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Orbán si mette di traverso sui 50 miliardi di aiuti all’Ucraina e blocca il bilancio comunitario. Inclusi i fondi per la lotta all’immigrazione esaltati da Meloni. Che sul nuovo Patto di stabilità rischia di trovarsi di fronte a un dilemma: accettare la resa o non firmare, entrando in rotta con la Ue

ITALIA/UE. Il vertice Ecofin del 20 rischia di andare a vuoto. Per la premier il rischio di dover scegliere tra il no e la resa si fa più concreto

«Posizioni distanti» Meloni nel tunnel del Patto di stabilità Giorgia Meloni - Ansa

Per Giorgia Meloni si avvicina il momento della scelta più difficile. Il rischio di dover decidere tra un veto sulla riforma del Patto di stabilità che potrebbe guastare i rapporti con la Ue e l’ingoiare regole capestro è concreto. Ieri lo hanno detto quasi senza perifrasi sia lei da Bruxelles che Giorgetti da Roma.

«Le posizioni sono ancora abbastanza distanti. Bisogna lavorarci ora per ora», ammette la presidente del consiglio. «Le possibilità di arrivare a un accordo la prossima settimana sono scarse», conferma il ministro dell’Economia. È dunque probabile che anche il vertice straordinario Ecofin del 20 dicembre vada a vuoto. Del resto, duettano i principali esponenti del governo, decisioni di tale portata «non si possono prendere in videonconferenza». Servirà probabilmente un secondo vertice eccezionale prima del 31 dicembre, stavolta in persona. Sempre che ce ne siano gli estremi perché convocare un vertice per registrare il fallimento annunciato sarebbe solo controproducente.

LA PARTITA NON È né chiusa né persa, però non è neppure vicina a concludersi in modo per l’Italia soddisfacente. Sul tema, nel punto stampa da Bruxelles, la premier è particolarmente cauta, quasi pesa le parole. Nessuna richiesta ultimativa in sé: «È un equilibrio che deve tenersi insieme. Ci sono ancora almeno tre punti in discussione e creano un equilibrio diverso. Bisogna tenere aperte tutte le strade finché non si capisce qual è il punto di caduta migliore che si può ottenere».

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I tre punti sono tali da non autorizzare grandi ottimismi, data la posizione rigida assunta dalla Germania e dai Paesi nordici: i parametri delle clausole di salvaguardia su deficit e debito, in particolare quella zona cuscinetto sul deficit che porterebbe di fatto la soglia del parametro ben al di sotto del 3% di Maastricht; la flessibilità nel rientro dello 0,5% sul deficit, che i frugali, e neppure tutti, sono disposti a concedere solo per tre anni mentre Italia e Francia la vorrebbero fissa, tenendo cioè sempre conto degli interessi maturati per le spese strategiche, Green Deal, digitalizzazione e Difesa; gli incentivi per procedere con le riforme, in particolare quelle del Pnrr e per la Difesa. Su un pacchetto del genere trovare un punto d’equilibrio che soddisfi sia la Germania che l’asse franco-italiano sarà un’impresa.

Meloni prova a giocare di diplomazia, evita di minacciare apertamente il veto: «Non voglio metterla così. Non sarebbe un buon modo di cercare una sintesi». Poi però lei stressa conferma che la possibilità estrema non è esclusa: «Solo una cosa non posso fare: dare il mio ok a regole che non io ma nessun governo italiano potrebbe rispettare». Giancarlo Giorgetti è più stringato: «Metteremo la firma solo se ci sono gli interessi del Paese». Detta firma, anche se la premier per diplomazia lo nega, trascina anche quella sul Mes. «Questo link lo vedono solo in Italia», assicura Giorgia Meloni, ma firmare il Mes dopo aver bloccato il Patto di stabilità è una eventualità non contemplata.

SAREBBE UNA SCELTA difficilissima per tutti. Per questo governo lo è ancora di più. Nel suo primo anno a palazzo Chigi la presidente del consiglio ha ottenuto successi politici molto più a Bruxelles che a Roma. Di concreto, anche da questo difficile Consiglio europeo non porta a casa niente. Ha esaltato i quasi 10 miliardi per la lotta contro l’immigrazione, giacché solo di questo si tratta, inseriti nella bozza di modifica del bilancio. Ma sono soldi virtuali, almeno per ora, dato che l’amico ungherese Viktor Orbán li ha bloccati. Si compiace per gli applausi tributati dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen all’accordo con l’Albania. Che però è congelato dalla Corte costituzionale albanese. Meloni è ottimista sullo soluzione positiva di entrambe le vicende ma al momento la realtà è questa.

Dal punto di vista politico, invece, qualche risultato la premier italiana lo incamera: è stata importante se non decisiva nel costringere Orbán a una prima ma non definitiva resa: cose che in Europa contano parecchio. Il duello tra lei e il presidente francese Emmanuel Macron si è concluso con un’alleanza cementata dall’interesse comune. Pur se solo sulla carta, i falchi che puntavano i piedi sul bilancio negando anche un solo euro alla crociata sull’immigrazione hanno fatto un passo indietro. Però se l’Italia da sola bloccasse sia la riforma del Patto di stabilità che quella del Mes il clima a Bruxelles diventerebbe molto meno idilliaco. Se invece Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti si piegassero, dovrebbero poi governare per quattro anni in condizioni proibitive. Nessuno più di loro, oggi, spera che quel magico punto d’equilibrio, di qui ai botti di capodanno, si materializzi