Alla presidente del Consiglio manca una parola. Nell’anniversario della strage di Bologna, Mattarella ricorda «la matrice neofascista accertata nei processi», poi persino La Russa e Fontana fanno lo sforzo. Ma Meloni no: si ferma a «terrorismo» e i suoi riprovano con la pista palestinese
OMISSIS. Nel suo primo 2 agosto da premier, la postmissina evita di citare la matrice della bomba di Bologna. Dal Quirinale dichiarazione netta
La manifestazione a Bologna in ricordo della strage - Ansa
La parola che manca è un aggettivo: neofascista. Diventa la discriminante di questo primo 2 agosto, anniversario della strage di Bologna, del governo retto da una presidente del consiglio che viene dalla storia del Movimento sociale italiano.
LEI, GIORGIA Meloni, non la pronuncia. Utilizza una formula generica per ricordare l’attentato più grave della storia della Repubblica. «Il 2 agosto 1980 il terrorismo ha sferrato all’Italia e al suo popolo uno dei suoi colpi più feroci – recita il suo messaggio – Sono trascorsi 43 anni ma, nel cuore e nella coscienza della nazione, risuona ancora con tutta la sua forza la violenza di quella terribile esplosione, che disintegrò la stazione di Bologna e uccise 85 persone e ne ferì oltre duecento».
Poi introduce la seconda variabile linguistica della giornata, il concetto di «verità». Per la presidente del consiglio, «giungere alla verità sulle stragi che hanno segnato l’Italia nel dopoguerra passa anche dal mettere a disposizione della ricerca storica il più ampio patrimonio documentale e informativo. Questo governo, fin dal suo insediamento, ha accelerato e velocizzato il versamento degli atti declassificati all’Archivio centrale dello stato e li ha resi più facilmente consultabili, completando quella desecretazione che era stata avviata dai governi precedenti».
L’operazione si propone di sganciare la strage di Bologna dalla storia dell’estrema destra e da
quella matassa che faticosamente viene alla luce e coinvolge estremisti di destra e apparati dello stato. La storia dell’underdog con la quale ha debuttato da premier prevede un antefatto che dice esattamente il contrario: il mondo del fascismo italiano dopo la Seconda guerra mondiale era fatto di reietti ma idealisti, gente che in fondo voleva soltanto difendere la tradizione e la storia patria dal comunismo.
EPPURE, ed eccoci all’autorevole contraltare a Meloni, una verità esiste. È stata faticosamente ricostruita nel corso di molti processi e per alcuni dei protagonisti della vicenda è arrivta all’ultimo grado di giudizio. Ne parla Sergio Mattarella e a ruota lo seguono tutti gli esponenti delle opposizioni e delle forze sociali. Per farlo non si fa troppi problemi a citare l’aggettivo incriminato: «La matrice neofascista della strage è stata accertata nei processi – dice il presidente della Repubblica – Sono venute alla luce coperture e ignobili depistaggi, cui hanno partecipato associazioni segrete e agenti infedeli di apparati dello stato. La ricerca della verità completa è un dovere che non si estingue, a prescindere dal tempo trascorso. È in gioco la credibilità delle istituzioni democratiche».
NE PARLANO persino i presidenti della Camera e del Senato, che pure provengono da due distinti filoni della destra. Il cattolico-sovranista Lorenzo Fontana intervenendo a Montecitorio dice: «Di fronte alla follia terrorista, che sentenze definitive hanno stabilito essere stata di matrice neofascista, le istituzioni seppero reagire, dimostrando come la nostra democrazia fosse più forte dell’odio e della violenza».
Il postfascista Ignazio La Russa utilizza questa formula: «Va doverosamente ricordata la definitiva verità giudiziaria che ha attribuito alla matrice fascista, neofascista, la responsabilità di questa strage». In verità suona quasi come disclaimer: sono costretto a dirvi che. Poi anche La Russa adopera l’artificio retorico di Meloni: allude al fatto che non tutto è noto e che bisogna continuare a indagare. «Ritengo fondamentale proseguire anche in questa legislatura l’importante opera di desecretazione degli atti delle commissioni parlamentari di inchiesta che hanno indagato su molte tragiche pagine del nostro passato al fine di rimuovere ogni ombra, ogni dubbio, ogni interrogativo ancora aperto», scandisce.
RITORNA l’esercizio tutt’altro che filosofico sulla «verità». Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, sembra fare piazza pulita di ogni ambivalenza: «La verità giudiziaria è la verità, non una verità, e dalla stessa, oltre alle condanne comminate, emergono depistaggi di chi anziché servire lo Stato, come da giuramento, lo tradirono». Verrebbe da chiedersi perché ha votato una mozione che chiede una commissione d’inchiesta. Ecco la risposta: «Ciò detto – prosegue – il lavoro delle istituzioni per diradare le ombre che ancora oggi, a distanza di 43 anni, avvolgono una delle stragi più dolorose e sanguinarie della nostra nazione, deve proseguire con sempre maggiore determinazione»