Proclamato ieri come presidente per il periodo 2025-2031 presso la sede del Consiglio nazionale elettorale (Cne), Nicolás Maduro ha ora di fronte a sé l’ardua sfida di convincere la parte del mondo che non lo ama di aver vinto legittimamente le presidenziali di domenica.
Non sarebbe stato comunque sufficiente, non lo è mai stato una sola volta, che il sistema elettorale venezuelano sia tra i più affidabili al mondo, sottoposto com’è a ben 16 verifiche prima, durante e dopo il voto alla presenza di rappresentanti di tutti i partiti e di osservatori nazionali e internazionali. Un sistema a prova di brogli, persino da parte di un governo che non si è fatto tanti scrupoli a ostacolare le candidature dei suoi avversari, specialmente quelle alla sua sinistra, e di impedire il voto a un enorme numero di venezuelani all’estero, presumibilmente poco propensi a sostenere Maduro.
LA BONTÀ del sistema di voto in Venezuela sarebbe in ogni caso irrilevante per la destra radicale, convinta, come già aveva evidenziato in campagna elettorale, che una vittoria di Maduro sarebbe stata possibile solo con i brogli. Coerente con il suo intento di non accettare altro risultato che non fosse quello gradito, María Corina Machado ha prontamente rivendicato la vittoria per sé e per il suo candidato: «Abbiamo raccolto più del 73% dei voti, e il nostro presidente eletto è Edmundo González», ha dichiarato in conferenza stampa, affermando che i voti per il candidato dell’opposizione supererebbero i 6 milioni e mezzo, contro i 2 milioni e 700mila (per l’esattezza, 759.256) per Maduro. Dati considerati non plausibili pure da chi non è necessariamente schierato con il governo.
Ma Machado è andata oltre, sostenendo di avere già la prova «matematica e incontrovertibile della vittoria», che sarà resa disponibile attraverso un portale web «a cui l’elettore venezuelano può accedere inserendo i propri dati personali e in cui potrà trovare la propria scheda, in modo tale che ciascun elettore potrà validare il proprio voto e vedere se corrisponde con quello che è stato inserito».
NELL’ATTESA, divampano in tutto il paese le proteste, anche violente, dell’opposizione – il cui portavoce Perkins Rocha parla di «almeno tre morti nelle contestazioni ad Aragua» -, finora controllate dalle forze di sicurezza. Mentre si mobilitano anche i sostenitori di Maduro, decisi a riconquistare le piazze cittadine.
A risultare decisiva, però, potrà essere solo la divulgazione dei dati ufficiali – i registri di voto di ciascuno degli oltre 30mila seggi – garantita dal procuratore generale del Venezuela Tarek William Saab «nelle prossime ore», non appena, evidentemente, sarà stata ripristinata la pagina web del Cne, ancora inaccessibile in seguito all’attacco informatico al sistema di trasmissione di dati denunciato da Maduro, che, secondo il procuratore, sarebbe stato coordinato dalla Macedonia del Nord (e per il quale Machado è stata indagata). Ma più le ore passano più è a rischio la credibilità del presidente in carica, il quale, da parte sua, denuncia un nuovo tentativo di golpe «di carattere fascista e controrivoluzionario», «una sorta di Guaidó 2.0».
E PROPRIO di questo Maduro avrebbe parlato con il consigliere speciale di Lula per gli affari internazionali Celso Amorim, che si incontra ancora a Caracas come osservatore elettorale per conto del governo brasiliano. «Ci sono vari gruppi di opposizione – gli avrebbe detto il presidente venezuelano – che vogliono un’alternativa democratica e pacifica. Ma questo è un gruppo fascista. Non ci troviamo di fronte a un’opposizione democratica, ma a una controrivoluzione violenta, fascista e criminale. Non mi stancherò di spiegarlo al mondo».
DIFFICILMENTE però il mondo si convincerà, senza i dati dettagliati della votazione, malgrado la cautela tutto sommato fin qui mostrata dal governo Biden, il quale sembra intenzionato a coordinarsi con altri governi latinoamericani e in particolare con il Brasile di Lula, con il quale sosterrà un colloquio telefonico proprio per discutere sulle elezioni in Venezuela. E non si convincerà di sicuro l’Unione europea, che in una dichiarazione piuttosto dura sull’intero processo elettorale – su cui l’Ungheria ha messo il veto – esclude qualsiasi riconoscimento «fino a quando non saranno pubblicati e verificati tutti i registri ufficiali dei seggi elettorali».
NEI CONFRONTI invece di chi non si è limitato a esprimere dubbi, ma ha denunciato più o meno esplicitamente eventuali brogli, la risposta del governo è stata molto decisa: è di ieri l’annuncio da parte di Maduro dell’espulsione del rappresentante diplomatico di Buenos Aires insieme a quelli di Cile, Costa Rica, Perù, Panama, Repubblica Dominicana e Uruguay, tutti accusati di «interferire» nel processo elettorale.