimento dei ceti medi.
2. Questo fenomeno, grave e doloroso, si è prodotto in un contesto di pesante sofferenza dell’occupazione giovanile nel quale il possesso di un titolo di studio di più alto livello, come dall’ultimo rapporto di Almalaurea, rappresenta, pur sempre, un vantaggio occupazionale.
3. Infine, non si capisce quali prospettive pensi di darsi un Paese che, strutturalmente, indebolisce negli anni la qualità della sua forza lavoro.
È su questo che interviene la proposta della gratuità dell’accesso agli studi universitari. Occorre infatti rovesciare una tendenza che ha portato a aumentare i costi degli studi proprio mentre si sarebbe dovuto investire per evitare la deriva della descolarizzazione. Questa misura va perciò pensata come tendenzialmente universalistica. E va finanziata dalla fiscalità generale, da rendere sempre più progressiva.
Infine, mi pare inutile ora stare a spaccare il capello in quattro. Se si tratta, come è ovvio, di non rendere gratuiti gli studi dei più abbienti – e solo di questi -, sarà assai semplice trovare in una legge le modalità per farlo.

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da huffingtonpost.it

Solo in Italia può accadere che un'eccellenza industriale e una donna di valore finiscano nell'occhio del ciclone per una legge scritta male. Novamont e la sua Ad Catia Bastioli raccontano il volto migliore del paese fatto d'innovazione industriale e di persone che sanno unire le competenze tecnico scientifiche a capacità manageriali. Altrove diventerebbero un esempio, in Italia vengono trascinati nel fango. Cosa è successo? Con il nuovo anno è scattata la messa al bando dei sacchetti ultraleggeri gratuiti destinati agli alimenti e la loro sostituzione con buste a pagamento biodegradabili.

 La direttiva europea che la legge recepisce è del 2015 e punta alla consapevolezza dei consumatori sul fronte della riduzione dei rifiuti. La direttiva non dice che bisogna pagare i sacchetti in bioplastica con cui sono stati sostituiti quelli in plastica tradizionale, ma che il costo dei sacchetti va reso trasparente nello scontrino, cosicché i consumatori sappiano che quello che consumiamo "usa e getta" e senza preoccuparci di dove finisce ha un costo e che quindi bisogna dargli valore. Ecco, quello che questo Governo avrebbe dovuto fare insieme al recepimento della direttiva sarebbe stato preparare i cittadini a questo ennesimo passaggio giusto e necessario verso una trasformazione in senso ecologico di consumi e comportamenti.
 
Si potevano magari fare campagne di comunicazione in cui si spiegava il perché e il come ci sarebbe stata questa novità; si poteva chiedere al Ministero della Salute di modificare le norme sanitarie che impediscono l'uso di sacchetti in tela o comunque personali e riutilizzabili per pesare ed etichettare i prodotti sfusi in un supermercato; si poteva lavorare sulla diffusione di sacchetti in carta come nei mercati oppure spingere le catene della grande distribuzione a fornire ai propri clienti alternative riutilizzabili come accade nella coop in Svizzera.
 Si poteva... certo... si poteva avendo a disposizione un Ministero dell'Ambiente consapevole e responsabile del proprio ruolo verso i cittadini consumatori. Tutto invece è stato fatto in maniera tecnicista e burocratica e magari con la malizia di rendere invisa ai cittadini una delle scoperte e innovazioni ambientali più straordinarie degli ultimi anni: il biopolimero vegetale, che ha sostituito la plastica e che ci aiuterà a ripulire le nostre città e i nostri mari dalla plastica oltreché a riutilizzare gli scarti vegetali e a creare nuovi posti di lavoro specializzati qualificati e competitivi a livello internazionale.
 I produttori di plastica e gli estrattori di petrolio ringraziano per questa ennesima cialtroneria di Stato che fa passare l'innovazione ambientale al reparto "costi e tasse per i cittadini". La nuova norma ha lo scopo di ridurre la dispersione della plastica nell'ambiente, quindi di tutelare la biodiversità e la nostra salute. Se il prezzo sarà giusto (il costo del sacchetto non supera i 2 centesimi, per una spesa annua per famiglia minore di un pacchetto di sigarette se la grande distribuzione organizzata non ci specula sopra) sono convinta che gli italiani capiranno in fretta il valore di questo piccolo grande cambiamento. Come hanno dimostrato di apprezzare gli effetti della legge contro le buste della spesa non compostabili entrata in vigore nel 2011 e che ha portato a una riduzione del 55% dell'uso dei sacchetti di plastica nonostante non sia ancora pienamente rispettata.

In Europa, secondo le stime dell'Epa, si consumano circa 100 miliardi di sacchetti all'anno: un'enormità, di cui buona parte finisce dispersa in particolare in mare. Un biopolimero come il Mater-bi di cui sono composti i nuovi shopper si degrada negli impianti di compostaggio completamente. Puntare, dunque, sulla sostituzione delle buste di plastica tradizionali con prodotti compostabili è una partita che vale la pena giocare con un po' di lungimiranza.

Anche perché la chimica verde - che utilizza materie prime rinnovabili di origine agricola per realizzare una nuova generazione di prodotti e composti chimici a basso impatto per l'ambiente e per la salute - è uno dei fiori all'occhiello del nostro paese e, se sapremo giocare bene la partita, uno dei tasselli fondamentali del nuovo sviluppo italiano. Le bioplastiche non sono solo un'opportunità per minimizzare i rifiuti in plastica, ma una chiave per risolvere problemi ambientali, riducendo l'uso di materie prime fossili, le emissioni di anidride carbonica e i rischi legati alla dispersione di prodotti inquinanti nell'ambiente.

Sarà una coincidenza (non ci credo) ma aumentano gas e luce e la responsabilità secondo alcuni è delle rinnovabili; passa la norma sui sacchetti biodegradabili e la colpa è "dell'amica di Renzi" e dell'innovazione ambientale (Bastioli è amica dell'ambiente e le attività industriali sviluppatesi grazie alle sue invenzioni sono amiche del paese). A me tutto questo puzza di Medioevo: vogliono tenerci nell'era dei fossili e di come i cittadini possano vivere meglio non importa a nessuno! Possiamo, per esempio, legare la diffusione delle buste a una riduzione dei costi della tassa sui rifiuti fatta ai commercianti? Possiamo passare dalla tassa alla tariffa per premiare chi produce meno rifiuti dentro casa o nella propria attività commerciale? Possiamo essere un paese moderno e civile? Io ci credo. Venerdì 5 gennaio io e Pietro Grasso saremo in un impianto Novamont per parlare di lavoro pulito, di innovazione e di ricerca ovvero di quello che serve all'Italia... oltre a un Ministero dell'Ambiente che sappia fare il suo lavoro.

 Rossella Muroni

* Coordinatrice della campagna elettorale di Liberi e Uguali. Già presidente Nazionale di Legambiente

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Riportiamo dal Corriere di Romagna, edizione Forlì-Cesena del 29/12, l'articolo sulla nascita di ALEA, società pubblica che subentra ad Hera nella raccolta dei rifiuti dei comuni del forlivese; oltre che l'intervista ad Alberto Bellini, ex assessore all'Ambiente, tra gli ideatori del progetto. Come si è sostenuto in diverse occasioni, anche su questo sito, si può fare. Quando c'è la volontà politica.

 

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